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Joseph Cardo

“Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettareio dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare”
Joseph Cardo
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

Conosciamo Joseph Cardo da molto tempo. La prima volta parlammo al telefono, quasi per caso; poi l’abbiamo incontrato più volte: a Milano (al Super Studio) e nella sua Puglia, più spesso durante il lavoro. Tante volte abbiamo scritto di lui, cercando di identificarne uno stile. Parlammo di “moda con garbo”, di colori poco saturi, di uno “sviluppo visivo” che finisce nei nostri occhi, di scatti che continuano a vivere almeno nell’idea di chi guarda. Tutto questo lo imputavamo a un atteggiamento pacato nei confronti della fotografia. Secondo noi, lui aveva bussato alla professione con educazione: la stessa che trasferiva ai singoli scatti, liberi di muoversi nei pensieri e negli sguardi.

“è bravo Joseph”, dicevamo. “Rende tutti liberi: i soggetti, e i guardanti”. “Ha fatto crollare i protocolli di riferimento, persino le idee abusate e convenienti”. Per una volta, questa, siamo costretti a domandarci dove nascano educazione, pacatezza e anche libertà; ma soprattutto da cosa tragga spunto il suo sviluppo visivo, specialmente quando vuole che i nostri occhi ne rappresentino il fissaggio.

“Ciao Joseph, come stai?” “Bene, e tu?”

“Ti disturbo?”

“No, perché?”. “Dimmi pure”.

Così sono nate le interviste che lui ci ha dedicato, sempre. Il tempo non mancava mai, così come la disponibilità. Certo, Joseph è gentile, premuroso, generoso anche; ma crediamo che molto poggi pure sul suo atteggiamento nei confronti della vita. Il tempo, per lui, non è lineare, e occupa uno spazio fisico sul quale poggiarsi. Joseph riesce a creare spazi di tempo: per sé, per gli altri, per chi ne ha bisogno, per la sua fotografia.

Dicono che c'è un tempo per seminare e uno più lungo per aspettare io dico che c'era un tempo sognato che bisognava sognare.

[Ivano Fossati]

E allora forse tutto nasce da quel sogno coltivato da ragazzo. Joseph è stato capace di offrirgli la dimensione, laddove ne aveva bisogno: per apprendere, applicare, comprendere, riprovare. Dopo l’ha fatto per altre cose, e alla fine anche per noi che siamo qui a guardare le sue fotografie in tranquillità: in un tempo che diventa spazio.

Joseph, perché hai iniziato a fotografare?

Forse perché l’ho sempre voluto. Fin da bambino collezionavo le riviste di moda, particolarmente le copertine. Adoravo le top model degli anni 90' e le fotografie dei grandi maestri. A diciotto anni sono andato a Milano, spinto dall'attrazione per una grande città. Il quel periodo la moda viveva un momento magico. Le prime esperienze non sono state fantastiche, soprattutto per un ragazzo spaesato che veniva dal sud. Inoltre il settore si presentava chiuso, diviso in caste, inavvicinabile per uno che come me aveva appena iniziato a studiare la tecnica fotografica.

Non ti sei fermato però, nonostante le difficoltà...

Dopo incarichi di poco conto, sono riuscito a ritrarre una celebrità. Gli scatti sono stati notati dagli addetti ai lavori e io ho continuato a lavorare sulla “mia” fotografia. Mi resi conto, così, come fosse importante imporre un proprio stile, migliorando la riconoscibilità. Tanta tenacia, certamente; ma è nato prima l’amore per la moda o la passione per la fotografia?

Il primo amore è stato dedicato alla fotografia. Ho iniziato da ragazzino a fare esperienza: prima in un laboratorio fotografico, e subito dopo come assistente di fotografi per matrimoni. Ero affascinato dall’oculare, con il quale potevo selezionare la porzione di mondo che preferivo. Del resto, anche mia madre mi ha dato una mano.

Tua madre?

Certo, fu lei a regalarmi la macchina fotografica trovata nel fustino del DIXAN. Per tenermi tranquillo, diceva: “Scatta le foto con questa”. Quel suggerimento mi ha segnato la vita. La prima cavia è stata mia sorella. Così mentre osservavo, con ammirazione, le fotografie della moda dicevo spesso a me stesso: “Un giorno anch’io scatterò queste immagini”; e così è stato.

Osservando il tuo passato, ho notato tra le tante pubblicazioni anche molti calendari... È un passato che vorrei cancellare. Io vengo dal sud e, quando presentavo i lavori, venivo accettato con diffidenza. Forse avevano anche ragione nel chiudermi la porta in faccia, perché probabilmente il mio stile non era convincente. Il calendario ha rappresentato un approccio al mondo fotografico, avvenuto peraltro lentamente. È chiaro che se entri nelle simpatie dei soggetti, questi vogliono sempre te: anche per i servizi successivi.

I calendari hanno rappresentato un piccolo compromesso per iniziare...

Vero, ma io non desideravo dedicarmi al nudo artistico, almeno non a quello commerciale. Tieni conto che molti editori vogliono la donna “provocante”, perché altrimenti non funziona. Una volta mi hanno paragonato al Pirelli, come se fosse un difetto. Io, da parte mia, cercavo un compromesso artistico. Alla fine sono stato costretto a rompere con quel sistema: senza nessun rimpianto.

Molti artisti hanno dovuto percorrere la via del compromesso: non solo in fotografia... Chiaro che non demonizzo il passato. Con i proventi sono cresciuto, ho acquistato apparecchiature: consolidando anche la mia attività. Diciamo che sono molto esigente: ho preso la strada del “fashion con garbo”, ma anche quella della sperimentazione, senza peraltro allontanarmi dal tema principale. Credo anche che questo sia il comportamento giusto: quello da portare avanti se si sceglie di fare il fotografo professionista.

Molto bello il video sul Profumo di Armani: ho visto che lo stilista aveva indetto un concorso...

È una bella storia, da raccontare dopo averla vissuta. Ricordo che io e la mia assistente eravamo in studio, di domenica. Avevo appena finito di dire: “Facciamo sempre le stesse cose, scattiamo le solite foto”. Lei mi risponde: “Meglio, visto che piacciono molto”. Io, di rimando: “C’è nulla su internet?”. Troviamo il concorso di Armani e m’iscrivo. Dopo un po’ di tempo imparo di aver vinto: a livello mondiale; pensare che a gareggiare erano in molti, comprese delle scuole di Londra. Lo stilista mi aveva trovato in linea col suo stile; io, da parte mia, avevo studiato lo storico del brand e molto altro ancora. Mi sono comportato come se mi avessero commissionato il lavoro; Giorgio se ne innamora e lo diffonde per il mondo. In realtà, nessuno più comperava quel profumo e bisognava che se ne parlasse.

Una storia non finita, comunque; che ha prodotto altri risultati...

Tempo dopo, il direttore Marketing de L’Oréal mi dice che il video è piaciuto a tal punto che vogliono farne una campagna stampa. Alla notizia, ne rimango entusiasta: avevo partecipato al concorso per entrare nell’atelier di Armani. Contattano i modelli e iniziano i lavori. L’Orèal tende sempre a far lavorare fotografi a lei vicini e nella lista che viene preparata c’è anche Peter Lindberg. In un meeting so che una persona ha detto: “Chi ha costruito il video è anche un fotografo”. Armani decide di buttarsi su di me. Ho fatto la campagna in un solo tentativo; lo stesso Lindberg, tempo prima, l’aveva dovuta scattare tre volte. È raro che Armani scelga al primo colpo.

La fase del calendario ha comunque significato qualcosa...

Il destino di un uomo ha delle alchimie sconosciute. Se non avessi fatto i calendari, mi sarebbe stata preclusa la via di Armani e del suo profumo. Come hai curato la tua formazione? Ho letto che ti sei dedicato anche ai matrimoni... Tutto nasce da quel fustino di DIXAN e dalla fotocamera migliore che mi sono fatto regalare dopo; ma anche dal fatto di non essere un alunno modello, che mi ha costretto a quelle estati passate in uno studio fotografico della zona. Lì ho iniziato realmente da zero; prima le pulizie, poi la gestione degli accessori (e il loro trasporto), per finire a qualche scatto: di cerimonia, appunto. Il matrimonio però non volevo affrontarlo. Lì ci sono tanti professionisti, ma anche molti improvvisati. Ci vorrebbe un albo, ecco tutto. Che fosse altamente selettivo.

Torniamo alla formazione e ai percorsi intrapresi...

Purtroppo, o per fortuna, sono completamente autodidatta. Ho sperimentato molto: questo sì; e tutto sulla mia pelle. Ho speso una fortuna in stampe e mio Padre se ne lamentava...

I libri hanno fatto parte del tuo percorso di crescita?

Ne ho letti tanti, tantissimi: ma solo d’immagine; la tecnica l’ho sperimentata sul campo, che mi ha aiutato a comprendere il mezzo. Tieni conto che, anche col digitale, scatto con un “grande occhio” analogico.

L’idea iniziale: è un principio molto radicato in te...

E viene da notti trascorse in Camera Oscura. Lo ripeto: il digitale è fantastico, ma le impostazioni le devi curare a monte; in caso contrario si diventa dei foto ritoccatori. Tieni conto che io sono stato uno dei primi fan del digitale. Molti mi dicono: “Che bella la pellicola!”; “Lo dite a me?”, rispondo, “Sono passato per il Banco Ottico, il medio formato: anche attraverso la Polaroid”. Eppure mi ritengo fortunato, perché ho trasferito tutto nella modernità: potendo anche vivere due ere. Hai avuto dei modelli ispiratori?

Sì, un uomo: il mio Padre putativo; è scomparso quando ho cercato di avvicinarlo. Il suo nome? Richard Avedon: un fotografo, forse il fotografo. Qual è il tuo genere? Il Glamour? Il Fashion? Il mio genere è pulito. A me non piace David LaChapelle, né coloro che lavorano molto dentro la sceneggiatura o sugli eccessi. Io sono per delle immagini che possano rimanere nel tempo.

Qual è la qualità fondamentale che serve a portare avanti un lavoro come il tuo? Fotograficamente, intendo...

Non accontentarsi mai. Guardi una foto e ti piace; la riprendi il giorno dopo, ti piace ancora; dopo sei giorni il giudizio può cambiare, fino a farti sembrare quello scatto orribile. Devi rifare tutto, perché l’obiettivo è la perfezione. In studio ho delle cornici retroilluminate molto belle, però sono vuote. Molti mi chiedono: “Perché?”; io rispondo che non so cosa metterci. Un giorno si riempiranno.

Vedo molte prospettive compresse: vera la mia osservazione? C’è un amore per il tele? Diciamo che l’uso del tele è un modo per non essere addosso all’inquadratura.

B/N o colore? Cosa preferisci tra i due?

Il B/N lo prediligo. Per molto tempo il mio cromatismo si è presentato poco saturo, divenendo così la mia firma. Forse c’è un’analogia col bianco nero.

Tu inizi con l’analogico: qualche rimpianto?

Col tempo tendo a far sì che la “pasta” del mio digitale assomigli all’analogico. Rimpianti? Pochi, tutti circoscritti al “mood”, all’atmosfera. Si aspettava il risultato del lavoro con una curiosità particolare; poi c’erano i gesti, tutti identificativi del mestiere: caricare un rullo 120 o infilare lo chassis. Non dimentichiamo che occorreva anche “pensare in analogico”, perché le possibilità di correggere risultavano irrisorie. Se un abito non “cadeva” bene, lo si puntava con uno spillo: cosa oggi demandata alla postproduzione. Ecco, sì: prima si pensava a tutto; poi c’era l’attesa e la sentenza. L’atmosfera era tutta in queste cose, oggi scomparse. Sotto questo profilo, il digitale è stato quasi controproducente. Oggi il Cliente è viziato, convinto com’è che tutto si possa rimediare, dopo.

In tutta la tua carriera c’è un progetto rimasto indietro, ma che vorresti portare a termine? Io ho ben poco da chiedere, perché non posso, adesso, pensare a libri o mostre. Diciamo che sono stato viziato dal mercato, dalla quotidianità del lavoro. Vorrei un po’ più d’ordine nel mio lavoro, ecco tutto.

Abbiamo solo sfiorato il tema femminile: che donna esce dalle tue immagini?

Una donna vera, cui sono stati messi addosso dei vestiti. Non ho bisogno di quelle modelle che si presentano con un repertorio di pose.

C’è uno scatto al quale sei particolarmente affezionato?

Non saprei dirti, sono in continua ricerca. Non mi mancano gli apprezzamenti e questo non può che far piacere. La Cucinotta mi disse: "Sono tornata ai tempi del postino”. In ogni caso, è difficile affezionarsi a un’immagine quando ne stai già pensando un’altra. Gli apprezzamenti forse poggiano su una componente umana: la tua. Che venga prima o dopo la fase fotografica?

In effetti, quasi tutti i miei soggetti trovano il modo di abbandonarsi con facilità.

Essere pugliese ti ha aiutato?

C’è tanta Puglia in quello che faccio: è la mia “Madre Terra”. Mi porto dietro la sua solarità.

Scatti anche durante i viaggi? In privato, intendo...

Quando sono in vacanza, torno con centinaia di scatti. Sappi che, al di là del fashion, mi trovo bene anche di fronte al paesaggio.

Se potessi farti un augurio “fotografico” da solo: cosa ti diresti?

Spero di trovare quei Clienti che mi consentano di vivere economicamente, permettendomi anche il percorso artistico. E poi...

E poi? Un augurio fotografico può comprendere anche dei sogni, come quelli che vivevi da ragazzo...

Un Pirelli: perché no?.



Buona fotografia a tutti

Joseph Cardo

Joseph Cardo classe 1976, è uno dei maggiori fotografi italiani riconosciuti. Nato in Puglia, a 18 anni si sposta a Milano per iniziare la sua carriera, guidato dall’attrazione per una grande città e le opportunità del mondo della moda che viveva il suo momento migliore.

Dopo un immediato successo dovuto a uno stile molto personale, decide di tornare al sud e costituire il GROUNDStudio, da dove ha condotto tutte le sue produzioni nazionali e internazionali. Nel 2008 ha conquistato il grande pubblico con il suo lavoro per Armani, la campagna per il profumo “Get Together”. Attualmente viaggia in tutto il mondo ed ha concentrato la propria carriera sulla fotografia di moda e sulla direzione di fashion film e spot dedicati alla moda.

Cardo è molto conosciuto per i suoi ritratti. Diretti e intensi, catturano la vera essenza del personaggio. Ecco perché è uno dei fotografi italiani più richiesti dalle celebrità e i suoi ritratti sono costantemente sulle copertine dei magazine o diventano le immagini di importanti campagne.