IL PASSAGGIO A LIVELLO
Un racconto
No, non poteva essere lei. Eppure sì, si trattava proprio di Flaminia. La riconosceva anche di spalle, per via del portamento austero, della postura eretta e dei capelli raccolti in un morbido chignon basso; acconciatura che utilizzava spesso e non solo durante le cerimonie, come in quel giorno.
Già, si sposava un suo amico, Giorgio; e lui, Marco, era stato invitato per primo, come a dire che non poteva mancare. Flaminia molto probabilmente era legata alla sposa, perché mai gli era capitato d’incontrarla nel giro stretto dei propri amici. Si meravigliava di non averla intravista sul piazzale della Chiesa, che però era grande, capace di disperdere più di duecento invitati. Marco provava un forte senso d’imbarazzo, misto a quella paura che nasce dall’incertezza, dal non sapere come potersi comportare.
Era una splendida Domenica di settembre, calda e assolata; accarezzata da un venticello fresco e insistente, quasi ad annunciare un autunno imminente.
Erano stati amanti, Marco e Flaminia; forse qualcosa in più. Entrambi sposati, nella loro vita non avevano mai cercato piaceri al di fuori della famiglia. Riservati e timidi, preferivano i tepori della quotidianità, quella abituale: con le ricorrenze a scandire tempi e metodi di un’esistenza costruita sulle certezze. Eppure.
No, non si era trattato di un colpo di fulmine; i due si erano già intravisti più volte, sul treno che ogni mattina li portava in città per il lavoro. Per mesi avevano incrociato gli sguardi, fino al giorno nel quale un sorriso timido si era aggiunto a un “buon giorno” fugace e frettoloso, scambiato vicendevolmente. Sul piazzale della stazione, lui e lei si separavano, continuando a seguirsi con gli occhi, nel vano tentativo unanime di non farsi scoprire in quello sguardo curioso e insistente. Parevano due liceali, di quelli che ancora non avevano compreso la forza degli istinti giovanili e di quanto accadeva loro nell’intimità.
Marco faceva fatica a seguire la cerimonia, ormai tutte le sue idee erano per Flaminia: là, in prima fila; adesso in piedi con le caviglie unite, e quella schiena inarcata dove gli occhi avrebbero voluto. La immaginava ancora bella come allora, quando i loro incontri frettolosi scuotevano un entusiasmo mai provato, una felicità fatta di niente, la consapevolezza di poter vivere quei momenti una volta di più, come se fossero gli ultimi.
Un applauso riportò Marco alla cerimonia. Giorgio e la moglie si baciavano, voltati verso gli invitati: il loro matrimonio era stato celebrato, una sterzata improvvisa ai loro destini.
In libreria, ecco sì: tutto era nato lì. Flaminia aveva riconosciuto il compagno di sguardi intento a sfogliare un grosso volume, trovando addirittura il coraggio per avvicinarsi. Il luogo, asettico e privo di peccato, concedeva una confidenza maggiore.
«Cosa legge di bello?», aveva chiesto Flaminia, con un po’ d’imbarazzo.
«Buon giorno, anche lei qui», fu la risposta di Marco, che poi aggiunse: «M’interesso di fotografia e curiosavo per il reparto». «Lei invece ha già fatto acquisti, vedo».
«Sì», ribadì la donna. «Mi hanno consigliato le Mele d’Oro, di Eudora Welty; e ho deciso di farmi un regalo».
I due continuarono a curiosare qua e là, come se niente fosse. Sembravano due conoscenti al supermercato. Nulla lasciava presagire una passione reciproca e nemmeno un velato interesse. Fu lui a rompere gli indugi.
«Mi chiamo Marco», disse. «Io Flaminia», rispose la donna.
«Viaggiamo insieme stasera, le va?», chiese l’uomo. «Sì, certamente», rispose lei.
E così fu.
In Chiesa gli invitati erano tutti radunati vicino all’altare. Il fotografo scandiva i tempi delle foto di gruppo, mentre gli sposi chiamavano a raccolta i soggetti: i testimoni, i parenti, gli amici. A breve sarebbe toccato anche a lui, con Flaminia?
Intanto la memoria di Marco continuava a vagare tra ricordi arrotondati dal tempo. Ormai, lui e Flaminia, si aspettavano ogni mattina; anche se più spesso era lei, affacciata al finestrino, a vederlo arrivare di corsa e trafelato. Mai puntuale.
Nel traballio del treno, si raccontavano di tutto, con sincerità. Nessuno dei due sarebbe voluto apparire diverso da ciò che rappresentava nella realtà. Ogni tanto, gli occhi s’incrociavano con intensità; il che voleva dire silenzio, attesa, momenti che potevano solo essere vissuti e non descritti. Finché un giorno, pollice e indice di lei strinsero leggermente un dito di lui. In un attimo si baciarono, delicatamente; riconoscendo però, dentro di loro, un impulso atavico che avrebbe chiesto di più, e a lungo.
Marco si ricordò di averne parlato con Giorgio, il quale non vi trovò nulla di male. «Anzi», gli suggerì, «Devi vivere questa storia fino in fondo».
Venne il suo turno per la fotografia di gruppo, così Marco salì i gradini dell’abside. Di fianco a lui, ecco sopraggiungere Flaminia, che lo squadrò quasi a prendergli le misure. Non scambiarono neanche una parola. Il fotografo li fece avvicinare, per serrare il gruppo; poi un colpo di flash gelò lo sguardo di tutti.
Marco, a fatica, tentò di consumare il suo rapporto con Flaminia, come aveva suggerito Giorgio; ma fu un insuccesso. Si trovarono entrambi seduti al bordo di un letto, senza sapere cosa dire. Rincasarono taciturni, anche durante il tempo sul treno.
Qualcosa però era cambiato: lui era diventato un lettore accanito, lei iniziò a interessarsi di fotografia. Forse se ne accorsero anche i rispettivi coniugi, che, incuriositi, iniziarono a porre domande generiche, prive di sospetto.
Fu Marco a rompere gli indugi, in una serata fredda e piovosa. Forse si espresse male, esagerando nei dettagli. La moglie, indispettita, lo cacciò di casa.
Ricordava tutto, Marco: la pioggia insistente, il vento freddo, la luce giallastra della cabina telefonica; e anche la voce di Flaminia, diversa, distratta, quasi parlasse a un collega di lavoro.
«Ho bisogno di vederti» pronunciò lui.
Probabilmente lei inventò una scusa, o forse vuotò il sacco con sincerità; sta di fatto che, senza neanche coprirsi, corse alla macchina per dirigersi all’appuntamento presso la stazione ferroviaria. Lui era già lì ad attenderla.
Il passaggio a livello stava chiudendo le sbarre e ormai poggiavano al terreno. Flaminia frenò con forza. Subito dopo il treno passò veloce, abbagliando con i finestrini e la luce che passava tra le ruote. Il motore non andava più in moto, solo il tergicristallo funzionava, alternando visioni di tempi andati e di altri a venire, ma solo desiderati.
Marco e Flaminia non si videro quella sera, anzi: non s’incontrarono mai più. Lui, ormai solo, aveva anche cambiato lavoro, con Giorgio che tentava di consolarlo di tanto in tanto. A Flaminia, forse, era capitata la stessa sorte.
«Come stai?», chiese lei fuori dalla Chiesa. «E la famiglia?» «Tutto bene, e tu?».
«Benissimo», rispose Flaminia.
Forse le sbarre del loro passaggio a livello si erano aperte del tutto, con un motore che finalmente andava in moto. Il tergicristallo, come un metronomo, avrebbe iniziato nuovamente a scandire un tempo privato; ma era giusto iniziare da dove avevano finito.
Senza fretta.
Racconto pubblicato nel libro “I Colori del Bianco e Nero”, di L. Marchi.
Le fotografie
Fermata di Castagno, ferrovia Transappenninica, versante toscano.
Il treno sul ponte. Ph. Gianni Berengo Gardin, 2008.