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VACANZE ROMANE, LA PRIMA

27 agosto 1953: L'anteprima del film "Vacanze Romane" viene proiettata a New York City. Attori protagonisti sono Audrey Hepburn e Gregory Peck. Il film tratta la storia di una principessa europea che trascorre delle insolite vacanze nella Roma degli anni '50; diventerà un successo senza tempo.
I motivi però sono tanti: quell’Italia piace ancora, qui da noi e anche all’estero. La Capitale, poi, era bellissima, fresca, spavalda, pronta alle Olimpiadi, inebriata dal boom economico. In più, ecco un simbolo forte: la Vespa, lo scooter che ha segnato un’era.

L’Italia inizia a muoversi su due ruote, prima che con le quattro. In molti hanno posseduto quello scooter, che quasi veniva tramandato: dai fratelli maggiori a quelli minori; e poi ad amici, parenti, conoscenti. Nell’immaginario collettivo, quel corpo bombato (con pedane e manubrio) era diventato un simbolo di libertà, un modo per allargare la propria prossimità, comunque uno strumento col quale identificarsi. Non possiamo contare quante famiglie siano nate su quella “motoretta”; perché sì, anche l’amore, con la Vespa, finiva per emanciparsi, motorizzandosi a sua volta.

La Vespa, come simbolo del costume “italico”, è comparsa in numerosi film. I primi a guidare quello scooter sul grande schermo furono, nel 1953, Audrey Hepburn e Gregory Peck, protagonisti di “Vacanze Romane”. Negli anni ’60, ecco un’altra partecipazione importante: la Vespa recita nel film “La Dolce Vita”, di Federico Fellini. A pilotare lo scooter Piaggio è il Paparazzo, che scorrazza per Via Veneto alla ricerca di personaggi famosi da fotografare. Dino Risi scelse la Vespa come mezzo di trasporto per i protagonisti dei suoi lavori proletari: “Poveri, ma belli” (1956), “Belle, ma povere” (1957). Andando negli USA, a guidare una Vespa GS 160 sono i giovani di “American Graffiti” (1973), la pellicola nella quale George Lucas descrisse i sogni della gioventù americana degli anni ’60.
Finiamo con un cult movie: “Caro Diario”, di Nanni Moretti. Il regista, nel primo episodio del film, attraversa una Roma resa deserta dalle vacanze estive, scoprendo personaggi e luoghi mai visti prima.

L’elenco potrebbe continuare, ma preferiamo non dilungarci. Diciamo solo che tra Vespa e cinema è sempre stato amore, che confidiamo possa continuare.

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THE TERMINAL, QUELLO VERO E IL FILM

26 agosto 1988. Inizia l'odissea di Merhan Karimi Nasseri, un rifugiato politico iraniano, che arrivato all'Aeroporto Charles de Gaulle di Parigi rimane per 18 anni nel limbo dello spazio extraterritoriale. La storia ispira il regista Steven Spielberg, che ne trae un film, The Terminal, con Tom Hanks e Catherine Zeta Jones come attori protagonisti.

The Terminal, il film diretto da Steven Spielberg, racconta la storia di Viktor Navorski (Tom Hanks), un viaggiatore proveniente dalla Cracosia (paese di fantasia), che arriva all'aeroporto John F. Kennedy di New York, per scoprire che il suo passaporto improvvisamente non è più valido. Infatti, a causa della guerra civile nel frattempo scoppiata in patria, Viktor non è più autorizzato né ad entrare negli Usa né a tornare a casa: è tecnicamente apolide. Per questo motivo, dall'ufficio dei visti sequestrano il suo passaporto e il suo biglietto aereo.
Senza altra scelta, Viktor si stabilisce nel terminal con i suoi bagagli e una lattina di arachidi. Nel frattempo, Viktor fa amicizia con i dipendenti del terminal e assiste i viaggiatori dell'aeroporto. Tra questi, un'assistente di volo di nome Amelia Warren (Catherine Zeta Jones), che vede periodicamente e cerca di corteggiare, presentandosi come un imprenditore edile che viaggia spesso. Viktor, in realtà, dopo aver impulsivamente rimodellato un muro, è stato assunto da un appaltatore aeroportuale e pagato sotto banco.

Amelia accetta un invito a cena da Viktor, nella sua casa improvvisata all'interno del terminal con l'aiuto dei suoi nuovi amici. Le mostra la lattina di arachidi che porta sempre con sé ed il suo contenuto: una collezioni di autografi e locandine dei jazzisti più famosi.
Il suo defunto padre era un appassionato di jazz e desiderava collezionare gli autografi di 57 musicisti. Morì prima di poterne ottenere l'ultimo, quello del sassofonista tenore Benny Golson. L'unico motivo del viaggio a New York di Viktor era proprio quello di completare la preziosa collezione del padre. Amelia, commossa dalla storia appena ascoltata, bacia Viktor. Sono passati 9 mesi dall'arrivo di Viktor in aeroporto quando alcuni amici lo svegliano con la notizia della fine della guerra in Cracosia.

Viktor si troverà a questo punto a dover scegliere tra il ritorno a casa e la sua nuova realtà.

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PARIGI LIBERATA

La liberazione di Parigi, durante la seconda guerra mondiale, avvenne il 25 agosto 1944, con la resa della guarnigione tedesca al termine degli scontri iniziati il 19 agosto precedente con gli insorti locali francesi e le truppe degli Alleati arrivate in città.

La liberazione di Parigi fu uno degli eventi più significativi dei capitoli finali del conflitto, e segnò il termine del regime di Vichy e la restaurazione della Repubblica francese. Ci sarebbero però voluti altri nove mesi prima che l’esercito nazista si arrendesse definitivamente.

Gli storici fotografi Magnum hanno documentato questo cruciale evento dell’agosto 1944. Parliamo di Robert Capa e Henri Cartier-Bresson.
Il 19 agosto 1944 la Resistenza francese e le truppe alleate diedero inizio alla liberazione di Parigi, presto raggiunti dall’intera popolazione. “La strada per Parigi era aperta” ricordò più tardi Robert Capa “e tutti i parigini erano fuori per le strade, a toccare il primo carro armato, a baciare il primo soldato, a cantare, ballare e piangere".

Nel 1939 Henri Cartier-Bresson era stato arruolato nell’esercito francese come caporale, inserito nella unità addetta alle foto e alle riprese. Fu però catturato dai tedeschi l’anno successivo, e passò 35 mesi in un campo di prigionia. Dopo due tentativi di evasione andati a vuoto, riuscì finalmente a fuggire. Nel 1943 andò a recuperare la sua Leica, che aveva nascosto in una fattoria vicino ai Vosgi, e documentò – non ufficialmente – l’occupazione nazista di Parigi prima, e la sua liberazione poi.

Robert Capa aveva trascorso gran parte del conflitto come fotografo per l’esercito statunitense, catturando immagini indimenticabili dello sbarco in Sicilia e della guerra aerea. Aveva inoltre documentato il D-Day e all’alba del 25 agosto 1944 si era infine riunito con la seconda divisione corazzata francese nella strada per Parigi. Stando alla sua testimonianza, la divisione venne accolta già nei sobborghi della città – dove Capa aveva abitato a lungo prima del conflitto – da quello che definì “un benvenuto delirante”.

Nella notte, il generale Charles De Gaulle trasmise un discorso dall’Hotel de Ville, il Comune di Parigi, che fino a poco prima era stato occupato dal comando nazista.
«Parigi!» disse «Una Parigi oltraggiata. Una Parigi spezzata. Una Parigi martirizzata. Ma… una Parigi libera! Che si è liberata da sé, con l’aiuto delle armi francesi, con il supporto di tutta la Francia, la vera Francia, la Francia eterna».

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IL VESUVIO ERUTTA, POMPEI SCOMPARE

Il 24 agosto del 79 d. C. erutta il Vesuvio. Pompei è sommersa da cenere, lapilli e lava, divenendo, da allora, il teatro dell’evento eruttivo, un luogo dove gli istanti degli avvenimenti rivivono alla vista, complici i tanti corpi trasformati in statue, irrigiditi nell’ultimo tentativo di sopravvivere alla polvere e alla lava.

Arriviamo alla fotografia. Kenro Izu, autore giapponese di Osaka (1949), ci propone un lavoro originale su Pompei, poi diventato libro (Requiem, Skira Editore 2020). Il volume narra una storia e restituisce vita e dignità a quanti morirono per l’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C., incapaci di reagire di fronte a tanta improvvisa violenza. Con caparbietà ostinata, Izu ha allestito i corpi dei fuggitivi (trasformati dalla lava incandescente in statue eterne) nelle varie case come negli esterni di Pompei ed Ercolano. I corpi rattrappiti che scopriamo nelle stanze o lungo i corridoi lastricati ci colgono impreparati perché li vediamo dove, forse, l’eruzione li sorprese, inermi e abbandonati dopo aver cercato invano un rifugio. Quella di Izu, quindi, non è una rilettura storica per immagini di un evento catastrofico, piuttosto diventa un omaggio alla gente di Pompei ed Ercolano.

Le suggestive immagini del fotografo giapponese, tra spiritualità e reperti archeologici, ci hanno indotto a rileggere una testimonianza dell’epoca: quella di Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto anche Plinio il Giovane per distinguerlo dall’omonimo zio Plinio il Vecchio. Plinio “secondo” aveva diciotto anni. Suo padre era morto quando era ancora bambino e in seguito era stato adottato dallo zio, il rinomato scrittore e naturalista di Como che al tempo dell’eruzione del Vesuvio si trovava sul Golfo di Napoli come prefetto della flotta imperiale romana all’ancora presso Miseno.
In una lettera inviata da Plinio allo storico Tacito vengono trascritte le testimonianze circa la morte di Plinio il Vecchio. Questi si era recato a Ercolano per andare ad aiutare la famiglia di un amico, ma dovette cambiare rotta a causa del ritiro improvviso delle acque. Si diresse così verso Stabia, dove approdò; facendosi ospitare da Pomponianus. Anche quella cittadina venne colpita dalle ceneri e lapilli del vulcano. I vapori tossici soffocarono Plinio il Vecchio che lì trovò la morte.

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