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Simone Nervi

"Guardo tanti film, ai quali poi s’ispirano le mie immagini. Molte delle mie fotografie sono orizzontali e non verticali. Con quell’inquadratura riesco a includere il contesto narrativo"
SIMONE NERVI
| Mosè Franchi | GRANDI AUTORI

IL SOGNATORE CHE COMUNICA

Incontriamo Simone Nervi in un bar, a Milano. I timori circa il Coronavirus hanno restituito alla città un’atmosfera estiva. C’è silenzio in giro, una calma che non t’aspetti; l’aria, limpida e fredda, restituisce un sapore strano. Simone ci appare meno timido di come l’avevamo percepito al telefono, sicuramente molto più consistente. Risponde con lucidità, dialoga senza indecisioni: riconosciamo in lui le caratteristiche dell’autore, di un interprete cioè che guarda oltre la propria prossimità odierna, non ponendosi limiti.

Si definisce sognatore, e questo non sorprende guardando i suoi lavori. Restiamo stupiti solo quando ci parla del suo essere bambino, nel senso di una qualità spendibile in fotografia. Sono però gli orizzonti allargati a farci comprendere la sua affermazione, gli ambiti estesi con i quali si circonda: quelli che ancora non costituiscono dei freni a quanto desidera esprimere. Del resto, quando parla di digitale (nel senso della tecnologia) si riferisce al pensiero e non alla metodica. Lui comunica e vuole farlo, da sempre; che poi lo faccia con la fotografia poco importa. Avrebbe potuto scrivere (l’ha detto) o fare cinema (manca poco, vedremo): l’importante è esprimersi. Ecco allora il bambino, quello che gioca. Entra nella sua stanza e costruisce un nuovo mondo, più largo, forse irreale, di certo sognato o immaginato. Siamo nella fase del “prima”: lo scatto verrà dopo, prima di chiudere la porta di quella camera che continua a vivere, quasi in una vita parallela. E’ un Simone bambino quello che abbiamo incontrato? Va bene, ci fidiamo. Sognatore? Di certo, lo vediamo. Comunica, però; e questo è un risultato voluto, che gli rende onore.

D] Simone, quando hai iniziato a fotografare e perché?

R] Ho iniziato … Beh, ho sempre usato la fotocamera, sin da bambino. Prendevo quella di mio padre. Tutto è diventato più serio durante l’ultimo anno delle superiori. Giravo la mia prossimità per capire cosa volessi fotografare. Scattavo numerosi autoritratti, così compresi come fossero le persone a piacermi.

D] La tua è stata passione per la fotografia?

R] Sì, avevo trovato un modo per esprimere me stesso. Io desideravo scrivere, dedicarmi alla regia cinematografica; il caso ha voluto che la fotografia esaudisse ciò che cercavo altrove. Dopo quasi vent’anni, ancora mi emoziono nell’andare sul set, perché fotografando potrò mettere in pratica le idee che avevano mosso i miei pensieri. Dello shooting amo il prima e il dopo: la parte creativa non nasce durante lo scatto. D] Le tue fotografie prendono vita più frequentemente in studio, dico male?

R] Sì, scatto più frequentemente in interni. Solo qualche volta lavoro in esterni e raramente per i Clienti. Oggi si producono poche campagne e molti look book. Per questi ultimi la luce deve essere costante. Sono cambiate tante cose, in pochi anni: nel 2010 giravo il mondo, oggi tutto è più difficile.

D] Puoi indicarci dei fotografi che ti abbiano ispirato?

R] David LaChapelle su tutti. Mi ha fatto comprendere quanto ampio sia l’ambito espressivo della fotografia. Si può fare qualcosa di diverso, lontano dagli standard richiesti dal mercato. Molti Clienti desiderano degli scatti omologati, purtroppo.

D] Hai avuto altri elementi ispiratori? Degli autori che ti abbiano acceso la creatività?

R] Sì, i libri di Haruki Murakami e il cinema “parlato” di Woody Allen.

D] Simone, come hai curato la tua formazione?

R] Ho frequentato la Libera Accademia di Belle Arti (LABA, Brescia), quando gli studenti erano pochi. Non ho imparato molto circa la fotografia, per cui ho dovuto studiare da autodidatta. Sono stato assistente di un professionista per quattro mesi, ma ho capito che non potevo far fede agli impegni che quel ruolo richiedeva. Non mi piaceva seguire le indicazioni del fotografo. Se non altro è aumentata la mia convinzione nell’intraprendere la professione: le direttive dovevano essere mie.

D] Hai fatto tutto da solo, quindi …

R] Ho imparato tanto scattando: sono cresciuto lavorando. Mi piace capire come funziona la luce: da lì posso intuire cosa potrà funzionare. Conosco la tecnica, ma non mi definisco un tecnico: gli still life non faranno mai parte di me.

D] Fotograficamente come ti definiresti?

R] Come ho scritto nel WEB, amo definirmi comunicatore, o comunque sognatore …

D] Perché sognatore?

R] Non amo pormi dei limiti. All’inizio mi definivo “fotografo digitale”. Volevo distinguermi, affermando che pensavo “in digitale”. Col passare degli anni, ho deciso di allargare le visuali. L’importante, per me, è comunicare qualcosa, oggi con la fotografia. D] Qual è, a tuo avviso, la qualità più importante per un fotografo come te?

R] Quella che per certi versi può rappresentare un difetto: sono ancora un bambino. Non lo faccio di proposito, ma finisco per non crescere.

D] Per via del sogno?

R] Per via di credere ancora nei sogni.

D] Tu fotografi molta moda …

R] Sono nato in quell’ambito, perché mi permetteva di fotografare le persone. Le ritraevo non per indagarne l’anima, ma al fine di rappresentare ciò che desideravo. Non sono un ritrattista.

D] Hai al tuo attivo il calendario Campari …

R] Si è trattato di un lavoro duro, bello, strano. Non ho più fatto cose del genere. Ci sono stati quattro giorni di scatti, preceduti da sei mesi di preparazione. Per finalizzare il tutto, dopo lo shooting, si sono resi necessari altri novanta giorni. Lavoravo a stretto contatto con gli art director per evitare i problemi circa la comunicazione di un prodotto alcolico. C’erano delle regole visive da rispettare.

D] La moda è donna, dico male?

R] Sì, quasi solo femminile. Il mercato è così.

D] Che tipo di donna esce dai tuoi scatti?

R] Non ce n’è uno definito. Cerco di renderla forte, ma molto dipende dalle occasioni che si presentano.

D] Come ingaggi le modelle fotograficamente? R] E’ strano per me. Sono molto timido, ma conosco l’inglese (la lingua ufficiale del fashion), anche se declinato alla mia maniera. Posso dire che non sono un dittatore, perché faccio sì che tutti si trovino bene. Certo è che sul set sono un’altra persona: me lo dicono tutti. D] B/N o colore? R] Colore, senza dubbio. Ho realizzato pochissimi scatti in B/N, perché ricattato dal Cliente. D] Hai iniziato a scattare con la pellicola?

R] Solo da bambino. A diciotto anni avevo tra le mani una Sony Mavica. Ho lasciato l’analogico quando il digitale ha iniziato ad affiancarsi. Non potevo fare diversamente, perché la post è diversa.

D] Nessun rimpianto quindi …

R] Nessuno.

D] Curi personalmente la post produzione?

R] Sì, quasi mai delego ad altri. Non è una qualità, comunque: passo troppo tempo davanti al computer.

D] Dopo quindici anni di carriera, c’è un progetto rimasto indietro e che vorresti portare a termine?

R] No, non c’è, perché ci sono tante idee che sviluppo negli anni. Se un progetto non l’ho portato a termine, qualche parte di esso migra in altre idee. Adesso sto approcciando il video. Non so se costituirà la mia attività o se sposterò le mie attenzioni nei confronti del cinema. Al momento, le mie immagini in movimento sono molto vicine alla fotografia. Si tratta di un linguaggio nuovo, per il quale forse non sono ancora pronto. Sto studiando.

D] Osservi il lavoro di altri?

R] Guardo tanti film, ai quali poi s’ispirano le mie immagini. Molte delle mie fotografie sono orizzontali e non verticali. Con quell’inquadratura riesco a includere il contesto narrativo.

D] Tu hai studiato cinematografia, dico male?

R] Sì, cose che si dimenticano, ma che recuperi in un secondo momento. Il mio insegnante mi ha aiutato molto: sono riuscito a guardare oltre, avvicinando i miei mondi onirici.

D] C’è un’ottica che usi preferenzialmente?

R] All’inizio usavo i grandangoli (mi sdraiavo anche per inquadrare). Con l’avanzare dell’età, il mio angolo di ripresa si è alzato, per uno scatto divenuto più formale. Oggi uso il “normale”.

D] Tra le tue, c’è una fotografia preferita?

R] No, sarebbe stato meglio se mi avessi chiesto di un eventuale progetto preferito, ma anche in questo caso non sarei stato in grado di risponderti. Dei lavori, mi piace l’inizio; una volta terminati, tutto finisce. Pensandoci bene, una fotografia preferita non esiste; ma forse ne esiste qualcuna alla quale sono maggiormente affezionato.

D] Potessi dedicarti un augurio fotografico, cosa ti diresti?

R] Me ne dedicherei due. Da un lato vorrei poter esprimermi con maggiore libertà (c’è sempre un committente alla base dei miei lavori), da un altro desidererei una solidità più consistente, questo per pensare in grande.

D] E se ti chiedessi un augurio per la fotografia?

R] Non saprei cosa dire. Vuoi che lo dedichi alla fotografia come disciplina?

D] Sì, va bene.

R] Non ci ho mai pensato, probabilmente perché la fotografia è un mezzo che non riesco a percepire al di fuori di me.





Buona fotografia a tutti

Simone Nervi

Note biografiche

Comunicatore multimediale con particolari doti come creatore di mondi onirici. Sono un essere umano dedito alla fotografia come mezzo di espressione, riflessione e divertimento. Pronto a collaborare con chi crede nell’evoluzione come sinossi necessaria per esercitare al meglio la propria condizione di essere umano. Non temo il confronto ed esercito la facoltà di essere creativo, termine tanto obsoleto quanto comprensibile.

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