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Guido Argentini

“NON SI PUÒ INTRAPRENDERE NULLA SENZA PASSIONE. PUÒ ESSERE CONSIDERATA L’ELEMENTO FONDAMENTALE IN TUTTO QUELLO CHE SI FA.”
Guido Argentini
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

Colore e struttura influenzano radicalmente il modo in cui percepiamo le forme. Fanno parte del linguaggio fotografico al pari della composizione, delle prospettive; e poi, delle idee, delle scelte di campo. Guido Argentini, ci propone una visione innovativa del nudo femminile, dalle componenti antitetiche, quasi ossimoriche: partendo proprio da colore e forma. I corpi si muovono, ma sono statue d’argento.

Lo sguardo cerca, scruta, si perde nel dettaglio della perfezione, nella lucidità; ma dopo inizia la verve della danza, classica, comprensibile, da ammirare. Vengono in mente i grandi, ma sono scultori e pittori: Brancusi, tra i primi; Degas, con gli altri. Ed è proprio la pittura impressionista a ispirarci maggiormente, per capire è ovvio. Perché è “l’impressione visiva” a meravigliarci, prima di tutto: delle cose, del dettaglio, dei particolari; che pure esistono nelle immagini di Guido. Fanno parte della scultura? Forse, ma piu probabilmente rappresentano un aiuto per chi guarda, dispensando plasticità, forma del movimento o anche “impressione” (sempre quella) del fermo che si muove, ancora: nell’idea prima, ma anche nella memoria.

Ecco, sì: forse ci siamo. Per spiegarci a fondo le immagini di Guido Argentini, dobbiamo chiamare a suffragio in nostro pensiero, quello del momento. Non possiamo (o dobbiamo) solo guardare, ma anche pensare, riflettere, forse pure generare ricordi da richiamare immediatamente, per “l’impressione” successiva: quella che danzerà nuovamente, per poi fermarsi in una plasticità scultorea, disarmante. “Argentum” ci regala una modernità imbarazzante, perché fondata (anche) su volumi equilibrati e movimenti ben gestiti. Apre comunque un nuovo capitolo sul nudo, femminile peraltro; presentato, prima e da altri, in pose che presupponevano la visione da parte di un pubblico guardante. Anzi, quest’ultimo ne diventava quasi un suffragio, senza il quale i corpi non avrebbero potuto manifestarsi. Il nudo che vediamo oggi, quello di Guido, vive da solo, di una doppia esistenza. A noi che scrutiamo resta solo la libertà di scegliere, sul quando e sul come: tra danza e scultura. Sono le nostre “impressioni” a dover decidere. Ed è un piacere farlo Guido, quando hai iniziato a fotografare e perché?

Sui sedici anni, per passione. Da lì, e fino ai 24, non ho avuto altri impegni. Del resto la fotografia non può essere considerata un lavoro, almeno fino a quando non inizi a guadagnare.

Ovviamente la passione è stata importante...

Non si può intraprendere nulla senza passione, anche nell’ambito delle professioni “normali”; essa può essere considerata l’elemento fondamentale in tutto quello che si fa.

Hai avuto degli elementi ispiratori?

Non sono mai stato assistente. Ho imparato le fotografie dagli altri, come molti: tutti, forse. Di nomi potrei fartene tanti: Avedon, Penn; ma nessuno mi ha mai influenzato. Vero è che in periodi diversi ti piacciono cose differenti. Se leggi oggi “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, lo trovi diverso; questo perché sei cambiato tu.

Si può imparare dagli altri, ma occorre anche aggiungere...

Vero. Per rimanere nel tempo occorre inventare qualcosa di nuovo.

Come hai curato la tua formazione?

In maniera assolutamente personale. Non ho frequentato alcuna scuola. Sono stato docente di alcuni workshop, ma lì mi sono reso conto come non rappresentino il contenitore per insegnare fotografia, se non in ambiti esclusivamente tecnici.

Ricordi il tuo primo lavoro? No, non ne ho memoria. Credo riguardasse dei giornali italiani. In ogni caso, non stiamo parlando del “primo amore”.

© foto di Guido Argentini

Hai iniziato con l’analogico? Qualche rimpianto?

Ho portato avanti la pellicola fino a quando è stato possibile, passando al digitale non potendone più fare a meno. Oggi le tecnologie offrono risultati ottimi. Del resto, parlare di queste cose è un po’ come discriminare sul sesso degli angeli, per non dire peggio. E’ un peccato che esista uno strumento tra te e il risultato finale; e poi occorrono delle conoscenze tecniche. Alla fine, risulta determinante ciò che si ha in testa. Argentum l‘ho prodotto in analogico, perché era nato così.

C’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

No, perché i miei lavori hanno sempre avuto un corrispettivo con le varie fasi della mia vita. Sappi, poi, che ogni mio progetto dura a lungo nel empo, il che arriva a completare del tutto le visioni che l’hanno determinato. Le prime ricerche condotte sulla donna non prevedevano l’erotismo, ma solo lo sviluppo di una forma scultorea. Successivamente, è cambiata la mia visione della figura femminile, con anche l’eros a far parte dell’immagine. Tutto si modifica, ecco tutto, soprattutto idee e modi di vedere. Un progetto inizia con qualcosa di nuovo che arriverà a compimento.

I tuoi libri sono una dimostrazione di quanto dici...

Esattamente. In ognuno cambiava la visione, ma anche la realizzazione: Bianco & Nero, prima; colore poi: studiato e realizzato, quest’ultimo, anche in post produzione.

Hai anticipato la mia domanda: Bianco & Nero o colore?

Rappresentano cose diverse. Il Bianco & Nero ti aiuta, perché con esso puoi astrarre. E’ anche considerato più artistico, a tal punto che è difficile ottenere gli stessi risultati col colore. Io però sono sempre aperto alle sfide con me stesso, così adesso sto lavorando su un cromatismo distante dalla realtà.

Domanda banale: curi personalmente la post produzione?

Il quesito è pertinente, anche perché oggi la post produzione deve essere eseguita dal fotografo, facendo parte dello scatto. Io mi occupavo di sviluppo e stampa anche ai tempi dell’analogico.

Una post interpretativa, quindi...

Oggi con un click puoi cambiare una fotografia; ma in camera oscura era un po’ la stessa cosa, anche se i margini erano più ristretti. Ho visto delle immagini di Avedon prima e dopo gli interventi “analogici”. La differenza era impressionante.

La donna è un tema centrale della tua fotografia... Si, nei miei progetti mi sono anche occupato di fiori, ma l’universo femminile ha rappresentato il mio soggetto principale. Non è facile da affrontare, perché di mezzo c’è anche la psicologia. Con la donna occorre instaurare un rapporto solo per ottenere quello che si vuole. Gli uomini sono più facili da fotografare, perché diversi e, soprattutto, meno complessi.

È percorribile un parallelo tra il tuo lavoro e quello di Helmut Newton?

Assolutamente no, non vedo nulla in comune. Stiamo parlando di due cose diverse, sin dalla scelta delle modelle. Forse di similari ci sono solo i tacchi a spillo. Lui è nato nel 1920 io nel 1966, già questo la dice lunga. Quanto mi chiedi, però, corrisponde al bello della fotografia: tutti possono parlarne, non ascoltando ciò che vuol dire l’autore. Poi, certo: lui era un voyeur e in un certo senso lo sono anch’io; ma quale fotografo non lo è? C’è chi guarda dal buco della serratura e chi lo fa dietro un apparecchio fotografico: che differenza c’è? E poi, la cosa è così negativa?

Dal tuo punto di vista, c’è ancora una donna da scoprire? Certamente, forse ce ne sono di più. Del resto, io fotografo pochissimo, perché riesco a trovare con difficoltà i soggetti da ritrarre. Tutto ciò si è aggravato man mano che la mia ricerca procedeva. Fare casting per “Argentum” era relativamente semplice: bastava trovare chi avesse delle capacità di movimento. Oggi sto cercando la complicità. Ho ottenuto delle belle immagini fotografando le liceali con le quali intrattenevo una relazione; tra noi c’era fiducia.

Preferisci scattare all’aperto o in studio? All’aperto, mai; anche se poi non è vero. Sono stato categorico, perché pensavo unicamente alle donne sulle spiagge o nei deserti. Ho lavorato in quelle condizioni, però non lo faccio più. Oggi preferisco le scene urbane e prediligo la stanza, dove poi il mio soggetto si sente maggiormente tranquillo.

Hai un’ottica preferita?

L’85 f/1,2, perché mi offre tante possibilità. L’obiettivo è una scelta di campo, non solo uno strumento. Ammiro tanto Francesco Cito, che scatta con focali cortissime; lui ci offre una visione della vita.

La tua carriera è contraddistinta dai libri che hai pubblicato...

Se ho iniziato a fotografare era anche perché volevo produrre dei libri. I giornali non m’interessavano, in quanto non duraturi nel tempo. Il libro rimane, ecco tutto; il che può anche rappresentare un difetto. Quando lo rivedi dopo un po’ di tempo, ti accorgi che forse lo avresti concepito diversamente.

Cosa rappresenta realmente per te un volume con le tue immagini?

Certo non un’auto celebrazione. Si configura in realtà come un veicolo tramite il quale condividere, con altri, il tuo lavoro. Le immagini sul computer possono piacerti; ma quando le metti in comune con lo sguardo di molti, l’esame diventa più importante, direi fondamentale. Lo suggerisco spesso a Cito: “Occorre un tuo volume perché la gente possa vedere”.

Potessi scegliere, che fotografia scatteresti domani?

Quella che scatterò nella realtà. Sto portando avanti un progetto su dei “dittici” a colori. Già scattare delle fotografie è difficile: metterle in coppia risulta una sfida.

Hai già lo scatto venturo. Se invece ti chiedessi un augurio fotografico da dedicare a te stesso?

Vorrei conservare l’entusiasmo e le idee per creare qualcosa di nuovo, che poi rappresenti una crescita personale.



Buona fotografia a tutti

Guido Argentini

Guido Argentini è nato nel 1966, a Firenze. Dopo aver frequentato per tre anni la facoltà di medicina, decide, all’età di ventitré anni, di trasformare la propria passione per la fotografia in un mestiere, e diventa fotografo. Da allora la moda e la bellezza sono i temi principali del suo lavoro. Dal 1990 Guido Argentini vive a Los Angeles. I suoi lavori sono apparsi in alcune delle più celebri riviste del mondo, tra le quali Marie Claire, Amica, Moda, MAX, Vogue.

Nel 2003, Guido Argentini, pubblica il suo primo libro, “SILVEREYE”, dove presenta una serie di studi tra nudo e paesaggio. Quel lavoro rappresenta un riflesso della grande passione dell’artista per la scultura e la danza.
Nel suo secondo libro, “PRIVATE ROOMS”, del 2005, Guido Argentini offre una visione differente, quella nella quale l’erotismo e la bellezza sono chiaramente inseparabili, coniando un unico ‘universo femminile’. Questo seconda fatica è il risultato di dieci anni di fotografie, colte nell’intimità di stanze chiuse. Antiche ville fanno da contrasto ad appartamenti moderni, così come alberghi eleganti si contrappongono ai motel più squallidi: un universo in cui tutte le stanze diventano teatri per le fantasie voyeuristiche dell’artista.

“REFLECTIONS” è stato pubblicato nel 2007. In questo, le donne fotografate cercano loro stesse, studiandosi, ma perdendosi anche nella propria immagine.
In “SHADES OF A WOMAN”, pubblicato nel 2010, vengono esplorate diverse sfumature della natura femminile. E’ un libro per ripartire, alla ricerca di rinnovate visioni sulla vita e sulle donne.