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LA CAMERA CHIARA

di Roland Barthes

La Camera Chiara – Nota sulla Fotografia (Piccola Biblioteca Einaudi) è un saggio che Roland Barthes scrisse nel 1979, a pochi mesi dalla sua morte; forse il suo testo più penetrante.

Il lavoro si divide in due parti: la prima affronta la difficile questione di cosa sia la Fotografia, la seconda indugia su una questione personale ed emotiva.

Ciò che la fotografia riproduce all’infinito ha avuto luogo solo una volta.

La fotografia ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente.

Una foto può essere l’oggetto di tre pratiche (o tre emozioni, o tre intenzioni): fare, subire, guardare.

Possiamo distinguere: Operator: è il fotografo. Spectator: siamo tutti noi che osserviamo la foto Spectrum: è colui o ciò che è fotografato

La fotografia ha permesso a tutti di vedere sé stessi senza dover usare uno specchio.

In precedenza, infatti, il ritratto era un bene limitato a pochi e destinato a ostentare una data condizione economica e sociale.

E in ogni caso il ritratto dipinto, per quanto somigliante sia, non è una fotografia.

La fotografia è l’avvento di me stesso come altro.

La fotografia trasforma infatti il soggetto in oggetto.

Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte.

In qualità di spectator, esistono due modi di ricevere l’immagine fotografica: lo studium: cioè il contenuto della foto, quello che è rappresentato, gli elementi che la compongono.

Lo studium appartiene all’ordine del Mi piace / Non mi piace.

Posso analizzare l’immagine e le sue funzioni (ad esempio informare, rappresentare, sorprendere, far significare, allettare).

Ma lo studium non è mai il mio godimento o il mio dolore nel guardare una foto.

Il punctum: è quello che mi “punge”, quello che mi coinvolge davvero della foto che sto guardando.

È il particolare che mi colpisce, la ferita che la fotografia suscita in me.

La fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge o stigmatizza, ma quando induce a pensare.

La differenza tra fotografia e pittura, sta nel “referente”. Il referente fotografico è la cosa necessariamente reale che è stata posta dinanzi all’obiettivo, senza di cui non vi sarebbe fotografia alcuna.

Ciò che io vedo in una foto, si è trovato là in un determinato spazio-tempo, nessuno lo può negare.

Nessun ritratto dipinto, invece, può dimostrare che il suo referente fosse realmente esistito.

La fotografia attesta che ciò che vedo nella foto, è effettivamente stato, è esistito. Questa è una certezza. Ciò che vedo è il reale allo stato passato. Un reale che non si può più toccare.

La fotografia non dice ciò che non è più, ma soltanto e sicuramente ciò che è stato.

L’essenza della fotografia è di ratificare ciò che essa ritrae.

Ogni fotografia è un certificato di presenza.

La fotografia è testimonianza sicura, ma effimera. La foto stampata è deperibile, è destinata nel tempo a scomparire.

Perché il discorso è interrogazione, dialogo, ma è anche confessione; al «linguaggio espressivo» e al «linguaggio critico» se ne aggiunge un altro, vera e propria premonizione: la fotografia come «studium» e come «punctum» (i due termini usati da Barthes in un distinguo illuminante), nel contesto storico ed effimero in cui viviamo.

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