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FOTOGRAFIA DA LEGGERE, CON UN AUGURIO …

Il 10 ottobre 1930 nasce Gianni Berengo Gardin, fotografo e amico. Ci sembrava logico, e facile, dedicare la rubrica del lunedì proprio a lui, proponendo la sua biografia, peraltro redatta dalla figlia Susanna. Diciamo da subito che tra le righe non si percepisce un rapporto generazionale, ma molto di più. Oltretutto, ci chiediamo come sia stato possibile ottenere delle risposte dal fotografo, sempre avaro di parole, particolarmente su se stesso. E invece, eccola qui la biografia, ricca anche d’immagini. Ne escono dettagli poco conosciuti, soprattutto per quanto attiene il periodo romano. Per il resto, Berengo emerge come lo abbiamo sempre conosciuto: logico, lucido, attento, anche nel raccontarsi. Nella sua vita c’è ordine, persino nei momenti difficili e incerti; perché la fotografia, come pratica, per lui ha sempre rappresentato un’opportunità in più, da cogliere con entusiasmo e rispetto. Forse qui si potrebbe aprire un dibattito, per comprendere come l’immagine scattata possa rappresentare un modo per vivere, meglio peraltro. Crediamo, con una presunzione amatoriale, che il maestro ligure sia stato felice nel fotografare, avendone compreso il significato più intimo, che però chiamava in causa anche una generosità indispensabile verso il prossimo. «Per avere, bisogna dare», pare suggerire Berengo; che ha trovato nel racconto il suo ambito operativo, muovendosi laddove non si concentravano i luoghi comuni o le tendenze, preferendo la gente semplice, gli individui comuni. Per una vita intera, lui ha cercato momenti significanti, che poi si sarebbero potuti raccogliere per argomento, in uno di quei libri (tanti) che ha amato pubblicare.

Ci siamo allontanati dall’argomento biografia, andando fuori tema; ma per noi parlare del fotografo ligure rappresenta un privilegio, che peraltro cerchiamo spesso. Ebbene, il libro che abbiamo tra le mani rappresenta un modo per mettere ordine all’interno delle nostre stesse idee, evitando così i rischi della leggenda o di quanto si era già sentito dire. E’ bella da leggere questa biografia, con calma e applicazione, dedicando a essa il tempo necessario. C’è molto da comprendere, grattando anche tra le righe.

"In parole povere, immagini, ricordi e incontri"

Auguri Berengo

“In parole povere”, immagini, ricordi e incontri. Edizioni Contrasto (Sinossi)

«Se si è veramente fotografi si scatta sempre, anche senza rullino, anche senza macchina fotografica». La fotografia come scelta: l'autobiografia con immagini di Gianni Berengo Gardin, raccolta dalla figlia Susanna, rintraccia il filo di questa passione e lo dipana attraverso una vicenda biografica lunga, piena d’incontri, di viaggi, di storie, di immagini colte e da cogliere. Piena, soprattutto, di quella sensibilità attenta al reale, alla società, alla gente, che da sempre rappresenta il principale bagaglio di cui si deve dotare un fotografo di reportage. Il mondo di Berengo Gardin è il nostro mondo. Il volume si completa con “Una lettera all'amico Gianni”, scritta da Ferdinando Scianna; e una conversazione “sulle fotografie fatte e quelle da fare”, tra Gianni Berengo Gardin e Roberto Koch.

“La prima volta”, storia di un incontro.

Nel giorno del suo compleanno, abbiamo deciso di regalare all’amico Berengo la storia del nostro primo incontro, sperando di fargli cosa gradita.

Sembrava un bambino. Guardava attraverso il finestrino lo scorrere del paesaggio lombardo. Io ero al suo fianco, sulla corriera che ci stava portando a San Felice sul Panaro, per il Carnevale. Mi sentivo emozionato.

Tutto era iniziato la mattina presto, su indicazioni di Lido Andreella: «Dovresti andare a prendere Gianni Berengo Gardin, a casa sua», aveva detto Lido. «E poi accompagnarlo a Busto Arsizio, da dove partiremo in pullman». «Quando torniamo, lo riporterai indietro». La richiesta era illogica, perché abito a Milano sud; ma per un viaggio col maestro ligure si fa qualsiasi cosa. Mi ero preparato. Avrei voluto parlare di fotografia, e porre infinite domande; ma Berengo si rivelò di poche parole. Rispondeva a monosillabi, quasi con ovvietà. Così preferii tacere, limitandomi a quesiti di circostanza: “Tutto bene?”, “Sta comodo?”.

In pullman lo osservavo con attenzione. Non si era tolto il soprabito e teneva in grembo una piccola borsa. La sua figura emanava precisione, ordine, compostezza.

«Quante fabbriche», disse a un certo punto, ed io ne rimasi meravigliato. Mi sembrava ovvio, scontato. Lui però, più tardi, si lasciò sfuggire altre considerazioni dello stesso tipo, sempre in relazione al paesaggio oltre il finestrino. Compresi così che Berengo non era in gita. Lo interessavano poco le battute “da corriera”, i clamori, e anche quelle canzoni spontanee che, ogni tanto, parevano prendere vita a mo’ di coro. Lui guardava, osservava. Il finestrino diventava la cornice ideale per il suo occhio sempre vigile e acceso. Fotografava.

Durante il viaggio fui invitato a parlare del maestro. Lo feci con un po’ di titubanza, forse addirittura con una timidezza che non mi riconoscevo. Quando parlai dei suoi libri, ne sbagliai il numero e lui mi corresse. Il resto venne fuori quasi d’istinto, automaticamente. Il mio sguardo era sempre su di lui, in cerca di consenso; quando tornai al posto, Berengo volgeva già lo sguardo al paesaggio. Fotografava ancora.

Da quel giorno, tutte le volte che dialogavo circa il maestro sentivo nascere in me un senso di rabbia. La gente, tanta, indefinita, inconsapevole, confondeva di continuo la sua disponibilità con il diritto ad accedere. Berengo lo si trovava alla portata perché ha sempre attinto le storie dalla gente, dalla vita che appartiene alle comunità dei semplici. Non era “uno di noi” e neanche “come noi”, almeno in fotografia. Lui ha sempre portato avanti un lavoro gigantesco, impossibile a tanti, irraggiungibile. Per questo va rispettato: più di un artista o un pensatore. Ci rilascerà la nostra storia, rendendola fruibile. Non è poco.

Berengo guarda fotograficamente, e pensa allo stesso modo. Vederlo nel vortice del Carnevale di San Felice ha rappresentato un grande insegnamento. Il suo atteggiamento era sempre composto, come il modo di porsi. Non doveva sgomitare, né sopravanzare nessuno: tutto era storia, evento, momento di tempo. Ogni tanto cambiava rullino, aiutandosi con una scatolina che ne conteneva tanti. Tutti i gesti erano misurati, logici, lenti, riflessivi. Per Berengo caricare la macchina non rappresenta un atto meccanico, bensì una pausa per pensare al “dopo” e forse anche al “prima”. Sì, perché si può decidere di tornare indietro, sui propri passi, per scattare ancora, e raccontare di più.

Quel giorno ho mangiato con Berengo, e i suoi gusti si sono palesati da subito: pasta al pomodoro e un gelato; di base, la frugalità. Le sue formule di vita si concretizzano anche di fronte al cibo, perché basta poco, che è già troppo. In più quando si mangia, non si fotografa; per questa ragione lui affronta il pranzo con una sorta di pudore, come per difendersi da una nudità. La sua arte non può trovarla di fronte a un piatto, così accelera anche i tempi. Non appena si siede, apre il tovagliolo ed esprime i suoi gusti, esplicitando il “poco” dei suoi desideri. Tempo dopo, durante una mostra, tentarono di fotografarlo mentre assaggiava una tartina. Andò su tutte le furie. Esteticamente aveva ragione, ma in più lui viveva una nudità forzata, obbligatoria, che non faceva parte del proprio esistere.

Il viaggio di ritorno trascorse come quello d’andata. Berengo, seduto come un bambino, curiosava le luci invernali della sera, ne era attratto. Sul pullman qualcuno parlava, altri dormivano; le battute erano finite. Il maestro era quello del mattino, curioso e meravigliato, poroso e osmotico già nei confronti dell’orizzonte.

L’ho accompagnato a casa che era tardi. Io ero più disteso, meno preoccupato. Per le vie di Milano parlava più volentieri. Chiesi di poterlo chiamare ancora e lui rispose: “Sì”. Ne fui contento. Speravo fosse nata un’amicizia, ma si trattava di un desiderio infantile: era troppo presto per dirlo. Sentivo però di aver conosciuto la dimensione del tempo, quello che serve per fotografare e vivere. Una nuova consapevolezza.

Guidai lentamente verso casa. Guardavo le luci, i viali, la gente, accelerando piano. La giornata era stata faticosa e ne ero provato. Vivevo comunque una soddisfazione intensa, di quelle che si provano quando le cose vanno bene.

Avevo aperto gli occhi sulla mia passione.

Nota

Quel giorno conobbi Massimo per la prima volta, oggi un amico. Mi trattava con un certo riguardo, o almeno pensavo fosse così. Tempo dopo disse che mi credeva la guardia del corpo del maestro. Ne ridiamo ancora.

La fotografia

Copertina del libro "In parole povere, immagini, ricordi e incontri"

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