Skip to main content

TASTI BIANCHI E NERI

Un racconto

Si era svegliato di soprassalto. Sdraiato, e poggiato sui gomiti, cercava di riconoscere la stanza e il proprio tempo. Non era stato lo spavento a destarlo, ma la stranezza del sogno: troppo concreto per essere accantonato appena dopo il risveglio.
Coricandosi su un fianco, provò a riprendere sonno; ma subito gli venne in mente quella tastiera di pianoforte sognata in precedenza. Era lunghissima, enorme; e lui vi camminava sopra, con i tasti che parevano sprofondare sotto i suoi piedi. Non ne usciva alcun suono, però; e allora i tasti si disponevano in salita, con una curva che pareva non finire mai. A un certo punto, sempre nel sogno, quasi saliva a scaletta i tasti neri, avendo cura di non cadere all’indietro.

Già, bianco o nero? A questo pensava a occhi chiusi. E la tastiera diventava meno importante, almeno rispetto alla scelta: l’uno o l’altro? Questo o quello? Destra o sinistra? Così, quasi addormentato, iniziò a riflettere sulle alternative, che spesso nella vita si assottigliano, fino a diventare opposte: in significato e contenuto. Se ne fece una ragione.

La tastiera era quella di prima: lunga, infinita, ancora diritta. Lui non si era ancora mosso, ma questa volta si sentiva come di fronte a un lungo viaggio, pronto a tutto: alla fatica, ma anche alla sorpresa. Veniva attirato dall’orizzonte, perché laggiù, dove i tasti parevano finire, un taglio di luce arcuava il paesaggio. Era quasi convinto che forse non sarebbe arrivato mai in fondo, ma che un termine avrebbe chiuso il percorso: a caso, inaspettatamente, come nella vita.
Iniziò a camminare e la tastiera subito divenne salita, come nel sonno precedente. Lui non si perse d’animo e spiccò un salto di almeno due tasti. Ecco la sorpresa: un suono maestoso e completo pervase il suo percepire, peraltro allungato e persistente; quasi un eco che si fosse distribuito in una vallata. Non solo, si erano abbassati anche due tasti più avanti: autonomamente, senza la necessità di un suo balzo.
Tre tasti formavano un accordo: do, mi, sol; maggiore per giunta, e quindi l’armonia diventava aperta, felice, quasi cantabile, sicuramente suggestiva.
Tentò ancora un salto, più lungo questa volta; e ancora altri due tasti si abbassavano da soli, quasi che una mano invisibile li stesse premendo per lui. La terzina comprendeva fa, la, do: un Fa maggiore, ancora un accordo impetuoso, più alto di quello di prima, ma della stessa musicalità, serena, felice, indisturbata.
I tasti neri iniziarono a incuriosirlo. Prima li aveva usati come i pioli di una scaletta, adesso erano maggiormente accessibili, solo leggermente spostati a sinistra. Saltò sopra al primo e altri due tasti suonarono per lui. Era però cambiata l’atmosfera: un timbro più riflessivo aveva preso il posto del precedente, sicuramente maggiormente libero. Anche la visuale andava mutando, compreso quell’arco di luce che prima definiva l’orizzonte. Il buio prese il sopravvento, forse una penombra scura, dentro la quale era difficile orientarsi. Provava paura, nel sogno, perché c’era un senso di morte dentro quanto respirava, o almeno di fine imminente. Saltò ancora, ma le cose non cambiarono: la sonorità risultava la medesima, questa volta anche stridente, fastidiosa, priva di eco.

Qualcuno lo chiamava e si sentì sobbalzare. Non c’era nessuno, le voci provenivano dall’esterno. Lui aprì gli occhi, spaventato e sorpreso. Fece fatica a uscire dal sogno, e soprattutto a convincersi che non fosse reale. Per di più gli risultava difficile riconoscere i colori, ovunque volgesse lo sguardo.
«E’ tutto bianco o nero …», pronunciò a voce alta.
«Perché solo bianco o nero?», finì per domandarsi.

Volle reagire e con un balzo fu giù dal letto. Con una convinzione forte si diresse verso il pianoforte. No, non voleva suonare: ormai aveva smesso da anni; desiderava unicamente comprendere, farsene una ragione. Tasti bianchi o neri: questo era il punto; che poi diventavano le alternative strette di una scelta.
Non si sedette, ma continuò a premere: ora questo, ora quello; cercando almeno un ordine. Suoni diversi gli procuravano visioni differenti, ma capì come pur nel colore in fondo due erano le tonalità a sostegno: il bianco e il nero, forse il meglio o il peggio; no, più probabilmente coppie indefinite di sensazioni, stati d’animo.

Le sue fotografie scorrevano vorticosamente al suo sguardo. Si sedette in poltrona e chiuse gli occhi. L’esistenza parve tremare, ma lui non si spaventò. Fogli arcuati cadevano dal soffitto e lui li riconosceva, ricordandoli uno a uno; ma il colore svaniva in un grigio modulato.
«Bianco e nero: la scelta, ma pure la memoria», si suggerì con decisione.
«Ho sognato in bianco e nero, ho ricordato con gli stessi colori, vedrò di guardare così».
Ne era convinto.

Le fotografie

Il racconto parla di una tastiera, quella di un pianoforte; era ovvio orientarsi verso interpreti di quello strumento. Ne abbiamo scelti due, peraltro di epoche differenti: Vladimir Horowitz e Kate Bush, ritratti rispettivamente da Edward Steichen e Guido Harari.

La collaborazione di Guido con Kate Bush si è sviluppata tra il 1982 e il 1993, quando fu da lei chiamato a realizzare le fotografie promozionali per alcuni capisaldi della sua discografia come "Hounds of love", "The sensual world" e "The red shoes", compreso un reportage rimasto quasi totalmente inedito sul set del film "The Line, the cross & the curve".
The Kate Inside, il libro dal quale è tratta l’immagine che vediamo, conta più di 300 fotografie, comprese tutte le immagini più conosciute tra quelle scattate da Guido a Kate oltre ad una messe di fotografie per lo più inedite e altri materiali attinti all'archivio personale di Guido e mostrati nel volume per la prima volta.

Il fotografo, Edward Steichen

Fotograficamente, Edward Steichen si è distinto in ruoli differenti. Durante la giovinezza è stato un fotografo di talento. Ha poi continuato ad alimentare la sua fama in ambito commerciale negli anni '20 e '30, restituendo ritratti eleganti di artisti e celebrità. Fu anche un importante curatore, organizzando tra l’altro la mostra "Family of Man" nel 1955.

Nato in Lussemburgo, il 27 marzo 1879, Steichen arriva negli Stati Uniti quando aveva due anni. Lui e i suoi genitori si stabiliscono nella piccola città di Hancock, dove il padre prestava servizio nelle miniere di rame. Quando il genitore smise di lavorare per le cattive condizioni di salute, la famiglia si trasferì a Milwaukee, nel Wisconsin, dove la madre sosteneva la famiglia lavorando come artigiana. A partire dall'età di 15 anni, Steichen ha svolto un apprendistato di quattro anni in un'azienda litografica. Durante gli anni '90 dell'Ottocento studiò pittura e fotografia, il che lo avvicinò alla corrente pittorialista. Le fotografie di Steichen furono esposte per la prima volta al Second Philadelphia Photographic Salon nel 1899, e da quel momento divenne presto una star.

Nel 1900, prima di compiere il primo di tanti lunghi viaggi in Europa, Steichen incontrò Alfred Stieglitz, che acquistò tre fotografie del giovane autore. Fu l'inizio di un’amicizia intima e reciprocamente gratificante, che sarebbe durata fino al 1917. Nel 1902 Stieglitz invitò Steichen a unirsi a lui e ad altri fotografi, nella fondazione della Photo-Secession, un'organizzazione dedicata alla promozione la fotografia come arte.
Nel 1905 Stieglitz aprì la sua prima galleria, originariamente chiamata Little Galleries of the Photo-Secession, ma meglio conosciuta come 291, dal nome del suo indirizzo al 291 della Fifth Avenue. Steichen divenne il collegamento francese della galleria. Usando i contatti che aveva stabilito in Europa, divenne il principale responsabile dell'organizzazione delle mostre di arte modernista francese che si tenevano al 291. Henri Matisse (1908) e Paul Cézanne (1910) esposero lì proprio per merito di Steichen.

La rottura tra Stieglitz e Steichen arrivò sull'orlo dell'entrata degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale, forse perché Steichen era un francofilo e Stieglitz apertamente legato alla Germania; o probabilmente perché Steichen era arrivato a credere che la Photo-Secession di Stieglitz e i suoi strumenti – la galleria 291 e la rivista Camera Work - fossero diventati i veicoli per un culto della personalità.
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra nel 1917, Steichen si offrì volontario e fu nominato capo della fotografia aerea per l'esercito americano in Francia. La sua esperienza con le rigorose esigenze tecniche di questo lavoro ha cambiato la sua visione circa lo strumento fotografico. Dopo la guerra abbandonerà lo stile pittorialista, orientandosi verso una maggiore oggettività di descrizione e racconto.
Sempre in antitesi con gli atteggiamenti foto-secessionisti, Steichen si dedicò alla fotografia commerciale, fondando uno studio di successo, quando si trasferì a New York City nel 1923. Ha dedicato i successivi 15 anni della sua vita principalmente alla fotografia di moda e ritrattistica per le pubblicazioni Condé Nast, come Vogue e Vanity Fair. Chiuse lo studio il 1 ° gennaio 1938 e trascorse gran parte dei quattro anni successivi nella sua casa nel Connecticut, coltivando piante.

Un mese dopo l'attacco a Pearl Harbor, nel dicembre 1941, la Marina degli Stati Uniti fece di Steichen un tenente comandante incaricato di dirigere una registrazione fotografica della guerra navale nel Pacifico. Durante la seconda guerra mondiale, Steichen iniziò a collaborare con il Museum of Modern Art di New York City e nel 1947 fu nominato direttore del dipartimento di fotografia, posizione che manterrà fino al suo pensionamento 15 anni dopo. "The Family of Man", una mostra che ha curato nel 1955, è stata senza dubbio l’operazione più importante della sua lunga carriera. La mostra era basata sul concetto di solidarietà umana e Steichen ha selezionato 503 immagini da innumerevoli stampe arrivate da tutto il mondo. Si dice che la mostra sia stata vista da quasi nove milioni di persone in 37 paesi. Steichen ha continuato a curare molte mostre minori al museo, dimostrando così come volesse sostenere il mezzo fotografico per tutti i restanti anni della sua carriera. La sua autobiografia, A Life in Photography, è stata pubblicata nel 1963.
Edward Steichen muore il 25 marzo 1973, in Connecticut.

Guido Harari, note

Guido Harari è fotografo, autore di libri, curatore di mostre, gallerista, editore.
Dagli anni Settanta il suo nome è associato soprattutto alla musica e alle copertine di dischi per artisti come Fabrizio De André, Bob Dylan, B.B. King, Lou Reed, Simple Minds, Frank Zappa, Pino Daniele, Claudio Baglioni, Mia Martini, Vasco Rossi, Gianna Nannini, PFM, ma ha spaziato dal ritratto al reportage, alla moda e alla pubblicità.
È stato tra i curatori della mostra multimediale dedicata a Fabrizio De André da Palazzo Ducale a Genova, della mostra "Pino Daniele Alive" a Napoli, della mostra "Art Kane Visionary" a Modena e Napoli.
Ha esposto le sue foto al Rockheim in Norvegia, al festival di Ravello, alla Galleria nazionale dell’Umbria a Perugia, al Museo nazionale Rossini a Pesaro, alla Leica Galerie di Milano e all’Ambasciata italiana a Washington DC.
Tra i suoi libri illustrati The Beat Goes On (su e con Fernanda Pivano, 2004), Vasco! (2006), Fabrizio De André. Una goccia di splendore (2007), Fabrizio De André & PFM. Evaporati in una nuvola rock (con Franz Di Cioccio, 2008), Mia Martini. L’ultima occasione per vivere (con Menico Caroli, 2009), Gaber. L'illogica utopia (2010), Tom Waits (2013), Vinicio Capossela (2013), Pier Paolo Pasolini. Bestemmia (2015), The Kate Inside con le sue fotografie di Kate Bush (2016), Wall Of Sound (2018), Fabrizio De André. Sguardi randagi (2018).
Nel 2011 ha aperto ad Alba, dove risiede da diversi anni, una galleria fotografica (Wall Of Sound Gallery) e una casa editrice di cataloghi e volumi in tiratura limitata (Wall Of Sound Editions), entrambe interamente dedicate all’immaginario della musica.

(Fonte: sito IBS)

Le fotografie

Vladimir Horowitz fotografato da Edward Steichen per Vanity Fair, 1930.
Kate Bush, da The Kate Inside. Ph. Guido Harari

Like what you see?

Hit the buttons below to follow us, you won't regret it...