FOTOGRAFIA DA LEGGERE …
Consueto appuntamento del lunedì con fotografia da leggere. Oggi andremo a recuperare un libro del 2018, “Dai tuoi occhi solamente” di Francesca Diotallevi (Editore: Neri Pozza). Si tratta di un romanzo, dove emerge spirito narrativo, originalità, ricerca, profondità. Al centro del lavoro c’è Vivian Maier, un po’ dimenticata oggi, che abbiamo conosciuto tutti. È la bambinaia con la Rolleiflex, la donna dai capelli corti che si chiudeva nella sua stanza assieme alle fotografie (spesso non sviluppate) e che, a fine lavoro, usciva con la fotocamera sul ventre, per ritrarre la gente, i luoghi, i momenti. Da lì in poi è partita la fatica della Diotallevi e gli ingredienti messi in gioco sono tanti: un’infanzia infelice, una madre autoritaria e le tante ferite giovanili difficili da sanare, almeno per Vivian; ma poi la solitudine, la difficoltà a relazionarsi col mondo, una barriera dura e rigida che la stessa fotografa ha fabbricato con le sue mani. La fotografia? Diventa quasi una terapia, o forse un modo per risolversi, per aprire una finestra sul mondo e dare un senso alla vita stessa. Poi arriva il colpo di genio, quello della finzione romanzata. Nella famiglia presso la quale lavora, il marito è uno scrittore di successo. C’è quasi un tentativo di far dialogare i due: entrambi narratori, eppure così diversi. Non diciamo come sia andata a finire, ma a vincere è stata anche la fotografia, finalmente primattrice in un capolavoro letterario.
Una nota importante. La scrittrice ha studiato anche la Rolleiflex. Lo si intuisce immergendosi nella lettura e ne siamo stati felici. Noi appassionati siamo fatti così: il richiamo all’apparecchiatura è sempre forte.
Col libro di oggi, la rubrica “Fotografia da leggere” raddoppia. Due, questa volta, sono i personaggi che entrano a farne parte: Vivian Maier, bambinaia nella vita ma anche fotografa, e Francesca Diotallevi, che su di lei ha scritto un romanzo di successo. Anche la scrittrice vive un rapporto stretto con la fotografia, rinsaldato dallo studio di Vivian. Ai tempi dell’uscita del libro le rivolgemmo alcune domande. Ecco cosa ci ha risposto.
Qual è il rapporto tra Francesca Diotallevi e la fotografia?
Un rapporto felice, direi. Non sono una fotografa, ma ho sempre fotografato, con mezzi più o meno professionali, spinta dal desiderio di appropriarmi di istanti che, altrimenti, sarebbero andati perduti. E, sebbene riguardando una fotografia appena scattata, spesso io abbia provato la frustrazione di non ritrovarvi lo stesso che i miei occhi avevano colto, continuo a fotografare, perché un giorno possa guardarmi indietro e ricordare qualcosa che ho dimenticato.
Qual è il rapporto tra Francesca Diotallevi e la Rolleiflex, se c’è stato?
È un rapporto recente, privo di consuetudine e, forse per questo, ancora vivo e pieno di entusiasmo. Ho scoperto la Rolleiflex proprio grazie a Vivian Maier e ho avuto la fortuna di avere in dono quella storica di mio padre. Ma non me ne sarei fatta nulla, se non avessi avuto poi un bravo insegnante disposto a insegnarmi non solo a caricare una pellicola e a scattare, ma soprattutto a guardarvi attraverso e a cogliere l’essenziale (Gerardo Bonomo, n.d.r).
Quando e perché nasce l’idea di un romanzo su Vivian Maier?
L’idea nasce da una domanda: perché scattare così tante fotografie e non avere, poi, il desiderio e l’urgenza di riguardarle? Dopo aver visto una mostra ed essere rimasta impressionata dalla bellezza degli scatti della Maier, ma soprattutto dalla forte empatia verso i suoi soggetti, mi sono interessata alla vita di questa enigmatica artista, scoperta di recente e solo dopo la sua morte. E ho trovato sorprendente il suo portarsi appresso, per tutta la vita, scatoloni e scatoloni colmi di rullini mai sviluppati.
Qual è l’aspetto che maggiormente ha gradito circa la fotografa bambinaia?
Sicuramente il suo essere una artista nella forma più pura, quella, cioè, che non contempla l’idea di creare per un pubblico. Vivian Maier scattava fotografie libera dal giudizio altrui. Scattava non per mostrarle, né tantomeno per vivere della sua arte. Fotografava per un bisogno insopprimibile, la sua era una ricerca personale, intima, onesta. Autentica.
Perché Vivian amava la fotografia, secondo lei? Un semplice hobby? Un desiderio di esprimersi? Una sorta di terapia?
Credo che Vivian Maier utilizzasse la macchina fotografica in due modi: come scudo, ma anche come filtro nei confronti del mondo. Grazie alla sua macchina fotografica poteva essere molto vicina, ma allo stesso tempo distante, protetta, da coloro che inquadrava. Inoltre, il fatto che abbia scattato un rullino al giorno, per oltre quaranta anni della sua esistenza, e che in quasi ogni rullino fosse presente un autoritratto porta a pensare che il suo fosse un diario giornaliero. Usava la macchina fotografica come una penna per raccontare ciò che la circondava, per raccontarsi.
Verso la fine del romanzo, c’è quasi una contrapposizione tra Vivian il capofamiglia presso il quale lavorava (un’impennata narrativa!): secondo lei, la fotografa ha vissuto nella sua vita altre situazioni del genere?
Il mio è un romanzo e come tale ho potuto prendermi delle licenze poetiche. Tuttavia, nella creazione del personaggio di Frank Warren, sono partita proprio da una fotografia di Vivian Maier che ritrae, nel 1954, un uomo che sviluppa alcune fotografie della Maier stessa. L’ambientazione lascia intendere che la fotografia sia stata scattata in un interno domestico, e dunque mi sono chiesta chi potesse essere costui: ipoteticamente, un uomo per cui la Maier lavorava. Ma che tipo di rapporto poteva esserci tra di loro, se Vivian è arrivata ad affidargli qualcosa di così intimo e personale come le sue fotografie? Un rapporto molto stretto, io credo; da qui l’esigenza di approfondire, romanzando.
Ultima domanda: cosa rappresenterà, in futuro, la fotografia per Francesca Diotallevi?
Se c’è qualcosa che ho imparato, nei mesi trascorsi in compagnia di Vivian Maier e della mia Rolleiflex, è l’importanza di scattare quando ne vale la pena. Oggi siamo abituati a fare migliaia di fotografie con lo smartphone, a postarle su un social e ad avere immediato riscontro. Abbiamo dimenticato l’epoca in cui la fotografia non era digitale, i rullini si compravano dal fotografo e non potevano essere sprecati facendo foto a vanvera. Soprattutto, abbiamo dimenticato la pazienza di aspettare che una fotografia venisse sviluppata per poterla guardare. Ed è un peccato, perché spesso agiamo senza coscienza di ciò che facciamo. Ora, ogni volta che inquadro qualcosa, mi chiedo se sia davvero così importante da essere immortalato. Se lo è, scatto. Ma non sempre. In questi mesi qualcuno mi ha detto che la fotografia più bella di ogni fotografo è quella che non è stata scattata. Mi piace pensare che anche Vivian non scattasse ogni volta che qualcosa la colpiva. Forse certe cose preferiva gustarsele con gli occhi e null’altro.
La fotografia
“Dai tuoi occhi solamente”, di Francesca Diotallevi
Editore: Neri Pozza, 4 ottobre 2018