Skip to main content
- stay tuned -

Frank Horvat

"IN UNA MIA AUTOBIOGRAFIA HO SCRITTO CHE SE, ALLE PORTE DEL PARADISO O DELL’INFERNO, MI AVESSERO CHIESTO COSA HO FATTO NELLA VITA, L’ULTIMA RISPOSTA CHE AVREI DATO SAREBBE STATA FOTOGRAFO."
Frank Horvat
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

Ne è valsa la pena. L’estate scorsa Frank Horvat ci ha proposto di fargli visita a Cotignac, in bassa Provenza. Abbiamo accettato l’invito. Ricorderemo molto di quell’incontro: la luce dei luoghi, il verde, le vigne, l’emozione; anche quella strada sterrata difficile a guidarsi. Frank, dopo averci accompagnato al telefono, ci aspetta nell’aia. Entriamo in casa: ne è valsa la pena.

Un gatto ci passa tra le gambe, sulle scale; e arriviamo al suo studio. Sulla scrivania, un computer e tanta tecnologia.

Frank Horvat non tradisce l’età. Alto, quasi atletico, risponde con voce ferma e sicura, guardandoti negli occhi. Ci si rende conto, però, che è la sua mente a essere lucida e agile, pronta com’è a cavalcare il cambiamento, e non ad adattarsi a esso. Lui ci spiega che la sua vita è coincisa con l’evolversi della fotografia, che lui ha affrontato con entusiasmo. Ci rendiamo così

conto di aver perso tanto tempo nel considerare il passato e il presente, dimenticando che il futuro percorribile era già lì, come Horvat aveva intuito. Ne è valsa la pena, quindi; anche solo per capire. La fotografia non è più facile, perché una buona immagine rappresenta pur sempre un piccolo miracolo; che poi sia l’istante decisivo, poco importa: alle volte occorre il coraggio per non premere il bottone e aspettare che l’energia cresca dentro di noi. Ne è valsa la pena.

Ci è piaciuta anche la sincerità, quella franchezza elegante con la quale il fotografo ci ha mostrato i suoi progetti di modernità. Quanto diceva in un certo senso era già stato e la sfida ripartiva, tra desiderio e curiosità.

Ne è valsa la pena, e ricorderemo a lungo quel gigante che ci salutava allo specchietto. Dopo, la Provenza ci ha accompagnato per un po’, con l’emozione che è arrivata fino a casa nostra, assieme alla voglia di fotografia. L’entusiasmo è contagioso: ne è valsa la pena. Horvat, quando ha iniziato a fotografare?

Nel ’45, avevo diciassette anni. Non ho mai conosciuto la passione, però. In una mia autobiografia ho scritto che se, alle porte del paradiso o dell’inferno, mi avessero chiesto cosa ho fatto nella vita, l’ultima risposta che avrei dato sarebbe stata “fotografo”.

Perché negare un passato professionale?

Mi piace essere un fotografo, ne sono contento; ma non mi sembra essenziale.

Ci sono altre cose più importanti?

Ciò che accade attorno a me; e poi avrei voluto scrivere. Oggi comincio a riuscirci, un tempo non ero sicuro.

Come ha curato la sua formazione?

Da solo, come autodidatta. Del resto non so a cosa possa servire una scuola di fotografia. Lì s’impara la tecnica, che rischia di appiattire i risultati.

Ha avuto dei modelli ispiratori?

Se dovessi citare un nome tra coloro che ho conosciuto, direi Henri Cartier Bresson. Sicuramente mi ha influenzato, anche se non ho seguito le sue teorie. Lo rispetto. Bresson è stato un padre di tanti...

Di moltissimi...

Anche il suo...

Me ne rendo conto, ma la cosa che non è durata molto. Lui influenzava negli anni ’50.

Nel frattempo la fotografia è cambiata, soprattutto recentemente...

Si è modificata tantissimo. Io credo di essere stato l’unico, che io conosca, capace di seguire la fotografia nel suo divenire. Doisneau ha prodotto delle grandi fotografie, ma si è fermato lì; lo stesso può dirsi per Bresson. Io ho continuato a cambiare: non per adattarmi alle mode, ma al fine di seguire i cambiamenti nel mondo della fotografia, con entusiasmo.

Fotograficamente come si definirebbe?

Non parlerei di stili, né mi rivolgerei alle specializzazioni. Per me, la fotografia deve rappresentare un piccolo miracolo, dove viene catturato qualcosa che può essere ripreso una sola volta. In caso contrario, l’immagine non diventa interessante. Ho fotografato delle sculture, che ovviamente vivono di staticità; eppure la luce che le avvolgeva non si sarebbe mai più potuta trovare. In quel caso, era avvenuto il piccolo miracolo.

Qual è la qualità più importante per un fotografo come lei?

Essere sveglio, lucido.

Poi è arrivata la moda...

Mi è stata proposta e l’ho fatta mia. La committenza era buona, le donne bellissime. Forse l’ho portata avanti un po’ troppo. Alle volte mi sono annoiato: troppo cataloghi. Non che mi abbiano fatto male, ma a un certo punto mi sono risvegliato, rendendomi conto di aver perso tempo prezioso, durante il quale avrei potuto fare altro.

Lei ha inventato una moda diversa, forse anche una donna differente...

Sì, è vero: credo di averlo fatto. Sto preparando un libro sulle donne: desidero idealizzarle come ho fatto un tempo, perché m’interessava. Se oggi apro una rivista di moda, non trovo donne che mi piacciano. Com’è la sua donna ideale?

Potessi dirlo, non avrei bisogno della fotografia.

Lei ha percorso una carriera meravigliosa...

Non troppo noiosa...

Arrivato a questo punto, c’è un progetto rimasto indietro e che vorrebbe portare a termine?

Domanda difficile. Posso solo dirle che molto spesso mi trovo a riflettere sui grandi artisti:

Picasso, Goya, Tiziano. Ebbene costoro, durante gli ultimi anni della loro vita, forse hanno prodotto il loro lavoro più interessante, soprattutto ai loro occhi. Non avevano più nulla da provare e godevano di una certa libertà. Non creavano per la gloria, tantomeno per il successo; bensì per il solo desiderio di farlo. Nel mio piccolo, vorrei trovarmi in quella posizione.

I luoghi che ha frequentato (Italia, Francia, USA) le hanno restituito qualcosa fotograficamente?

Premetto che non mi riconosco in alcuna nazionalità. Forse la città che mi ha ispirato maggiormente è stata New York, quella degli anni ’80.

Poi ha deciso per la Francia...

Negli anni ’50 le scelte potevano cadere tra Londra, Parigi, New York. L’Italia era esclusa. Londra mi piaceva perché erano molto gentili, forse troppo; New York metteva paura, per la sua forte richiesta di specializzazione. Restava Parigi, anche se antipatica. Se potessi decidere oggi, opterei per Berlino: una città molto viva.

Tra i cambiamenti che ha fronteggiato c’è stato quello del digitale... Un progresso enorme. La pellicola è ormai un medium ridicolo, maleodorante direi. Si è andati verso il meglio.

Lei è stato uno dei primi a usare il digitale...

Sì, mi porto dietro tanti primati. Sono stato il primo a usare il 35 mm nella moda di reportage, a utilizzare il computer e ad aprire un sito internet. Oggi ho un’applicazione iPad e un profilo Facebook. Ogni giorno “posto” qualcosa e sono entrato nello spirito del social. Ci tengo molto, perché mi offre una misura delle reazioni delle persone. Il fatto che esista una variabilità di gradimento tra una fotografia e un’altra mi diverte molto. Non è determinante, ma solletica il mio interesse.

La sua è vivacità intellettuale ...

Cerco di non essere addormentato. Potesse scegliere, quale soggetto ritrarrebbe domani?

Da una decina d’anni fotografo ciò che mi riguarda direttamente, a livello personale. Posso dire che la mia è una fotografia autobiografica.

Desidera parlare di sé?

No, affatto. Voglio solo fotografare soggetti che mi caratterizzino. Quando ero giovane, sognavo il mondo. Guardavo Life, le fotografie di Bresson e Bischof: m’interessava. Oggi abbiamo visto tutto e rimane solo il punto di vista individuale. La cosa che m’interessa, quindi, non è il soggetto in sé, ma il punto di vista su di esso.

Punto di vista come autorialità?

Ho alcune fotografie di Bresson, ma m’interessano molto quelle che solo lui avrebbe potuto scattare. Oggi mi chiedo quali immagini di Frank Horvat possano interessare. Di certo non è solo una questione di soggetto. La sua è stata una carriera lunghissima...

Inserita in una vita lunga e fortunata. Ho visto paesi diversi, cose differenti.

Qual è stato il momento più importante?

Non risponderò a questa domanda.

Cos’è rimasto di quel bambino che iniziava a fotografare?

Il ricordo di un ragazzino che non sapeva niente. Ripensando a cosa scattava, mi dico che forse tanto serio non era.

Lei ha detto spesso che fotografare è l’arte di non premere il bottone...

Si tratta di un paradosso, che però racchiude una scelta: quella di assumersi un rischio. Quando si elimina un momento, un’inquadratura, quello che abbiamo davanti potrebbe non accadere più. Dentro di noi, però, si accumula energia, quella che ci permetterà di riconoscere, al meglio, quanto abbiamo deciso di eliminare una prima volta.

Si scelgono le immagini, ma anche gli istanti nei quali fotografare...

Quando ero a New York, scattavo tutti i giorni; ma l’immagine più bella era la prima che vedevo al mattino. Me lo suggerì anche l’amico Édouard Boubat: la fotografia è un risveglio. 0 Lui era un poeta, il che mi ha convinto di come l’arte dello scatto sia più vicina alla poesia che non alla pittura.

La storia della sua vita è costellata anche di grandi amicizie...

Verso gli anni ’80 ho iniziato a intervistare i fotografi. Ne ho conosciuti tanti e con alcuni di loro sono nate delle solide amicizie. Ricordo con affetto Giacomelli, con il quale il rapportodistimarisultavareciproco.Luiera romagnolo, come Fellini; il che rappresentava una ricchezza. Eravamo tanto diversi: lui poeta, io intellettuale; eppure la diversità rafforzava il legame.

Potesse farsi un augurio fotografico da solo, cosa si direbbe?

Credo che la fotografia inizi adesso, uscita com’è dalla preistoria. Riguardo a me, non ho più nulla da augurarmi.



Buona fotografia a tutti

Frank Horvat

Frank Horvat nasce il 27 aprile del 1928, in Italia ad Abbazia (ora territorio croato) da entrambi i genitori medici.

Dal 1939 al 1945 si trova in Svizzera a Lugano, dove entra in possesso della su prima macchina fotografica, in cambio della sua collezione di francobolli, una Retinamat 35mm.

Soggiorna a Milano fino al 1950 studiando all'accademia di Brera e lavorando come agente pubblicitario: è il suo primo approccio con il mondo della fotografia freelance professionale. Compra per l'occasione una Rolleicord.

Durante il viaggio a Parigi del 1950 incontra Robert Capa e Henri Cartier-Bresson che influenzeranno per sempre il suo modo di concepire la fotografia, tant'è che inizia a viaggiare: nel 52-53 in Pakistan e India, e l'anno dopo a Londra lavorando per LIFE.

Si trasferisce a Parigi nel 55, luogo che diventerà la sua casa per tutta la vita.

Tra il 1956 e il 1988 diventa fotografo di moda lavorando per le maggiori riviste dell'epoca quali Harper's Bazaar e Vogue, sia in Europa che in America, e per due anni è anche fotografo associato di Magnum.

Tra il 1986 e il 1987 sono gli anni nei quali intervista i grandi fotografi dell'epoca diventati materiale per il suo libro Entre-Vues, uscito per Nathan editore nel 1988. Nel decennio 89-99 si dedica a progetti fotografici destinati in ultima fase alla pubblicazione di un libro. Continua a percorrere la strada della fotografia, alternando anche un interesse per il teatro, la poesia e la scultura.

Vive tutt'ora in Francia.