LA FESTA DELLA LIBERAZIONE
Come dicemmolo scorso anno, la storia si scrive quasi da sola, tra vinti e vincitori, battaglie ed episodi, coraggio e retorica. Alla resa dei conti, però, ogni conflitto genera solo superstiti, se non addirittura reduci: a loro il compito di generare un “come prima” almeno migliore.
Dedichiamo alla festa un racconto, ancora di guerra. Lo facciamo per ricordare coloro che non hanno potuto dire a se stessi: «La guerra è finita».
UN PAESAGGIO CONTAGIOSO
I due ragazzi erano vicini, seduti su un grosso sasso. In silenzio guardavano il panorama di fronte a loro. La luce era tersa, primaverile. A valle, il traffico scorreva producendo un brusio lontano. Era un bel momento.
Luciano e Frank, durante una pausa della loro passeggiata, si soffermarono a guardarli.
«Di certo non sono due reduci», disse Luciano. «Troppo giovani».
«Sembrano amici, ma li lega una storia lontana, più grande di loro. Posso raccontarla?», chiese Frank.
«Certo, fai pure».
1945
Fred aveva trovato rifugio dentro una buca. Il combattimento era stato cruento e improvviso. Le armi da fuoco sparavano in continuazione, illuminando la boscaglia con delle stelline. Si era arrivati anche al corpo a corpo, con uno dei due rivali a soccombere, rinunciando alla vita.
Pareva tutto finito. Nel buio della notte si distinguevano delle nuvolette bluastre ad altezza d’uomo. C’era odore di polvere da sparo.
Nel silenzio si sentì un lamento, poi una voce: « Ich kann nicht sehen!». Fred, con cautela, provò a guardare fuori, ma non scorse nulla. Eppure quella voce sembrava vicina: « Ich kann nicht sehen!», ripeteva.
La notte imponeva il suo silenzio, ma quella voce, ormai diventata urlo, risuonava nella sua eco, implorava. Fred si fece coraggio e iniziò a strisciare nella direzione del lamento. Aveva lasciato il fucile nella buca e anche l’elmetto. Ora del soldato gli parve di percepire il respiro, leggermente affannato. L’ultimo urlo venne esclamato a pochi passi, ormai riusciva a toccare l’uomo ferito.
Nonostante le tenebre, Fred fu in grado di scorgere il viso del ferito, rosso di sangue. Gli occhi non si distinguevano. Si sentì abbracciare con forza, mentre l’altro ripeteva: «Ich kann nicht sehen!».
Un colpo di fucile ruppe il silenzio, poi un altro ancora. Una granata esplose vicino ai due. Fred prese quel corpo in braccio e lo portò verso il nemico, senza comprendere che di lì a poco sarebbe diventato un prigioniero. Nelle trincee tedesche vennero accolti con i fucili spianati. In tanti si occuparono del soldato nemico e lui venne dimenticato, per poco però: un militare, con la pistola in pugno, lo invitò a camminare verso un piccolo pertugio. La sua prigione.
Göppingen, tempo dopo
Il viaggio in treno era stato estenuante. Gli aerei alleati attaccavano il convoglio in continuazione. Fred, per la prima volta, non ebbe paura. Il ricordo del soldato insanguinato gli fece comprendere come in guerra tutto dipenda dal destino, dalla fortuna. Con lui vi erano altri prigionieri, provenienti da vari fronti. Giunsero a Göppingen che era notte e dei soldati dalla voce decisa li invitarono a entrare in una baracca.
La prigionia non fu dura. I pasti erano scarsi, ma la stagione volgeva al bello, per cui Fred trascorreva le giornate in un’area cintata da una rete molto alta. Un giorno arrivò un’infermiera che spingeva una carrozzella, con seduto un individuo bendato. Chiesero di lui.
Il ferito, che non sapeva dove guardare, disse a Fred:
«Sono Günther, lei mi ha salvato la vita». Dalla carrozzella tentò di alzarsi in piedi, toccando con le mani la rete di recinzione. Fred allungò le dita, sfiorando quelle di Gunther.
«Coma stai?», chiese.
«Meglio», rispose l’altro. «Spero di poter vedere un giorno».
«Vedrai, sarà così», ribadì Fred. «Abbi cura di te».
«Un giorno c’incontreremo», disse Günther, «Così potrò ringraziarti meglio».
L’infermiera voltò la carrozzella, mentre il ferito continuava ad agitare le braccia in segno di saluto. Fred si commosse nel vederlo andare via.
Vergato, 1965
Fred guardava il panorama. Lo riconobbe più bello senza i rumori della guerra. Una brezza primaverile gli spettinava i capelli biondi, ormai tinti da qualche punto di bianco. I pensieri tornavano ai suoi vent’anni, quando le ambizioni giovanili si scontravano contro i verdetti della guerra. In quella vallata aveva perso amici coetanei, riconoscendo i volti del decesso, con quegli occhi sgranati che ormai non scorgevano più nulla.
Si avvicinò un uomo dall’andatura baldanzosa.
«Ha combattuto qui?», chiese; ma la pronuncia tradiva la sua provenienza: era tedesco.
«Sì, ho trascorso qui i miei vent’anni; ma torno volentieri in questi posti».
«Anch’io», disse l’altro, «Anche se ai tempi non vedevo nulla».
Fred allungò la mano, che l’altro strinse con vigore, meravigliandosi. Aveva riconosciuto il tatto delle dita.
«E’ lei?», domandò commosso.
«Sei Günther?». «Ci vedi adesso?», furono le domande di Fred.
«Sì», rispose l’altro, «Per merito tuo».
I due si sedettero su un sasso, guardando il panorama. Stettero a lungo in silenzio, immersi nei propri pensieri; poi iniziarono a raccontarsi. Storie di mogli, figli, di una guerra lontana; e poi parlarono di città e case, delle speranze ancora accese.
Entrambi, per questioni lavorative, si erano trasferiti in città: uno a Berlino, l’altro a New York; e ne parlavano con entusiasmo, tessendone le lodi.
«Qui però si sta meglio», disse Fred.
«E’ vero», confermò l’altro. «Il tempo è più lento, e poi c’è questa vista, allungata oltre l’orizzonte dei propri pensieri».
Fred fece un cenno di assenso, poi disse:
«Forse mio figlio non capirebbe, i vent’anni li ha trascorsi a New York».
«Non puoi dirlo, questo paesaggio è contagioso».
1975
Fred era seduto sul solito sasso, come ormai ogni anno. Si aspettava di vedere Günther, ma anche l’anno prima non l’aveva incontrato. Un ragazzo alto e fiero camminò verso di lui.
«E’ Fred?», chiese.
«Sì, sono io»
«Mi chiamo Wolfgang, sono il figlio di Günther. Mio padre è deceduto due anni addietro, dopo una malattia che l’ha consumato in fretta. Mi ha parlato spesso di lei, del suo coraggio; e anche di questi luoghi».
«Noi ci sedevamo qui», disse Fred. «Parlami un po’ di te»
Anni novanta
«Poi è morto anche Fred e suo figlio è venuto qui, per inseguire le memorie paterne. Forse è un caso, ma i due figli sono riusciti a riconoscersi», disse Frank.
«Una storia di guerra?», chiese Luciano.
«No, forse qualcosa in più. Due generazioni, padri e figli, che riescono a parlarsi, mettendo a confronto le ambizioni giovanili, i ricordi, forse anche i rimpianti: con lucidità, senza retorica».
«E poi …».
«E poi, ci sono questi posti, contagiosi per mistero, certamente tramandabili all’idea»
Luciano e Frank stettero in silenzio, come i due ragazzi di sotto. Non c’era mutismo tra i quattro, ma un respiro interiore che le parole non sarebbero riuscite a descrivere.
*
Robert Capa, note biografiche
Nato a Budapest nel 1913, Robert Capa inizia la sua carriera di fotoreporter in un’agenzia fotografica di Berlino. Dopo l’ascesa al potere di Hitler, si trasferisce a Parigi dove inizia la sua attività di foto-giornalista freelance. Viaggia e fotografa in Spagna, Cina, Nord Africa. In Italia, segue la liberazione del Paese da parte degli Alleati in Sicilia, a Napoli e ad Anzio. Nel dopoguerra, Capa diventa presidente dell’agenzia fotografica Magnum. Nel 1954, parte per il Giappone e poi per il Vietnam come inviato di Life. Ed è in Vietnam che muore saltando su una mina anti-uomo. In suo onore viene istituito il premio annuale Robert Capa e l’International Center for Photography a New York.
In questa sede, ci permettiamo di suggerire un libro scritto dallo stesso Capa: “Leggermente Fuori Fuoco” (ed. Contrasto). Si tratta di un diario circa la partecipazione di Robert, come fotoreporter di guerra, alla Seconda guerra mondiale. Con uno stile accattivante e ironico, Capa ci racconta delle sue peripezie di viaggio, gli incontri fatti, l'atmosfera di quegli anni cruciali: l'Europa, l'Africa, la campagna d'Italia a fianco degli alleati, lo sbarco in Normandia, la liberazione della Francia. Si tratta di un diario particolare, ricco di colpi di scena, di storie d'amore, di personaggi intensi, di esperienze forti e drammatiche. Ne esce la vera figura del fotografo, amante della vita e dell’amore. Un po’ di Gossip: nota è la sua relazione con l’attrice (bellissima) Ingrid Bergman.
Robert Capa muore il 25 maggio 1954, nella Provincia di Thai Binh, in Vietnam.
Le fotografie
Monreale, poco fuori Palermo, i civili accolgono le truppe americane, luglio 1943. Robert Capa.