[DAL BOMBARDIERE ALLA VESPA]
24 novembre 1939: viene collaudato il bombardiere italiano Piaggio P.108B, dal quale deriverà uno dei simboli storici del boom economico, la Vespa Piaggio. Il motore d’avviamento dei propulsori dell'aereo sarà quello usato nella Vespa.
La trasformazione aereo-Vespa non deve sorprendere. Siamo nel dopoguerra italiano, periodo nel quale l’inventiva certo non mancava, riconoscibile nei simboli che ne scaturirono: lo scooter Piaggio era uno di questi, per una nazione che iniziava a motorizzarsi, con la calma di chi ha tempo e risorse. Passava di padre in figlio, la Vespa; o da zio e nipote; comunque rappresentava uno strumento ereditabile, al di fuori delle compravendite nuovo-usato. Si estingueva di mano in mano, per rimanere incisa nei ricordi degli anni migliori.
“Ma quanto è bello andare in giro con le ali sotto ai piedi, Se hai una Vespa Special che ti toglie i problemi”.
Così canta una canzone dei LunaPop, e dice il vero. Guidare quello scooter vuol dire cavalcare un simbolo di libertà, senza per questo doversi trasformare in un centauro da “ginocchio sull’asfalto” quando si piega.
La Vespa nasce nel dopoguerra (presentata il 29 marzo 1946), da un’idea di un imprenditore ligure: Enrico Piaggio, nato il 22 febbraio 1905 a Pegli. Assieme al fratello Armando dirigeva un colosso dell’industria italiana, la stessa che si occupava di materiale rotabile e arredi navali (in Liguria), ma anche di prodotti per l’aeronautica (in Toscana). La Piaggio & C. arrivò anche a fabbricare velivoli per intero, come nel caso del P.108B.
E’ a Biella che la Vespa viene progettata, tra il ’44 e il ’45. Gli addetti ai lavori avrebbero voluto chiamarla “Paperino”, ma Enrico Piaggio, vedendola, disse: “Sembra una vespa”. E Vespa sarebbe stata: 80mila lire per un sogno a 60 chilometri orari, sul quale ospitare anche un passeggero. L’Italia inizia a muoversi su due ruote, prima che con le quattro. Non possiamo contare quante famiglie siano nate su quella “motoretta”; perché sì, anche l’amore, nel dopoguerra e con la Vespa, finiva per emanciparsi, motorizzandosi a sua volta.
Il cinema sarà un testimone importante dell’ingresso sulle strade dello Scooter Piaggio. Vacanze romane (1953), la favola di Gregory Peck e Audrey Hepburn, rappresenta un’apparizione importante dello Scooter Vespa sul grande schermo. Con questo film, quella due ruote diventa lo status-symbol per tutti (e per ogni ceto sociale). Col tempo, il sodalizio tra il Cinema e Vespa si consolida e apre le porte ad altre produzioni, tutte con la “motoretta” quale “attrice non protagonista”. E’ il caso di “Caro Diario” (1993) di Nanni Moretti, di “Alfie” (2004) di Charles Shyer, fino a “The Interpreter” (2005) di Sydney Pollack, a “Esami di guida”, a “Gli amanti devono imparare”, a “Il cielo in una stanza”, a “Nuovo Cinema Paradiso”.
Chi scrive possiede ancora una Vespa, ma è una Cinquanta Special degli anni ’70; un modello che ha incontrato un periodo storico differente. Dal boom economico si era passati agli anni di piombo; e sul mercato stavano comparendo le prime maxi moto, giapponesi in testa. La contestazione studentesca non prevedeva atteggiamenti borghesi, ma la Vespa faceva la sua bella figura, con un conducente vestito di Eskimo e tanta ideologia tra i pensieri.
Quella Vespa 50 è ancora in garage e forse non va più in moto. Avvicinandosi, però, la si riconosce dall’odore, perché l’olio della miscela aggiungeva un gusto dolciastro all’aroma della benzina. Sarebbe bello poterla riprendere e correre altrove, nei luoghi dove gli unici pensieri erano la versione di latino e la ragazza del cuore. Con le “ali sotto i piedi”.
La Vespa ci permette di conoscere due nuovi fotografi italiani, entrambi capaci di raccontare, con delicatezza, le atmosfere di quei tempi. Gli scatti mostrano gli scooter come attrici “non protagoniste”, ma forse vive lì l’elemento evocativo della narrazione: stanno aspettando fedelmente i reciproci cavalieri, per regalare loro piacevoli istanti in movimento. “Con le ali sotto i piedi”, appunto.
Il fotografo, Virgilio Carnisio
Virgilio Carnisio (Milano 1938) si avvicina al mondo fotografico nel 1961-62 frequentando l’Enalc (Ente nazionale addestramento lavoratori commercio), partecipando a un corso di fotografia pubblicitaria. Dal 1968 inizia un lavoro di documentazione sulla vecchia Milano che scompare. Da allora affina sempre più la sua ricerca, finalizzando il proprio linguaggio espressivo e rivolgendo il suo interesse al classico reportage in bianconero, anche se non esclusivamente, con una marcata impostazione di tipo sociale che, anche quando si rivolge al passato, lo fa senza rimpianti né retorica.
Autore capace di porre sullo stesso piano l’impegno professionale e la passione pura, collabora attivamente con giornali e riviste, a cui ha fornito importanti spunti iconografici. In Europa, in Asia e America il suo obiettivo coglie il reale e ce lo trasmette con rigore e semplicità. Le sue immagini sono una testimonianza antropologica che evita l’eccezionale e l’esotico, per addentrarsi in una più consapevole lettura del paesaggio e delle storie, anche umane, che vi sono dentro il mondo.
Sue fotografie fanno parte di collezioni pubbliche e private, e di lui hanno scritto alcuni tra i più importanti giornalisti, critici ed esperti del settore, pubblicando redazionali su prestigiose testate. Ha partecipato a più di cento mostre collettive e realizzato centocinquanta mostre personali, in ogni parte del mondo.
Ha pubblicato venticinque libri di successo molti dei quali dedicati alla sua città fra cui La Ringhiera (1974), Osterie a Milano (1975), Milano Periferia (1977), Il vecchio quartiere Garibaldi (1982), Sotto la neve di Milano (1985), Milano, 30 anni di appunti (1992), Milano dentro (1999), Milano: le Madonnine (2001), La grande Milano. Percorsi degli anni ’60 (2003), Situazioni e riflessioni su una città che cambia (2004). Ha inoltre pubblicato il libro di poesie Parole come immagini (2002) e la monografia Una visione discreta (2006).
Ringraziamo Roberto Mutti per averci fornito la biografia di Virgilio Carnisio.
Il fotografo, Mario Cattaneo
Mario Cattaneo (Milano 1916 – India 2004) appartiene a quella generazione di fotografi italiani che nella seconda metà del Novecento trova nei circoli fotoamatoriali un luogo di espressione e di dibattito sulla fotografia. Lo sguardo attento e la ricchezza dei riferimenti culturali e visivi fanno di Mario Cattaneo una figura significativa, anche se poco nota nel panorama della fotografia italiana. Nelle sue immagini si ritrovano accenti presenti nella fotografia di Henri Cartier Bresson e Robert Doisneau e il racconto della scena sociale assume spesso le tonalità che caratterizzano autori come Gianni Berengo Gardin, Mario De Biasi e Pietro Donzelli.
La fotografia di Mario Cattaneo è delicata, semplice e sensibile; i soggetti – le scene di vita in città, i luoghi di aggregazione sociale, i giovani, il volto umano, l’identità – ci parlano di un uomo impegnato in una riflessione sull’esistenza. Nella lente della sua macchina fotografica si specchia la società del tempo, il modo comune di essere, di svagarsi, di aderire alle ideologie e alle filosofie ma soprattutto, di essere attori nel presente.
Le fotografie
Virgilio Carnisio. Milano, 1982 - Via Santa Maria alla Porta, angolo via Brisa - Bar Cavour.
Mario Cattaneo. Milano, 1960 – 1969. Domenica all'Idroscalo due persone stese prone sul prato vicino a una Vespa 150