MAMMA, LA PRIMA VOLTA
Il 10 maggio 1908 viene celebrata per la prima volta la Festa della Mamma.
Stiamo anticipando i tempi, ma forse è giusto così. Domenica prossima in molti dovranno ricordarsi di dedicare alla madre un pensiero, del resto è stata lei a dedicarci la vita, in un gesto d’amore.
La madre, la mamma, fa eco a tutta l’esistenza dell’umanità: lei conosce il pianto, la gioia, il perdono, la vita. E lo sanno bene quanti si trovino in cattive acque. «Mamma mia» esclamano, desiderando quell’abbraccio universale che li ha sempre protetti. Ricordare la donna madre, quindi, non è solo l’occasione per una festività, ma un modo per nutrire rispetto per tutta l’umanità: quella alla quale apparteniamo.
Senza essere retorici, la Festa della Mamma sancisce il ruolo cruciale delle madri nella società. E’ importante riflettere sulle sfide che le madri affrontano quotidianamente. Loro svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo emotivo, educativo e sociale dei loro figli, contribuendo in modo significativo al benessere delle famiglie e delle comunità.
Circa le fotografie, ci stiamo ripetendo, con due grandi autori: Dorothea Lange e Robert Capa. Lì possiamo riconoscere tutto il simbolismo della realtà di madre. Si tratta d’immagini datate e viste più volte, ma soprattutto quella del fotografo di Budapest ci mostra un gesto che oggi non riconosciamo più: quella del bambino che si attacca alla gonna della mamma. Nei nostri giorni, al massimo incontriamo un mano nella mano e nulla più. E’ cambiato qualcosa anche lì, ma il ruolo materno rimane, anche nelle auto che, incolonnate, accompagnano i bambini a scuola. A riprenderli, forse, ci saranno i nonni; ma quei fanciulli chiameranno “mamma” in più di un’occasione durante la loro esistenza. La seconda domenica di maggio sarà lì anche per loro.
Il ricordo della madre, un racconto
La luce era bluastra. Della stanza si riusciva a vedere solo ciò che era chiaro: i letti, l'acciaio delle sedie, il pavimento in linoleum. Anche la bottiglia d'acqua, sul comodino, appariva scura e opaca, riconoscibile solo dall'etichetta: dello stesso colore delle medicine al suo fianco, impilate con cura.
Mia madre dormiva come una bambina, con un respiro sottile, silenzioso. I tratti del suo viso erano addolciti dalla luce e da una tristezza antica: quella di chi abbia vissuto un'esistenza all'ascolto, senza tenere conto dei propri desideri.
Era la prima volta che passavo una notte con lei in ospedale, ma lo avevo promesso: “Quando ti toglierai l'ernia ombelicale, starò al tuo fianco, tutta la notte”. La risposta era stata: “Rimani a casa, non ti preoccupare”, però ci avevo sentito poca convinzione, o almeno speravo fosse così; questo solo per sentirmi utile.
Lì di fianco a quel letto mi sentivo un po' a disagio: non per cattiva volontà, e nemmeno perché volessi essere altrove; erano i pensieri a restituirmi quello stato d'animo, le idee. La mente vagava altrove, verso immagini lontane, che quasi mi sentivo in colpa. Mia madre compariva spesso in quel sentire: ma entrava e usciva, come dalle quinte di un teatro muto. La vedevo in fondo a un marciapiede, mentre il mio treno mi portava altrove; oppure di spalle, intenta a cucinare; o ancora al mio fianco in quella festa di paese, quando mi accorsi che le caviglie delle ragazze erano belle, soprattutto se la gonna accompagnava lo sguardo più su, fino ai fianchi.
Provai a distrarmi, concentrandomi su quella goccia che stentava a cadere; la stessa che poi si riproponeva: prima accennandosi, poi gonfiandosi un poco, per staccarsi alla fine con decisione. Era quella della flebo, che io dovevo tener d'occhio: almeno fino a quando la bottiglia appesa al trespolo non fosse finita. Altre due erano pronte sul comodino, per completare la durata della notte.
“Quando si sveglia, avrà sete. Lei non le dia nulla, mi raccomando”, aveva detto l'infermiera. “Non si preoccupi”, risposi.
La vidi uscire, con passo deciso; non prima di aver buttato l'occhio sull'altro letto della stanza. “Perché gli altri possono ed io no?”, mi domandai, “Perché sono così diverso?”. Mi riferivo ai miei momenti d’indecisione, a quei cerchi che non si chiudono mai, a quella debolezza atavica, a quel debito continuo con l'esistenza che contraevo da sempre. Tutto ciò creava un distacco col mondo altrui; e mi restituiva sofferenza.
Guardai ancora mia madre: dormiva ancora. Le braccia erano distese lungo i fianchi, anche se leggermente flesse. Le dita, piegate un poco, parevano afferrare qualcosa. Le aveva viste tante volte: contrarsi sul grembiule e unirsi in un unico gesto, dove le mani si sarebbero sfregate a lungo tra loro. Era la movenza di una massaia consumata, che però veniva utilizzata quasi come un intercalare: per riflettere o prendere tempo; di fronte ad accadimenti imprevisti o a decisioni difficili da prendere.
Spesso quei gesti si accompagnavano a uno sguardo diretto, ma debole. Gli occhi ti fissavano quasi a chiederti qualcosa, quello che non avresti potuto restituire. In quelle circostanze, già sapevi che sarebbero state lacrime, almeno di lì a poco. E ti sentivi in colpa, consapevole di essere già altrove: dove la vita ti avrebbe chiamato, al di là di quella storia che non avresti potuto scrivere.
Questione di sentimenti, è vero; ma anche incapacità, mia e di mia madre, nel gestire l'oggi, il presente. Tante volte tutto era rimasto sospeso, intoccabile: un regno astratto dove solo la tristezza antica avrebbe potuto abitare, la felicità della malinconia.
“A cosa stai pensando?”, chiese mia madre.
“A nulla”, risposi, “riposavo”. “Non mi sono neanche accorto che ti stavi svegliando”.
“Sei stanco?”
“No, non ti preoccupare. Tu, piuttosto, come stai?”.
“Bene. Ho solo un gran male alle ferita. E tanta sete”.
“Purtroppo non posso darti da bere, me l'ha detto l'infermiera”.
“Passerà, vedrai. Ma tu a cosa pensavi?”
“Alle estati, alle bimbe che crescono, alla finestra sul balcone, alle luci di Ponte della Venturina”.
“Alle volte capita anche a me di pensarci ...”
.
“Forse facciamo male ...”, dissi …
“A far cosa?”, chiese lei ...
“A ricordare, conservare; tentare di tenere saldo ciò che si disfa, per forza”, risposi.
“Non ti capisco ...”
“Più passa il tempo e maggiormente tutto pesa. Ricordi? C'era Tell che abbaiava alla sera, e Duilio che lo portava in casa. Le gente in piazza si sentiva sin da casa e per San Felice i falò li facevamo tutti, per riconoscerci a distanza”.
“A cosa vai a pensare …
”.
“Al tempo, all'istante che conta, a ciò che è realmente importante ...”. “Tu, mamma, quante volte sei stata felice?”
“Non posso contare le volte, lo sono stata ...
”
“Io credo invece che spesso ci è sfuggito il momento e che il nostro sentire nasce soprattutto dall'incapacità di vivere la realtà”.
“Sei per caso giù? C'è qualcosa che non va?”
“Nulla, non ti preoccupare. Non sforzarti, comunque; prova ancora a dormire”.
Mia madre si era assopita. Le infermiere, passando per il corridoio, lanciavano un'ombra netta dentro la stanza, che andava a stagliarsi sul soffitto: nel cono di luce giallastro disegnato dalla porta. Quasi le aspettavo, per esaltare la sorpresa: il carrello che cigola; poi, adesso; no, ancora un po'; sì, appare; eccola. Un gioco infantile, fatto di niente; che s’interruppe quando l'ombra rimase ferma, in mezzo al soffitto: lunga, enorme, quasi spaventosa.
Ancora immagini, in una mente che non voleva assopirsi. Ecco le notti fatte di grilli, di fari che tagliavano il bosco.
Storie impossibili e costruite sul nulla, con pochi istanti da ricordare; per una realtà sovrastata dalle forze del tempo: quello che cambia col vento, le stagioni, gli odori.
In quel momento riuscivo anche a vedere i gesti, consumati anch'essi da un'esistenza ripetuta: le posate pulite con la cenere, la frina affilata con la pietra, le carte da gioco aperte e richiuse con maestria, le sigarette “fabbricate” in una mano, il cemento che dalla cazzuola colma lo spazio tra sasso e sasso.
Perché pensare? Perché pensarci? Forse per essere parte di quella ruota? Per rievocarla? O solo per sentirsi tristi? E poi: quel è il momento importante della vita? Quello che muove tutto? Se c'era stato, non l'avevo afferrato.
L'infermiera aveva acceso la luce. Adesso tutto era accecante, giallognola.
“Come sta signora?”, aveva chiesto a mia madre.
“Insomma, potrei stare meglio”, era stata la risposta.
“Andiamo! Ancora qualche giorno, poi torniamo a casa”.
“Non vedo l'ora”.
Dopo un po' ci siamo trovati ancora nel blu. La flebo gocciolava con maggiore insistenza. Mia madre mi guardava fisso, con uno sguardo lucido.
“Mi sembra tu stia meglio”, avevo chiesto.
“Un pochino”.
“Il più è fatto”, mi sentii di dire.
“Tu credi mi abbiano tolto tutto l'ombelico?”, mi chiese.
“Non lo so, possiamo chiedere. Ma cosa importa?”, domandai.
Ci pensò, poi disse: “E' l'ultima cosa che mi era rimasta di mia mamma”.
Dorothea Lange, note di vita
Forse la fotografia più famosa della Lange è quella indicata come "Migrant Mother", probabilmente la più evocativa della Grande Depressione. Essa mostra Florence Thompson che abbraccia i suoi figli mentre guarda in lontananza. All’epoca la Thompson aveva solo trent’anni, ma all’interno della sua ansia si può scorgere anche una donna molto bella. E qui sta il merito della Lange: era in grado di ritrarre persone colpite duramente dalla vita, rendendole comunque estremamente interessanti.
Lange ha condotto una vita difficile. All'età di sette anni, ha contratto la poliomielite, che la costringeva a camminare con difficoltà. Ma lei era una donna forte, fisicamente ed emotivamente; ambiziosa in un momento nel quale il mondo femminile non poteva permetterselo.
Prima che le fosse offerto il lavoro presso la Farm Security Administration, Lange gestiva uno studio fotografico di alto livello a San Francisco. Lei era un’ottima fotografa di ritratto, perché possedeva un potere straordinario nel legare con ogni sorta di persone, tirandone fuori il meglio.
La Lange era anche molto discreta; preservando a fondo la sua vita privata.
Nel 1947 collaborò alla nascita dell'agenzia Magnum e nel 1952 fu tra i fondatori della rivista Aperture.
A causa delle cattive condizioni di salute in cui versò negli ultimi anni di vita, la sua attività subì una brusca battuta d'arresto. Morì a 70 anni per le conseguenze della poliomielite.
E' una vita di applicazione e impegno, quella di Dorothea Lange. Studia fotografia, poi apre uno studio; torna all'Università (Columbia) e ne apre un altro. Grazie a una borsa di studio, arriva alla Farm Security Administration, dove si manifesta la sua sintesi costruttiva. Vicina alla realtà umana, Dorothea offre una visione al femminile senza equivoci. Sentiamo cosa dice dei suoi personaggi: «Coraggio, coraggio vero. L'ho incontrato molte volte, in luoghi inaspettati. E ho imparato a riconoscerlo». Anche a lei non mancava, ecco tutto.
“The Migrant Mother” di Dorothea Lange.
La fotografa scattò quest’immagine nel 1936, mentre lavorava al programma Farm Security Administration (FSA), messo in atto dal Governo degli Stati Uniti per studiare le conseguenze della Grande Depressione sulla vita dei lavoratori.
La fotografa si trovava a Nipomo, in California; là incontra Florence Owens Thompson e i suoi figli, in un campo pieno di lavoratori, i cui mezzi di sussistenza erano stati devastati dal fallimento dei raccolti di piselli.
Ecco le parole della Lange: «Mi sono avvicinata alla madre affamata e disperata, come attratta da una calamita. Non ricordo come le ho spiegato la mia presenza o quella della mia macchina fotografica, ma rammento che non mi ha fatto domande. Ne ho ricavato cinque esposizioni, lavorando sempre più da vicino e dalla stessa direzione. Ha poi aggiunto: Non c'era lavoro, ma non potevano andare via, perché avevano appena venduto le gomme dell'auto per comprare del cibo».
In un’intervista del 1970, Florence Thompson smentì le parole di Dorothea Lange, dicendo che non aveva venduto le gomme dell’auto. Secondo la Migrant Mother (ormai la chiamavano così), forse la fotografa si era confusa o stava tentando di rendere più attrattiva la sua storia, anche perché lei e la Lange non si erano parlate.
Ipotesi a parte, l’immagine restituisce dignità, forza e coraggio.
Robert Capa, note biografiche
Nasce a Budapest, Robert Capa, il 22 Ottobre 1913 . Inizia la sua carriera di fotoreporter in un’agenzia fotografica di Berlino. Dopo l’ascesa al potere di Hitler, si trasferisce a Parigi dove inizia la sua attività di foto-giornalista freelance. Lavora in Spagna, durante la guerra civile, in Cina, in Nord Africa. In Italia, testimonia con i suoi scatti la liberazione del Paese dal nazismo, al seguito delle truppe alleate, dallo sbarco in Sicilia, a Napoli e ad Anzio. Immortala con le sue foto lo sbarco alleata in Normandia.
Nel dopoguerra, diventa presidente dell’agenzia fotografica Magnum. Nel 1947, intraprende, insieme al grande scrittore americano John Steinbeck, un viaggio in Urss. Nel 1954, Capa parte per il Giappone e poi per il Vietnam come inviato di Life. E in Vietnam trova la morte, ucciso da una mina anti-uomo. A New York viene aperto in suo onore l’International Center for Photography e istituito il premio annuale Robert Capa.
Le fotografie
Migrant Mother, Nipomo, California. Dorothea Lange, 1936.
Arriving immigrants, Haifa, Israel, 1949-50. Ph. Robert Capa