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MARGARET THATCHER PRIMO MINISTRO

3 maggio 1979 Margaret Thatcher, prima donna nella storia, viene nominata Primo Ministro dalla regina Elisabetta II. La sua politica, nota come Thatcherismo, risultò essere molto controversa. I favorevoli ricordano la modernizzazione economica e il maggior peso politico internazionale, i detrattori sottolineano ancora l'aumento delle diseguaglianze sociali.

La Thatcher condusse i conservatori a una decisiva vittoria elettorale nel 1979 a seguito di una serie di grandi scioperi durante l'inverno precedente (il cosiddetto "inverno del malcontento"), sotto il governo del Partito Laburista di James Callaghan. In qualità di primo ministro che rappresentava la nuova energica ala destra del Partito conservatore (i "Dries", come si chiamarono in seguito, in contrasto con i conservatori moderati vecchio stile, o "Wets"), Thatcher sostenne una maggiore indipendenza dell'individuo dallo stato; la fine della presunta eccessiva interferenza del governo nell'economia, compresa la privatizzazione delle imprese statali e la vendita di alloggi pubblici agli inquilini. Ridusse le spese per i servizi sociali, come l'assistenza sanitaria, l'istruzione e l'alloggio. Limitò la stampa di moneta secondo la dottrina economica del monetarismo. Il termine thatcherismo finì per riferirsi non solo a queste politiche, ma anche ad alcuni aspetti della sua visione etica e del suo stile personale, tra cui l'assolutismo morale, il feroce nazionalismo, uno zelante rispetto per gli interessi dell'individuo e un approccio combattivo e intransigente in politica.

Margaret ebbe anche il merito, quando tutti davano ormai per scontato il tramonto della Gran Bretagna, di aver restituito ai suoi concittadini l'orgoglio di essere inglesi, impegnandoli addirittura in un’impensabile guerra contro l'Argentina, in difesa delle dimenticate isole Falkland.

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UNA BANDIERA ROSSA SU BERLINO

Oggi incontreremo una fotografia costruita, ma non ingannevole: celebra la vittoria dell’URSS sulla Germania nella Seconda Guerra Mondiale. Una storia interessante.

Aveva ventotto anni, il fotografo Yevgeny Khaldei, quando scattò l’immagine più famosa della vittoria dell’URSS sulla Germania: la bandiera rossa issata dai soldati sovietici sul Reichstag, la sede del parlamento tedesco, il 2 maggio 1945. Khaldei aveva visto la fotografia della bandiera americana issata sul Monte Suribashi, a Iwo Jima, nel febbraio 1945, scattata da Joe Rosenthal. Voleva fare qualcosa di simile, riuscendovi peraltro.
Khaldei arrivò a Berlino con un enorme drappo rosso formato da due tovaglie cucite insieme con una falce e martello applicata sopra, opera di un sarto a Mosca. Reclutò in strada tre soldati e con loro mise in scena l’evento sul tetto dell’edificio. Come già a Iwo Jima, una bandiera era già stata innalzata qualche giorno prima, il 30 aprile; ma nel cuore della notte, al buio, mentre ancora si combatteva. Ora che la battaglia per il Reichstag era finita, Khaldei potè scattare con calma le sue trentasei fotografie, un intero rullino.

Uno degli scatti divenne subito famoso e venne pubblicato sul settimanale illustrato Ogonek il 13 maggio. Per offrire ulteriore drammaticità all’immagine Khaldei aggiunse un po’ di fumo sullo sfondo, come se i combattimenti fossero ancora in corso. Non fu l’unica operazione ritocco. Venne notato che il secondo soldato della foto, quello che sostiene chi sta issando la bandiera, aveva due orologi al polso. Poteva essere il segno di qualche qualche saccheggio. Il secondo orologio fu così rimosso.

Yevgeny Ananievich Khaldei, come fotografo di guerra aveva documentato tutti gli anni del terribile fronte orientale, dal 1941 in poi, per conto della TASS. Ebbe gloria e onori, fu presente alla conferenza di Postdam e ai processi di Norimberga. Ebbe anche guai per il suo essere ebreo e fu licenziato dalla TASS. Venne riassunto dalla Pravda dopo la morte di Stalin.

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QUARTO POTERE AL CINEMA

1 maggio 1941. "Quarto Potere", il primo lungometraggio del giovane regista Orson Welles, esce in tutte le sale cinematografiche americane. E’ considerato un capolavoro della cinematografia mondiale.

Gli scorsi anni ci occupammo dell’Empire State Building (inaugurato il 1° maggio del 1931), della Festa dei Lavoratori, ma anche di Sally Mann (nata nel 1951, sempre il primo giorno di maggio) e Ayrton Senna (deceduto nel 1994 a Imola).
Ci sarebbe tanto altro da dire, in questo 1° maggio; perché la fotografia è come la vita: propone e ripropone, salvo poi sorprenderci quando esce dal cassetto, inaspettatamente, facendoci ridere, piangere e meravigliare.

Torniamo a Quarto potere. Il titolo originale del film è Citizen Kane, cioè il cittadino Kane: l’incarnazione del sogno americano, la storia di un cittadino umile che riesce a costruirsi un vero e proprio impero.
La figura di Kane era vagamente ispirata a quella del reale imprenditore William Randolph Hearst, che si adirò non poco all’uscita del film.
Nel 1942 il capolavoro di Welles ricevette 9 candidature ai Premi Oscar: miglior film, migliore attore protagonista (Welles), migliore regia, migliore sceneggiatura originale, migliore fotografia, migliore sonoro, migliore montaggio, migliore musica. Vinse solo una statuetta per la migliore sceneggiatura firmata da Welles e Herman J. Mankievicz. Il film fu un clamoroso insuccesso di pubblico e critica, ma Quarto potere resta ancora oggi uno dei migliori film nella storia del cinema.
Un’opera senza tempo, rivoluzionaria in ogni inquadratura, Quarto potere è un film di attualità sconcertante nel mettere a fuoco il potere dei media e l’inafferrabilità della complessità umana. Per mostrare la realtà immaginata di un magnate in ascesa e declino Welles mette in scena fittizi cinegiornali, punti di vista difformi e contraddittori, scene spiazzanti e mai viste prima. In Quarto potere troviamo un’inquadratura dall’alto di un giovane Kane in piedi a gambe larghe su cataste di suoi giornali. La scena indica potere, spavalderia, onnipotenza, nonostante l’angolazione della ripresa.
Alla fine, ecco l’insegnamento: l’essenza di un uomo resta e resterà inafferrabile. Possiamo coglierne aspetti, frammenti parziali; ma davanti alla sua morte nemmeno chi “lo conosceva bene” riesce a comprenderlo del tutto.

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Riprendiamo con la rubrica del lunedì, la “Fotografia da Leggere”; il giorno dopo però (chiediamo scusa). Oggi incontriamo un libro intimo, anche per chi legge. Si tratta di “Vita di Luigi Ghirri, Fotografia, Arte, Letteratura e Musica” firmato da Vanni Codeluppi (Carocci Editore).
Nel guardare le immagini del fotografo di Scandiano ci s’immerge nel silenzio visivo, non perché riguardino luoghi privi di rumori, ma per il fatto che creano uno spazio di silenzio dentro chi osserva, trasportando altrove i suoi pensieri abituali. La definizione è di Gigliola Foschi, autrice del libro “Le fotografie del silenzio”, peraltro riportata anche nel volumetto che abbiamo tra le mani. Nello sviluppo dei contenuti, l’autore tenta (riuscendovi) di offrire una spiegazione filosofica alle fotografie di Luigi Ghirri e anche al silenzio interiore che riescono a far scaturire.

Leggiamo nel prologo. Dieci fotografie di Luigi Ghirri. Non sono le più importanti, soltanto alcune tra le centomila scattate. Ognuna di queste, però è legata a un’importante componente della filosofia estetica del fotografo, così come a un decisivo capitolo della sua vita di essere umano. Un’esistenza che è stata breve e non avventurosa, ma sicuramente intensa.
[…]
Arrivato alla fine del suo esistere, Luigi si è accorto di aver messo insieme un immenso mosaico, che rappresentava magicamente il suo volto. Ha capito, cioè, che noi essere umani siamo interamente costituiti di quel mondo che ci circonda, ci entra dentro e ci dà vita. Come ha fatto Luigi, si tratta solo di lasciarlo passare, senza opporre alcuna resistenza.
Del resto, lui impara come i legami con gli altri siano importanti e per questo li curerà con un impegno assiduo. Non solo, da adulto conserverà grande affetto verso tutti i parenti e i luoghi che hanno caratterizzato la sua infanzia; ed è il passato a rappresentare uno dei temi rilevanti della sua poetica.
Questo e altro costituisce l’ossatura del lavoro di Codeluppi, il tutto argomentato dalle dieci fotografie che dicevamo, anch’esse da leggere (e comprendere). Perché negli scatti di Luigi sembra che la realtà si sia messa in scena per lui. Non è così: egli ne ha saputo cogliere una porzione che è già ordinata e messa in scena alla perfezione.

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