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Marino Parisotto

il movimento crea l’emozione. Nell’istante deve distinguersi un “adesso”, un “prima” e un “dopo.
MARINO PARISOTTO
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

Motion creates emotion Conosciamo Marino Parisotto dopo un anno di attesa, un periodo nel quale aumentava costantemente la nostra curiosità circa le sue fotografie. Che in esse vincesse la bellezza era palese, doveva comunque esservi dell’altro: i soggetti parevano “galleggiare” in uno spazio privo di tempo, dove era la nostra fantasia a pretendere un finale, un atto conclusivo. Ci eravamo ripromessi di parlarne con l’autore, e così abbiamo fatto alla fine dell’intervista.

Marino con voce consapevole e decisa ci ha descritto il suo motto: il movimento crea l’emozione. Nell’istante (quello decisivo di Bresson?) deve distinguersi un “adesso”, un “prima” e un “dopo”, quasi che il tempo possa allargarsi come per deformarsi, inglobando contenuti, suggerimenti, indicazioni, sussurri, sensazioni e aspettative. La realtà fotografata sembra muoversi, divenire trasformandosi. Il tempo, così elaborato, rappresenterà l’unità di misura del racconto, quello che dovrebbe essere contenuto in ogni immagine scattata.

E’ interessante osservare come questa visione della fotografia sia stata applicata su dei lavori assegnati, dove vendere un prodotto risultava sostanziale. Qui è venuta fuori la complessa competenza artistica di Marino. Lui non ha mai fotografato un’esigenza soddisfatta, preferendo crearne un desiderio per immagini. Ci ha detto: “Io non vendo una bevanda, faccio emergere la sete”. Da qui comprendiamo come il racconto, nei suoi lavori, risulti essenziale. Un’aspettativa sommersa o un semplice desiderio non possono essere trattati con un linguaggio sintetico: vanno narrati, portati in superfice con garbo; sarà il “guardante” a costruirsi la sua storia, attribuendogli un finale.

Circa le fotografie c’è poco da dire rispetto a quanto si coglie visivamente. Hanno dimensione e profondità, una luce che ne esalta una sorta di drammaticità e inquietudine. E poi guardandole quasi si respira il vento: quello che ti fa stringere gli occhi anche solo per intravedere. L’emozione emerge prepotente perché c’è il movimento, ma si esalta nella speranza che accada ciò che desideriamo: guardando e riguardando.

D] Marino, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] E’ una storia lunga a raccontarsi. Sono nato in Canada, da genitori italiani. A cinque anni tornammo in Italia, a Castelfranco Veneto, il paese natale del Giorgione (n.d.r. Giorgio Gasparini, pittore italiano della scuola veneta), che divenne un mio infantile riferimento. Sì perché, col tempo mi sono innamorato dell’arte vera, autentica, quella italiana. Avevo anche il Canova come “vicino di casa”, a Venezia: distante pochi chilometri da casa mia.

D] Arte come prima ispirazione, quindi?

R] L’arte l’ho sempre vista come una forma di ricchezza, persino oggettiva. Del resto, Canova si faceva pagare tantissimo. Sono stato anche indeciso su quale indirizzo accademico intraprendere: Architettura o Economia e Commercio? Optai per quest’ultima soluzione, che oggi considero un altro aspetto veneziano della mia esistenza: arte e mercato. Ecco, sì: forse il Veneto e la sua filosofia influiva tanto su di me; è una regione che può restituirti tante esperienze. Uscivo di casa e vedevo il Giorgione. L’arte mi serviva per plasmare i miei canoni bellezza.

D] L’arrivo alla fotografia parte dalla necessità di rappresentare la bellezza, quindi?

R] Ti avevo anticipato che sarebbe stata una lunga storia. Studiavo Economia e Commercio ed ero quello che si dice un bel ragazzo, di un metro e novanta. L’Università Cattolica costava tanto ed io iniziai a lavorare come modello. I miei colleghi erano quasi tutti americani. Durante le sfilate (due alla settimana, ai tempi) incontrai un grande personaggio, Davide Urso. Insieme venimmo interpellati da un cliente, che ci chiese di organizzare una sfilata e il catalogo della sua azienda con tanto di progetto grafico e fotografie. Capimmo che si trattava di un’opportunità, soprattutto quando la stessa richiesta ci venne rivolta da altre aziende. Decidemmo così di aprire un’agenzia pubblicitaria dedicata unicamente alla moda, Le Officine Creative, con uno sbocco sulla carta stampata e in TV. Fu un successo immediato. Acquisimmo clienti importanti: ITR, Givenchy. Ci chiesero di svolgere anche attività di PR, così realizzammo uno spazio di lavoro in un loft di milleduecento metri quadri, tutto in legno, nel cuore dei navigli. Diventò un famoso show room per le aziende e uno studio per altri fotografi.

D] Di certo si è trattata di un’esperienza imprenditoriale importante …

R] Io ero un po’ il direttore artistico: decidevo il “cosa” e il “come”. Nel 1995 la ITR ci chiese un servizio fotografico con una grande modella: si sarebbe tenuto a Miami. Il fotografo non si presentò. Così mi trovai su un set, con un team cospicuo, di fronte a una modella da diecimila dollari al giorno; con la pressione di un’azienda che esigeva quel lavoro particolare. Sul set mi dissero: “Marino, tu hai già le idee, perché non ti occupi anche degli scatti?”. E poi: “A tempi e diaframmi pensiamo noi”. Iniziai a scattare con una Pentax 6X7, che i ho amato per anni.

D] Finalmente siamo agli inizi, dico male?

R] Sì, è vero. Tutto andò bene: fu fatto anche un libro. Accadde anche un episodio curioso. Un’immagine venne utilizzata per dei poster, con una modella provocante. Eravamo alla fine dell’anno scolastico. A Milano e Torino i ragazzi tagliavano le affissioni e la portavano a casa. Fu fatto un comunicato stampa, ne parlarono i giornali. Su un periodico comparì il titolo: “Bella da strappare”. Fui interpellato dal Corriere della Sera e anche dal TG2. Ero diventato un fotografo.

D] Vi era un carattere distintivo nelle tue fotografie?

R] Il successo mi portò dei clienti stranieri (Hugo Boss), ma io conservavo il mio dualismo: fotografo e direttore artistico. Quando scattavo, facevo in modo che l’immagine comunicasse, vendesse una promessa; questo per dirti che dentro di me viveva sempre l’anima del pubblicitario, quella che guarda alla sensibilità del mercato. C’è sempre da vendere qualcosa, in qualsiasi campo: è la famosa promessa.

D] Fotografia, pubblicità, comunicazione: la tua attività si sviluppava su più fronti …

R] L’agenzia aveva successo. Noi eravamo giovani, in un periodo nel quale non esistevano i computer. Tutto si risolveva in un mare di fotocopie distese sul pavimento. In agenzia eravamo in quindici e un giorno ci siamo ritrovato in quattro. Avevamo delle forti spese da sostenere. Tutti sono in grado di giudicare il bene di un’attività, senza considerare però ciò che ci sta dietro: i costi e la loro gestione. Aspettavo il primo figlio: è stato un periodo molto duro. Tutta la mia visione del mondo capitolava. Ero un forte sostenitore del lavoro di gruppo, così condividevo tutto: anche le relazione con i clienti; volevo che i collaboratori si sentissero partecipi. Fu un grosso errore.

D] Poi arriva Armani …

R] Era settembre. Ci ponevamo domande sul nostro futuro. Ci chiama Armani e vuole che lavoriamo per lui. Non pone condizioni, ci lascia carta bianca. Avevamo appena prodotto un servizio per Wella, con le modelle vestite da angeli; ne ricavammo un libro dal titolo Black and White. Ricordo che scattavamo sulle sommità dei palazzi, a New York senza permesso. Fu un grosso successo. Partii per Miami. Là, ispirandomi al mito di Icaro feci costruire due ali d’alluminio grandi quattro metri, che avrebbero indossato i modelli. Scattai il servizio negli spazi aperti, sulle spiagge bianche, sotto una tempesta d’acqua. Nacque così la campagna stampa di Armani. Era partita la mia vera carriera di fotografo, con il socio che si dedicava unicamente alle PR.

D] Una carriera con tante tappe di avvicinamento …

R] Ho lavorato tantissimo, senza mai aver fatto l’assistente. Non ho neanche frequentato corsi specifici o scuole. Le fotografie di famiglia le scattava mia moglie.

D] Chi è per te il fotografo?

R] Il fotografo è un direttore d’orchestra. Ci sono dei musicisti che suonano al meglio il loro strumento, ma lui è chiamato a dirigere il suono. Io non sarei stato niente senza i miei collaboratori. Con loro parlavo di sogni, creatività e fotografia.

D] Forse ti hanno aiutato i collaboratori, ma nasceva un tuo stile …

R] Mi sono innamorato della luce, con dei grandi proiettori a luce continua; per produrre la mia drammaticità usavo i contrasti, particolarmente a colori. Fotografavo deserti e spiagge bianche: era come dipingere su una tela bianca.

D] Armani, Wella, Givenchy, ITR, Hugo Boss, gli USA, la tua carriera è costellata da grandi clienti …

R] Ne abbiamo dimenticato uno, un mio cliente storico: La Perla di Bologna, un’azienda nata dalla passione di Alberto Masotti, che aveva seguito le impronte materne pur essendo un medico. Le passioni mi hanno aiutato in maniera esplosiva e per me, ai tempi, era importante anche solo una pacca sulle spalle da parte di Alberto: aumentava la mia consapevolezza, il rispetto verso me stesso e verso l’azienda per cui lavoravo. Devo dire che oggi, nelle aziende, i rapporti diretti con i titolari non esistono più, anche perché molte company sono state vendute a dei fondi d’investimento. Esistono i Consigli d’Amministrazione dove nessuno decide perché preoccupati del posto di lavoro. Sono impegnati a essere quotati in borsa, dimostrando al mercato (il loro) quante persone sono in grado di licenziare.

D] Oggi è più importante la finanza …

R] E’ cambiato tutto. Armani faceva volare Lindbergh sul suo Jet privato, Patrick Demarchelier solcava i cieli in Concorde; niente sarà più come prima. Ci davano tanti soldi. La Chiesa è stata la mecenate dell’arte, la moda per la fotografia, costruendo delle irripetibili eccellenze.

D] Tu hai sempre lavorato col medio formato, vero?

R] Sì, alle volte anche con il banco ottico; il 35 mm non l’ho utilizzato mai. Nella grande maggioranza dei casi, operavo con luce continua. Iniziai con i flash a Lanzarote. Eravamo là con La Perla, per via della sabbia nera. Disponiamo quattro Arri 1000 a riva e l’alta marea spazza via tutto. Feci di necessità virtù.

D] Dobbiamo parlare di digitale, è inevitabile …

R] Siamo negli anni duemila e si apre una parentesi nuova nell’ambito della fotografia. Dobbiamo anche considerare Photoshop, che rappresenta uno strumento infinito. Weston e Lindbergh non hanno mai sbagliato un servizio, ma non abbiamo più bisogno di loro. I grandi fotografi non servono: vedi tutto e subito. Del resto ormai non esiste più il mestiere dello scatto, ma quello di “artista digitale”, dove molto viene fatto al computer.

D] La tua visione traccia un solco netto tra ieri e oggi, tra analogico e digitale …

R] Paradossalmente, col digitale, è morta un’arte giovanissima. A breve esporrò le mie immagini con Sieff, Newton, Horst: io sono l’unico vivente. Esistevano tanti maestri, e potevi chiamarli tali perché riuscivi a riconoscere le loro immagini. Anche le mie godono di una riconoscibilità, perché dentro vive molto di me stesso. Oggi il fotografo non esprime più la propria personalità.

D] La tue sono dichiarazioni dure …

R] Quando dico che sono il più giovane tra i vecchi affermo che qualcosa è morto. Oggi le fotografie di moda sono ordinariamente banali. Probabilmente, con gli smartphone, si credono tutti fotografi, ma paradossalmente è venuto meno un mondo. La fotografia è nata, diventando subito dopo un’arte; ma sta finendo per estinguersi.

D] Prima parlavi che l’autore oggi non può esprimere la propria personalità, cosa manca in realtà alla fotografia moderna perché possa chiamarsi tale?

R] Non esiste più l’originale. La Gioconda al Louvre vale tanto, ma io posso comprare una maglietta con la sua riproduzione a soli cinquanta centesimi: la copia non vale nulla. Il valore vero abita nell’originale e questo vale anche per i film. Dov’è la “matrice” col digitale? Chi è l’autore? Chi ha offerto il suo contributo?

D] Prima parlavi d’arte, viene meno anch’essa, quindi?

R] Parlare d’arte è difficile, soprattutto in fotografia. Al di là di un’analisi filosofica, per me l’arte esiste nel racconto: dietro deve esserci una storia, così è stato per Caravaggio o per chi ha dipinto la Cappella Sistina. Senza story telling non c’è arte. L’arte vera è morta con la Pop Art, perché di colpo tutto è diventato espressione artistica.

D] Come hai applicato questi principi alla tua fotografia?

R] Io tendo a creare emozione col movimento. E’ difficile, ma la fotografia deve suggerirti cosa è successo prima e cosa accadrà subito dopo: lì vive il momento decisivo cantato da Bresson e anche la magia che inseguo io. La bella donna non m’interessa, anche perché non si può emozionare con una fotografia che risulti statica. Del resto, il movimento è l’unità di misura del racconto.



Buona fotografia a tutti

Marino Parisotto

Marino Parisotto Photo France, la prestigiosa rivista fotografica, lo colloca tra i 10 migliori fotografi al mondo. Marino Parisotto Vay, italiano nato in Canada, oggi vive fra Milano, Parigi e New York.

Dopo gli studi in economia, il suo spiccatissimo senso estetico e il suo amore per l’arte lo hanno condotto a esplorare, in giovane età, il mondo della fotografia di moda. La sua è stata una carriera folgorante; a meno di dieci anni dall’esordio, Marino Parisotto si è collocato fra i maggiori fotografi di moda, realizzando campagne pubblicitarie di forte impatto.

Romantico e visionario, lo stile di Marino Parisotto si affida all’arma più tradizionale: la bellezza in tutte le sue forme. Grazie alla forza e al simbolismo dei suoi messaggi, le immagini di Parisotto mettono le ali e fanno volare la comunicazione. Una volta superata la fredda e scarna immagine della realtà si libera la fantasia: una fantasia complice dei nostri sogni, che crea un nuovo modo di "fare" fotografia nel campo della moda.

Il messaggio, coinvolgente e appassionato, è la seduzione.