DENTRO LA GALLERIA, UN RACCONTO
Era stata Silvia, sua moglie, a trovare la fotografia. Aveva i bordi seghettati. Erano rimasti qualche minuto a osservarla, in silenzio. Poi lei era andata via, con gli occhi lucidi. Pietro continuò a guardare, aspettando i ricordi.
Lui non viveva in un casello vero e proprio. La sua cantoniera era senza binari; si trovava adagiata in una valletta, come le case dei signori: i monti alle spalle e, dalle finestre, la valle fino a Pistoia, di cui si poteva vedere solo un pezzettino. Era bello stare lì, anche per la moglie, che aveva ritrovato la voglia contadina dell’infanzia: quel tempo scandito dalla luce, dalle stagioni, dal cibo. Sì perché, sul lato destro della casa, vi era un forno per il pane: grande e capace, e buio come una galleria. Pietro vi aveva costruito un tappo di legno, della stessa forma dell’imboccatura, con un piccolo manico al centro per poterlo rimuovere con facilità. Così, quando Silvia lo avrebbe aperto, sarebbero tornate alle nari l’idea del fuoco e del fumo, ma anche quella polvere acre di brace passata, da pulire con cura prima di riaccendere il fuoco.
Il tempo passava così, con quel forno che, ad intervalli ben scanditi, ritmava la vita di Silvia e Pietro (Pietrone per gli amici): tra inverni ed estati, silenzi e ricordi, con un amore che, rapito al volo, prendeva e restituiva sostanza a lui, lei, alla loro esistenza.
La vita del casellante non era tutta lì. C’era un altro forno, un altro antro, un’altra fetta di vita cui accedere attraverso un cunicolo stretto: quello che portava alla galleria ed al binario da controllare. Quando Pietro doveva entrarvi, provava quasi un senso d’angoscia; era come se la sua vita dovesse trasferirsi altrove, con un grande balzo. Ma doveva farlo, così scendeva per pochi passi e si volgeva alla casa: riconoscendone i contorni ed anche il calore, con Silvia che già faceva altre cose, agile e felice come la sua gonna. Pietro aspettava ancora un attimo, perché, forse, dopo il primo saluto ce ne sarebbe stato un altro; poi imboccava il cunicolo. E la vita cambiava.
I suoi colleghi lo avevano sempre invidiato. “Pietro, non hai il binario di fronte casa”, dicevano, “e nemmeno il fumo e i rumori”. Vero, ma il salto era grande: ed anche la paura. Quando si trovava in casa, i treni li avvertiva appena: prima soffrire a Piteccio, poi scomparire nel silenzio; dopo ancora ansimare, più su, oltre Fabbiana; lontani già dalla sua vita. Il cunicolo no: era muto, o quasi. Per ascoltare locomotive e vagoni bisognava avvicinarsi, almeno un poco; ma erano lontani, se non per un fischio, di tanto in tanto, o per quello stridere dei bordini in curva.
Se entrava nel cunicolo, tutto cambiava. Pochi passi e niente era più come prima. Se sua moglie lo avesse chiamato, non avrebbe sentito: chiuso dal silenzio, rotto solo dai suoi passi. In fondo, dopo dieci metri, il binario: bello, lucido, tagliente. Pietro doveva illuminarlo con la lampada per capire quanto lontano fosse. Una volta passò un treno all’improvviso, e fu l’inferno: il fumo schizzò all’interno, umido e colloso; e poi luci, ad abbagliare, e stridori, che cessarono d’un tratto, quando la paura del ricordo lo convinceva che l’esperienza non fosse ancora finita.
Era inverno, quella mattina; ed il freddo non aveva impedito a Silvia di salutarlo fin sulla porta. Pietro si volse, all’imbocco del cunicolo, e Lei era ancora lì: bella come la prima volta, intenta ad asciugarsi le mani col grembiale.
Faceva freddo, dentro. Pietro, dopo due passi, già riconosceva la paura, e l’odore. Non sarebbero passati treni, almeno per un po’, ma non si poteva mai sapere: una macchina di servizio, o una “doppia” che tornava indietro, sarebbero potute apparire così, dal nulla. Lui arrivò in fondo al cunicolo, ma niente: solo quel vento “ad aspirare”, freddo ed innaturale come solo lì dentro si poteva sentire. Il binario era in curva e doveva percorrerlo fino all’apertura, dove solo uno spicchio di cielo gli avrebbe fatto capire di essere all’aperto. Sì, perché quello spazio una volta non esisteva. Il tunnel era un pezzo unico e da Piteccio portava più su e più in alto, costringendo il treno a tornare indietro, dopo una curva stretta e ripida. Dopo anni di fumo e svenimenti si provò a dividere la galleria in tre parti, per mezzo di due sbancamenti. Uno doveva custodirlo lui, raggiungendolo dall’interno della galleria.
“Guarda la luce, guarda la luce e ogni tanto voltati”, così gli aveva detto Silvia, una volta che lo aveva accompagnato. Lui lo faceva, tutte le volte: ma l’imbocco era sempre lontano ed alle spalle c’era troppo buio, per i suoi occhi abbagliati e per l’angoscia che l’opprimeva. Il treno sferragliava solo per coloro che volevano vederlo; dentro una galleria, in curva per giunta, la locomotiva tratteneva il suo respiro fino alla fine, annunciandosi con un po’ di luce sulla parete. Dopo solo l’inferno.
Anche quel giorno giunse puntuale allo sbancamento. Si sentì sollevato, anche se attorno a sé c’erano solo muri ed i due imbocchi delle gallerie. A sua disposizione unicamente una piccola casupola, come quella dei soldati che montano la guardia. Per il resto solo tempo, tanto tempo: per pensare a sé, a Silvia; a quella vita lì: fatta di treni ad andare e venire. Ogni giorno.
Era felice: questo sì. Il lavoro non prevedeva controlli, anche perché non c’era nulla da tenere d’occhio. L’unica cosa che avrebbe potuto fare, sarebbe stato scappare, ma non era il suo caso; anzi: Pietro era sempre stato fedele, ed anche puntuale. Ogni tanto controllava l’orologio anche per il solo fatto di averlo.
In un’esistenza così cadenzata c'era comunque qualcosa che lo turbava, ed era il confine tra prima e dopo, tra dentro e fuori: con quella montagna che avrebbe potuto inghiottirlo per sempre, o rilasciarlo alla moglie. Dentro era tutto diverso, perché si trovava solo, inerme, troppo lontano da quella casetta. E da Silvia.
Così la sensazione era quella di una trasferta, lunga per giunta: accompagnata da quei treni che passavano, lasciandolo lì, quasi per scherzo.
Pietro i treni li riconosceva: non tanto per l’orario e neanche a causa del rumore, indistinto fino all’ultimo. Il sesto senso gli diceva che quello successivo sarebbe stato il rapido o l’accelerato, anche quando gli orari, visto il traffico, si scompaginavano un po’. Quella volta, accadde qualcosa di diverso, e lui lo percepì. Il convoglio uscì lento, non sembrò neanche accelerare per via del rumore o del fumo. Come un animale in agonia, imboccò il secondo portale per poi fermarsi: quasi che la locomotiva volesse nascondersi per la vergogna. Tra il fumo e l’umidità notò uno scossone, poi un lento retrocedere; infine un altro sussulto, che però disse che il treno si sarebbe fermato: lì, in mezzo allo sbancamento. Non sapeva cosa fare: forse sarebbe dovuto correre giù per la galleria ed accendere un fuoco in mezzo ai binari, oppure avrebbe fatto meglio a chiedere al Capotreno. Invece rimase inerme, con quel treno umidiccio a fare da ospite nel suo territorio, dove i convogli passavano soltanto. Si avvicinò alla massa ferrosa, anche perché il fumo non lo faceva vedere. Lui era più in basso delle porte, per via della massicciata ghiaiosa, ma si mise a salire, per la curiosità di vedere anche solo il colore della carrozza: prima verdognola, ora avvolta dal fumo ed imperlata di umidità.
Due passi li fece a vuoto, con la ghiaia che cedeva sotto i suoi passi; poi prese una maniglia e si tirò su di forza, poggiando un piede sul predellino di legno: umido e scivoloso anch’esso. Un ultimo velo di fumo volò via come un foglio di carta, poi scorse il vetro. Lì le gocce, come rugiada, impedivano di vedere l’interno; ma una di queste si mosse, dall’alto, prima lentamente, poi più celermente: serpeggiando; poi altre la seguirono.
La vide per la prima volta. Gli occhi erano azzurri, ma già lo sapeva; il volto era timido, reso più fanciullesco dal cappellino con le piume. Stringeva forte una borsetta tonda, con un piccolo manico. Tra le dita, un fazzoletto: ricamato; e poi quel respirare del seno, sempre più profondo, sempre più vicino. Pietro credeva di sapere più di quanto non conoscesse nella realtà: quel volto, quelle mani non li aveva mai visti, ma era come se li conoscesse da sempre: erano vicini, troppo; forse anche consenzienti.
Un altro sussulto, questa volta all’indietro: verso la prima galleria. Pietro cadde giù, poggiando prima un piede sulla ghiaia, poi le spalle al muro che sosteneva la montagna. La porta si aprì, del tutto; spalancandosi, picchiò due volte contro il vagone. Poi il treno andò a ritroso, verso Piteccio. Lo vide inghiottirsi da solo, dentro la montagna; per ultima sparì la locomotiva, più docile delle altre volte, ed anche meno minacciosa. Nel silenzio corse verso il treno, inciampò, ricadde ancora. Le mani sulle traversine gli diedero la spinta, entrò in galleria, corse di nuovo, scivolò, ma rimase in piedi. Non aveva mai camminato in mezzo ai binari e quasi non si accorse che il cunicolo era alla sua destra. Si fermò, capì che aveva ancora un chilometro di galleria, poi forse Piteccio. Tornò indietro, di corsa; prima del suo tempo e della paura. Il cunicolo, poi l’imboccatura e la casupola. Tirò fuori la sua bandiera rossa ed anche la tromba da casellante, che si mise a lucidare con cura. Poi aspettò, tra mura e cielo; con quel fumo che adesso, piatto, gli arrivava alle gambe. Guardava la volta del tunnel, ora più alta di prima; ed aspettava. Sentiva solo il suo respiro.
Una lama di luce illuminò la galleria. La locomotiva uscì di forza, come sputata dalla montagna; e poi i vagoni, tanti, troppi: avvolti da uno strato di fumo che procedeva più lento di loro. Rumori, stridii e lampi di luce al posto dei finestrini. Niente altro.
Al mattino non aveva più paura. Correva nel cunicolo ed andava verso la casupola, senza voltarsi. Un treno, poi un altro: nessuno si fermava. Neanche i giorni. Fu così che il cunicolo apparve via via più stretto, freddo; con quel vento ad aspirare che lo tagliava quando entrava in galleria. “Voltati indietro”, gli dicevano; e lui lo fece. Riconobbe la lama di luce e corse, più forte; poi cadde una volta, un'altra ancora. I piedi affondavano nella ghiaia ed il suo respiro iniziava a tossire. Inciampò un’altra volta, ma fuori: appena in tempo. Vide le ruote, poi nulla, perché la testa era sotto le braccia. Il vento, finì, con un piccolo ultimo alito.
Per terra un fazzoletto ricamato.
Silvia e Pietro furono felici, per tutta la vita. In quel casello ebbero due figli: Emanuele e Vittorio. Dell'Appennino amarono la vista ed anche il senso del tempo e delle stagioni. Una sera d'estate ebbero anche modo di parlarne, come mai era capitato. Stanchi per una giornata di lavoro, si scambiarono i ricordi, pensando anche a come sarebbe stato bello crearne altri. Un giorno ricevettero il trasferimento per un casello vicino Piacenza e arrivò un'altra coppia. Silvia pulì le stanze come sempre, senza una lacrima. Chiuse il forno, poi partì con la famiglia: evitando di voltarsi. Capì la logica della vita, quella che quei monti le avevano insegnato: tornano le stagioni e te ne accorgi dagli odori o dal rumore del vento; ma un giorno tutto cambia, come è giusto che sia.
A Piacenza nacque Livio, il terzo figlio.Luciano Marchi, note biografiche
Luciano Marchi è fotografo da sempre, almeno da quando si è accorto che lo strumento dell’immagine poteva contenere il frutto della propria fantasia. Autore, professionista, è iscritto all’Ordine dei Giornalisti per i meriti della propria arte. Sul paesaggio ha sviluppato un suo pensiero fotografico, poi fatto migrare nel racconto di una prossimità plausibile. Lì Luciano delega “all’Io narrante” emozioni, suggestioni, significati.
Sempre disposto al confronto, Marchi ha incontrato diversi fotografi, allargando il proprio sguardo su molta della fotografia italiana che lavora. Per queste ragioni è stato chiamato a esporre in numerose collettive, presso il PhotoShow di Milano e Roma e durante Fotografica 2011, eventi durante i quali ha svolto anche il ruolo di relatore, presente anche allo Spazio Tadini di Milano con una collettiva a tema “Il Viaggio”, accomunate a quelle di Gianni Berengo Gardin. Ha all’attivo pubblicazioni di rilievo, accompagnate dalle parole di esponenti importanti della cultura e del giornalismo. Le sue immagini compaiono regolarmente sul quotidiano “Il Resto del Carlino”, per il quale opera da svariati anni.
Nel 2016 Sprea Editore l’ha scelto quale testimonial nella propria monografia dedicata al paesaggio. A giugno 2019 le sue immagini sono esposte a Milano in occasione del Photofestival 14th.
A fine 2019 l’ultimo lavoro con il volume fotografico “l’Appennino che non vedi”. Da allora si è concentrato sul suo lavoro, proponendo anche, a livello formativo, continui incontri in Accademia con i grandi della fotografia, tra cui Giovanni Gastel (estate 2020).
Nel 2021 ha pubblicato il suo 30° calendario, dedicato come i precedenti al territorio appenninico. A dicembre dello stesso anno esce il suo ultimo volume: “I colori del bianco e nero”.
“Passione” è un termine che ricorre spesso nella vita di Luciano Marchi. Ad essa deve sicuramente gli inizi fotografici, databili 1982. Erano i tempi dell’officina, della DEMM, delle festività dedicate all’immagini e alla montagna: altro suo amore importante, al quale dedica 25 anni di CAI.
Nel 1996 il grande passo: il negozio di fotografia che nel 1998 diventa anche ottica, con la collaborazione della moglie e della figlia. Gli inizi sono importanti, fatti di difficoltà e soddisfazioni.
Quasi da subito nasce la collaborazione con il Resto del Carlino e anche lì gli esami sono positivi. L’attaccamento al territorio si esalta nel lavoro di redazione, e la passione diventa responsabilità: perché chi ama i propri luoghi, desidera anche raccontarne la storia, a fondo. L’archivio fotografico di Luciano Marchi è già un patrimonio importante, per tutta l’alta valle del Reno; ma lui non si ferma certo qui: convinto com’è che la propria passione debba vestirsi del dovere di documentare il passato a chi lo vorrà vedere.
All’alba del nuovo millennio, la fotografia cambia volto. Con una rincorsa iniziata nel ventennio precedente, il digitale invade anche il mondo dell’immagine: cambiando la stessa fruizione dei ricordi e il modo di interpretare la realtà. Per molti operatori è la crisi della fotografia, ma Luciano Marchi non cambia atteggiamento: affronta le nuove tecnologie come un patrimonio che si aggiunge, non disdegnando la pellicola e l’argento per i lavori (anche editoriali) che li avessero richiesti.
Le fotografie
Il percorso di Pietro. Ph. Marcello Mari
Automotrice ALn772 in galleria, Ferrovia Transappenninica, 2016. Ph. Luciano Marchi.