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Gianni Berengo Gardin

“La Fotografia non rappresenta quasi mai la realtà. Il fotografo impara a vedere e guardare. Non so se questo serva a raggiungere e catturare l’istante magico di Bresson, di sicuro aiuta a pensare, a usare occhi, testa e cuore”. Gianni Berengo Gardin uno dei fotografi italiani più celebrati nel mondo racconta la sua vita e il suo particolare approccio alla creazione delle immagini.“
GIANNI BERENGO GARDIN
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

“Il Fotografo impara a vedere e guardare. Non so se questo serva a raggiungere e catturare l’istante magico di Bresson di sicuro aiuta a pensare, a usare gli occhi, la testa e il cuore.”

Conosciamo Berengo da tempo ma prima di ogni in- contro proviamo un’emozione nuova: tra timore e ri- spetto. Il nostro affetto per lui (tanto) conta poco e non ci viene a soccorso neanche la passione per la fotografia. È lo scontro a essere impari, l’impatto con l’uomo e il suo sguardo: attento, lucido, vigile. Da un lato ci sono l’autorevolezza, la conoscenza, persino una coerenza antica; dall’altro, la voglia di sapere, ca- pire, trovare scorciatoie che almeno costituiscano un approdo.

La dinamica del dialogo con lui è ancora più dissimile: logico, attento, preciso il maestro; quasi improvvisati noi che gli stiamo di fronte, per forza di cose.

Mentre siamo nell’ascensore che ci porta al suo appartamento, ci ripromettiamo di non essere banali: magari evitando le tecnologie o quelle inutili dissertazioni che parlano di tecnica. siamo comunque convinti che scenderemo per la stessa via con qualche rimpianto, perché ci sarebbe stato dell’altro da chiedere: forse molto di più.

L’abbaiare di un cane (Nina) ci dice che siamo arriva- ti al piano. Un sussulto ferma l’ascensore, poi siamo accolti da una gentilezza antica, rara a trovarsi oggi. Entriamo, saliamo ancora una scala e subito dopo veniamo invitati a sederci. Ecco la prima risposta, al solo sguardo attorno a noi. Lo studio di Berengo è già una storia, un elemento del suo infinito racconto.

Ci piacerebbe il silenzio, poter chiudere gli occhi ammiccando all’improvviso e poi riaprire la vista qui o là: a piacimento. Il luogo dove ci troviamo non è un’area museale, perché il Maestro vive il suo interno con agilità; piuttosto parla il suo stesso linguaggio, quel racconto che non ha mai smesso di tessere, da quando ha approcciato la fotografia.

Narrare, per Berengo, è una questione di vita: forse la missione di un’esistenza. siamo convinti che il suo pensiero sia sempre lì, nelle storie raccontabili: attorno a quell’uomo comune, col quale è possibile costruire anche una “realtà immaginata”. Gli Zingari, i manicomi, la Luzzara di Zavattini (e Paul strand!), hanno rappresentato solo delle opportunità per un motore già in moto, per una “penna” già avvezza alla scrittura.

Tu sei un ottimo narratore per immagini: dove si estrinseca maggiormente questa qualità così particolare?

Ho sempre desiderato fare libri, più di ogni altra cosa. Il racconto è lì, nella costruzione della pubblicazione: narrando una situazione con tutto il tempo necessario.

I tuoi inizi sono amatoriali?

sì e credo di non aver perso mai quello spirito...

Tra i due grandi movimenti fotografici che hanno accompagnato i tuoi esordi, quello americano e quello francese, quale pensi ti abbia influenzato maggiormente?

sono stato fotoamatore per cinque anni. Poi, la passione forte mi ha convinto a diventare professionista. ricordo che fu una scelta difficile con due figli piccoli ad aumentare le mie responsabilità. romeo Martinez mi fu molto vicino in quella fase, abbattendo le mie ormai minime resistenze. Allora i miei ideali erano i fotografi americani della “Farm security Administration” (soprattutto Eugene smith), poi, subito dopo, i francesi. Parigi esercitava un grosso fascino su di me e sono rimasto là quasi due anni. È stato un periodo di grandi incontri: Doisneau, Boubat, Masclet, Willy ronis, col quale ho stretto una solida amicizia. Da loro ho imparato moltissimo e da lì è partito tutto. Forse è per questo che nella mia fotografia si nota l’influenza della fotografia francese.

Secondo te la fotografia è un’interpretazione personale della realtà oppure no?

La fotografia non rappresenta quasi mai la realtà; forse in alcuni casi la rappresenta in gran parte ma non totalmente. Non credo a quelli che dicono che una fotografia vale mille parole. Una fotografia ne vale molte però dovrebbe essere accompagnata da qualche testo descrittivo, almeno una didascalia che ne puntualizzi contesto e situazione. Quale soggetto ti piacerebbe scattare domani?

Dopo migliaia di fotografie in archivio ne ho 1 milione e 350mila mi sento ancora pienamente coinvolto in tutte le situazioni che mi trovo a ritrarre. È una questione di passione che non mi ha mai abbandonato.

Tu sei stato il narratore di un’epoca...

L’ho ripetuto spesso. Io non sono un artista e nel mio lavoro non deve essere tirata in ballo la creatività. Ho documentato (lo faccio ancora) la nostra epoca, diventandone un testimone. Molti dei soggetti che ho ritratto risulteranno importanti quando nessuno di noi ci sarà più. I miei duecento libri costituiranno una documentazione sostanziale per comprendere come eravamo: dagli Anni ‘50 sino agli albori del terzo millennio.

come si colloca la scelta espressiva del bianco e nero?

È una questione di educazione visiva, partita dal cinema e dalla televisione, continuata poi con i grandi maestri che mi hanno ispirato. Diciamo che non poteva essere diversamente. Penso altresì che il colore distragga, allontanando l’osservatore dal contenuto vero dell’immagine.

La citazione del cinema ci fa riflettere e subito ci vengono in mente i tanti scatti del Maestro diventati icona. In questi non si riconosce unicamente un formalismo di sintassi ma lo sviluppo di un racconto che prende forma. Non solo, nei suoi libri famosi quasi si nota una generosità di scatti. È come se il nostro desiderasse arrivare al soggetto per assonanze successive, con ri- spetto. La somiglianza col montaggio filmico diviene quasi scontata, anche se a prevalere di sicuro c’è il desiderio di verità, di narrare a fondo: con rigore.

La gente comune che Berengo ama ritrarre viene descritta nel proprio contesto, come nella scena di un grande teatro. Ci sono le quinte, le comparse e gli interpreti principali. spesso c’è chi compie un’azione e un altro che guarda.

Qual è il fattore che rende le tue immagini tanto apprezzate?

È il contenuto dell’immagine che rende buona una fotografia. Ho detto buona e non bella, perché non è solo una questione estetica. La riconoscibilità dei miei lavori sta proprio nell’immagine, della quale non io rappresento l’artefice del contenuto. Come ho già detto, sono e mi sento unicamente il testimone delle persone che riprendo. Il resto lo fanno loro.

Tanti anni trascorsi a fotografare ma altrettanti dedicati ad apprendere. ci sono delle regole imparate agli inizi e che ti sei portato dietro per sempre?

Non s’impara solo agli inizi ma nell’arco di un’esistenza intera. Durante il periodo parigino ho perso tanto materiale, così da allora l’ordine è diventato una delle mie priorità. Più avanti Koudelka suggeriva di fare accadere sempre qualcosa in uno scatto ma io avevo già fatto mio quel consiglio: non a caso inserisco sempre la figura umana nelle mie immagini. Che dire? Il fotografo impara a vedere e guardare. Non so se questo serva a raggiungere (e catturare) l’istante magico di Bresson, di sicuro aiuta a pensare, a usare occhi, testa e cuore.

Non è mai facile fare bilanci, soprattutto di fronte a un fotografo come te. cosa diresti però di questo tuo cinquantennio dedicato all’immagine? Henry Cartier Bresson diceva che, se una persona ci mette impegno, riesce a ottenere uno scatto buono all’anno. Personalmente non sono mai contento dei miei lavori però credo di aver superato il traguardo dettato dal maestro francese.

Sempre a proposito di totali, per una carriera così importante chi credi sia giusto ringraziare? recentemente ho pubblicato per Contrasto un libro dal titolo “Inediti (o quasi)”. Lì ho dedicato una parte abbondante a tutti gli amici che sono entrati nella mia vita di fotografo. Fare nomi adesso sarebbe rischioso, perché potrei dimenticarne qualcuno. Di Martinez ho già detto e forse sarebbe giusto rammentare anche quello zio d’America che, essendo vicino a Cornell Capa (fratello del più famoso robert), mi spediva quelle pubblicazioni utilissime alla mia formazione. Ma, in temi di ringraziamenti, vorrei esprimere la mia gratitudine alla gente che mi è capitato di fotografare. Loro hanno contribuito, inconsapevolmente, allo sviluppo della mia carriera, assieme a tutte le fotocamere che ho tenuto tra le mani; queste ultime sono state le mie compagne di vita, fedeli per giunta.

L’ascensore sussulta ancora e Nina non abbaia più. siamo fuori, tra la vita che rumoreggia.

È andata e ci sentiamo più ricchi. Dopo aver visto le fotografie di Berengo comprendiamo ancora di più di essere cittadini del mondo. È il suo racconto ad accomunarci tutti, perché ognuno di noi può ritrovarsi nei suoi scatti: magari nel proprio tempo e nel luogo che gli appartiene. Complice è la fotografia del Maestro, vicina, nel suo fruire, al divenire stesso della vita.

“La fotografia non rappresenta quasi mai la realtà; forse in alcuni casi la rappresenta in gran parte, ma non totalmente. Non credo a quelli che dicono che una fotografia vale più di mille parole.”.



Buona fotografia a tutti

Gianni Berengo Gardin

Gianni Berengo Gardin inizia a occuparsi di fotografia nel 1954.

Nel 1965 lavora per Il Mondo di Mario Pannunzio. Negli anni a venire collabora con le maggiori testate nazionali e internazionali come Domus, Epoca, Le Figaro, L’Espresso, Time, Stern. Procter & Gamble e Olivetti più volte hanno usato le sue foto per promuovere la loro immagine.

Berengo Gardin ha esposto le sue foto in centinaia di mostre in diverse parti del mondo: il Museum of Modern Art di New York, la George Eastman House di Rochester, la Biblioteca Nazionale di Parigi, gli Incontri Internazionali di Arles, il Mois de la Photo di Parigi.

Nel 1991 una sua importante retrospettiva è stata ospitata dal Museo dell’Elysée a Losanna e nel 1994 le sue foto sono state incluse nella mostra dedicata all’Arte Italiana al Guggenheim Museum di New York. Ad Arles, durante gli Incontri Internazionali di Fotografia, ha ricevuto l’Oskar Barnack - Camera Group Award. Gianni Berengo Gardin ha pubblicato 210 libri fotografici.