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LA FESTA DELLA LIBERAZIONE

Oggi è la festa della liberazione, ma il nostro pensiero deve andare anche ai tanti civili che la guerra l’hanno subita, al di là delle ideologie. La storia si scrive quasi da sola, tra vinti e vincitori, battaglie ed episodi, coraggio e retorica. Alla resa dei conti, però, ogni conflitto genera solo superstiti, se non addirittura reduci: a loro il compito di generare un “come prima” almeno migliore.

Dedichiamo alla festa un racconto, ambientato ancora durante la guerra. Lo facciamo per ricordare coloro che non hanno potuto dire a se stessi: «La guerra è finita».

IO E LUCIA, DIARIO DI UN PILOTA

Mi ero perso, e non poteva essere altrimenti. Tutto sembrava diverso, adesso; anche il buio della notte. Quando si vola, lassù c’è sempre un po’ di luce; e poi la contraerea illumina la visuale a lampi, come in un temporale.
Bombardavamo Bologna, ci avevano colpito. L’aereo, dopo un sussulto, si era riempito di fiamme. Il copilota versava accasciato sui comandi, e perdevamo quota. L’abitacolo sprigionava calore. Chiamavo invano i miei compagni, urlavo; alla fine decisi di buttarmi. Da quel momento è cambiata la mia vita.

Precipitando, l’aereo diventava una scia di fuoco che cadeva lamentandosi; dopo fu solo silenzio: quello del vento e dell’oscurità.
Altre volte le missioni ci avevano portato su Bologna, ma io avevo vissuto il lusso di immaginare. Le bombe, al suolo, si trasformavano in bolle di luce. Non sapevamo a chi, e a quanti, stavamo togliendo la vita. Ci sparavano, avevamo paura; ma era sempre una questione di quota, da vivere lassù: con poco sangue e tanto ferro attorno a noi.
Solo una volta scorgemmo un treno. Sembrava fuggire, come un animale braccato. Lo colpimmo, e si avvolse su se stesso. Quell’immagine mi rimase impressa nella mente, a lungo.

Planavo verso il suolo: quello più volte sorvolato e mai calpestato. Il paracadute mi sembrava troppo bianco e visibile, ma nessuno lo intravide. Sarei stato un bersaglio facile. Il buio diventava sempre più denso e oleoso, percorso a volte da aliti di fumo. In lontananza brillavano dei fuochi: era la città.
Poi, all’improvviso, la discesa divenne più veloce. Ai miei piedi comparve un fiume, un ponte distrutto, una casa, degli alberi. Un crepitio m’avvisò che entravo tra le foglie. Rimasi appeso, in silenzio. Un cane abbaiava alla notte.

Riuscii a liberarmi, anche se con un po’ di difficoltà. Nascosi il paracadute dietro una catasta di legna e iniziai a correre verso un riparo plausibile. Un fossato mi permise di gettare lo sguardo in giro. Non c’era nessuno.
Appoggiai la testa sul braccio. Mi colse una stanchezza improvvisa. Da quel momento il mio impegno era al suolo, dove non mi ero mai cimentato. Solo allora presi coscienza di avere una pistola alla cintura, e anche una borraccia. Avrei voluto una carta geografica o qualche punto di riferimento. Il sud rappresentava la mia salvezza, da raggiungere camminando di notte. Con la divisa da aviatore americano ero facilmente riconoscibile.

Mi sporsi ancora dal fosso, cercando di orientarmi. Da un lato nient’altro che notte; dall’altro un albero si ergeva su un prato e poi, più avanti, una casa con di fianco un fienile. Decisi di dirigermi lì, per provare a nascondermi. Ancora un paio d’ore e sarebbe sorta l’alba. Uscii lentamente dal fossato, poi mi misi a correre, piegato sulla schiena. Arrivato al fienile, poggiai le spalle al muro, guardando in giro. Con un piede scostai la porta: era semi aperta. Entrai.
Il buio nascondeva ogni cosa. Solo un leggero chiarore disegnava il contorno degli oggetti: una ruota, un carro, degli utensili. Per il resto, lo spazio era vuoto; con un po’ di fieno qua e là. Mi sdraiai nell’angolo buio. Sentii le membra rilassarsi. Un ronzio fastidioso vibrava nelle orecchie, quasi il rumore del silenzio. Sotto di me, sentivo la terra e il suo odore: sensazione rara per un pilota.

Non so se mi addormentai, forse chiusi solo gli occhi. Pensavo a moglie e figli, alla casa nel Vermont; ai prati, ai boschi, allo sciroppo d’acero. Mai avrei immaginato in un ritorno a piedi. Mi coricai su un fianco, rannicchiai le gambe. Misi un po’ di fieno a mo’ di cuscino, per dormire meglio. Respirai profondamente, perché volevo calmarmi. Per adesso, avevo salvato la vita.

Un’ombra! Non poteva essere vero. Invece sì: un’ombra s’ingigantiva sul muro, per poi scomparire. Qualcosa si muoveva senza far rumore, velocemente. Cambiai posizione, scrutando nel buio. Eccola! Saltai nel vuoto, convinto di afferrare qualcosa. La presa mi sfuggì, ma caddi sopra un corpo. Il mio peso l’aveva immobilizzato, anche se si dimenava picchiandomi il viso. Riconobbi i capelli, le forme, le mani, i gemiti di dolore. Una donna.

Mi ritrassi.
“My name is Roger”, ma lei capiva la mia lingua.
“Mi chiamo Lucia”, rispose.
La voce era dolce. La vidi in piedi, perché entrambi c’eravamo alzati per ripulirci alla meglio. Nella penombra appariva alta, magra, quasi elegante. I capelli dovevano essere stati neri, come gli occhi; ma si trattava di una supposizione.
“Cosa fai qui?”, chiesi.
“Scappo”, rispose lei.
“In un certo senso anch’io”, dissi.
“Lo vedo”, suggerì Lucia.
Rimanemmo in silenzio per un po’. Lei mi guardava con una certa attenzione, forse per via della diffidenza. Io invece ero tranquillo. Il primo incontro volgeva per il meglio. Davanti a me avevo una donna sola, in fuga per giunta. Eravamo due braccati.

“Dormiamo a turno”, proposi.
“Sono ebrea”, rispose. “A Bologna io e altre ragazze siamo scese dal treno”. “Sparavano e noi scappavamo”. “Le vedevo correre di fianco a me, e poi cadere: l’una dopo l’altra”. “Mi aspettavo un dolore acuto, una fitta lancinante; ma non accadde nulla”. “Trovai la via di fuga tra i vagoni, col fiatone che mi faceva tossire”. “Mi hanno cercato a lungo, senza trovarmi”. “Ho passato due giorni tra i mantici di due vagoni”.
“Io ero in volo, e ci hanno colpito …”, iniziai.
“Lo so, ho visto tutto; sei sceso col paracadute”, aggiunse lei.
Percepivo una forte solidità d’animo. Tutto in lei era misurato, essenziale, concreto. Parlava senza lasciar trasparire emozioni o sentimenti.
Dopo un po’, lei iniziò a sistemarsi per riposarsi.
“Dormiamo a turno?”, chiesi ancora.
“Fai come vuoi”, rispose; e si voltò dall’altra parte.

La luce ci colse in dormiveglia. Lucia era ancora sdraiata, io seduto con la schiena al muro. Realizzai: mi alzai di scatto.
“E’ brava gente”, disse lei.
“Cosa?”, chiesi.
“Quelli della casa”, rispose. “Hanno sempre ospitato i fuggitivi, con te non faranno un’eccezione”. “Non credi che …”, provai a dire …
“Lascia fare a me, non muoverti”, disse con una certa decisione.
Lucia si alzò con agilità. Con le mani ripulì il soprabito. Sistemò i capelli con pochi gesti, guardandomi a lungo. Poi prese la via della porta e uscì. Era bella.

Io origliai dall’uscio socchiuso. Avevo paura. Lei bussò alla porta della casa, facendosi indietro subito dopo. Alzò la testa per guardare le finestre del primo piano. Bussò ancora. Qualcuno aprì. Lei entrò quasi senza chiederne il permesso. Ero perplesso.
Lucia uscì dopo qualche minuto, con qualcosa in braccio. Io arretrai dall’uscio, aspettando di vederla entrare. Lei spalancò le ante con decisione, lanciandomi dei vestiti e un pezzo di pane bianco.
“Sei biondo, ma almeno così non sembrerai un soldato”, disse. “Cambiati; fai in fretta però”. Lucia si voltò. Io mi cambiai furtivamente. Sembravo un clown.
“Devi tenere le tue scarpe”, disse. “Speriamo non destino sospetti”.
“Ma …”.
“Ai vestiti militari penseranno loro, non ti preoccupare”.
“Ti ringrazio per quello che hai fatto”, ebbi modo di dire.
“Va bene”, rispose.
“Mentre precipitavo, non immaginavo di essere così fortunato”, aggiunsi.
“Ok, lascia stare”, rispose.
“Allora, arrivederci”, pronunciai
“Arrivederci?”. “Vengo con te”. “Fammi capire che anch’io sono stata fortunata”.

Passammo la giornata nel fienile, senza dire una parola. Lei, da seduta, ogni tanto guardava fuori attraverso i vetri della finestra; poi si rannicchiava sulle ginocchia, ponendovi sopra il mento.
La osservai tutto il giorno, poi mi addormentai.
“E’ buio, andiamo”, disse scuotendomi.
Portai la mano alla bocca.
“Non sbadigliare”, aggiunse. “Non ne abbiamo il tempo”.

Iniziò un lungo viaggio, quello mio e di Lucia. Lei camminava sempre davanti, aspettandomi solo se doveva dire qualcosa. Con gesti consumati, m’indicava se fermarmi, e quando camminare ancora; o anche se nascondermi dietro al fogliame. Sembrava una guida. Conosceva i luoghi nei dettagli, come una del posto.
Di giorno trovavamo rifugio nei fienili o persino nelle Chiese. Ovunque lei incontrava gente compiacente, disposta a rischiare. Non ci veniva mai negato un pezzo di pane.

Era bello vederla camminare: agile, dall’incedere felino.
“Ti sto portando dai tuoi”, disse un giorno. “Ma prima incontreremo le linee tedesche”.
“Se vuoi, possiamo lasciarci qui”, risposi.
“Vengo con te”, ribadì lei con decisione.

Guardavo in continuazione le sue gambe. In salita, il muscolo del polpaccio si tendeva disegnandosi; con le mani sulle ginocchia, aumentava la spinta. Ogni tanto si voltava per vedere che non fossi rimasto indietro. Alle volte sorrideva. La trovavo sempre più bella: una donna adulta, con un po’ di ragazzina.
Una sera riparammo in una canonica semidistrutta. Trovammo dell’acqua, ci lavammo. Eravamo mezzi nudi e ci guardammo a vicenda. Furono istanti di silenzio.
“Vuoi fare l’amore?”, chiese.
Non sapevo cosa rispondere. Lei si avvicinò, togliendosi gli ultimi indumenti.
Ero su di lei.
“Guardami”, disse. Provai a baciarla.
“No, guardami”, ripetette.
Mi fermai.
“Continua, mi piace”, pronunciò Lucia.
Ci fissavamo negli occhi, poi lei li chiuse. Con la testa all’indietro, sospirò più volte. Un velo di sudore le imperlava la fronte.
Sorrise.

“Sono rimasta sola”. “Non ho più nessuno”, ebbe modo di dire un giorno. “Che farai?”, domandai.
“Accompagno te”, rispose.
“Un giorno però dovremo lasciarci …”, dissi.
“Fino a quel giorno sarà vita, come quella di prima”. Aggiunse. “Poi vedremo”.

“Venite, svelti”, disse l’uomo. “Non fate rumore”.
Il cunicolo era stretto, ma ci avrebbe permesso di attraversare le linee tedesche quasi del tutto.
“E’ lui l’americano?”, chiese l’uomo a Lucia.
“Sì, è lui”.
“Questo è l’ultimo, però”. “Siamo in guerra, non possiamo salvare tutti”.
Il cunicolo sbucava davanti una radura. La luce della luna rendeva tutto più chiaro.
“Usciremo uno alla volta”, pronunciò un altro individuo. “Possono vederci, forse ci spareranno”.
“Ognuno pensi per sé”. “Se dovesse succedere qualcosa, non cerchiamoci a vicenda”. “I fuggitivi è sempre meglio che si separino”.
Venne il mio turno. Lucia sarebbe arrivata dopo. Correvo senza sapere cosa avrei trovato nel boschetto di fronte. Sentivo il battito sul collo e il fiatone che mi raschiava la gola. Si udì uno sparo, poi una raffica. Di lì a poco fu l’inferno, uno di quelli che non avevo mai visto.
“Lucia …”, pensai voltandomi. “Lucia …”.
Due braccia mi afferrarono, ebbi paura. Mi voltai di scatto. Di fronte a me stava un uomo alto e robusto.
“OK boy”, disse. Era americano.

Al comando di zona raccontai tutto: il bombardamento, l’ora, le fiamme, la fuga, Lucia. Mi dissero che sarei stato aggregato a un altro reparto di avieri. Avevo una divisa nuova. Mi alzai. Lasciai il Capitano con una stretta di mano. Da una finestra la vidi: Lucia! Scesi le scale di corsa. Alla porta, me la trovai di fronte. Non sapevo cosa dire.
“Sei arrivato, bravo”, disse lei.
“Grazie”, risposi.
“Non dimenticarmi”, pronunciò Lucia.
“Come potrei …”.
Mi baciò, poi corse via. Riconobbi il corpo, le gambe, l’incedere felino. Era bella.

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Cari Edward e John, figli miei,
ho deciso di spedirvi questo diario. La guerra mi ha cambiato o forse ha messo in mostra un lato diverso del mio esistere. Voi mi conoscevate come un commesso viaggiatore con la passione per il volo; invece ho saputo combattere, con coraggio.
Non ho mai tradito la mamma, ma la guerra ti porta ad amare quando meno te lo aspetti. Diventa quasi un regalo inaspettato, che non puoi rifiutare. Forse lei capirà. Vi abbraccio forte.
Roger

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Roger morì volando sui cieli della Germania.
Di Lucia non si seppe più nulla.

Le fotografie

Un aereo in volo sui cieli toscani
Gli alleati entrano a Napoli, 1943. Ph. Robert Capa

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