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BUON FERRAGOSTO

E’ il 15 agosto, il giorno delle vacanze per eccellenza. Erano già i romani a suggerirlo, ai tempi di Augusto. Allora sanciva la fine del lavoro nei campi. La religione cattolica poi ha detto la sua, introducendo la festa dell’Assunta. In molti paesi del mondo il 15 agosto è un giorno come un altro.
Stiamo parlando di una festività priva di un suo rito, dove noi siamo maggiormente padroni del nostro tempo. Di quelle passate ricordiamo i tormentoni musicali, le località visitate, le promesse non mantenute, gli amori, i treni che partono, le code in autostrada, il caldo. Col tempo, ci accorgiamo di essere cambiati, con i figli più grandi e i conoscenti (ma anche noi) appesantiti da qualche chilo in più.
Insomma, godiamoci questa giornata: con amici, parenti o anche assieme al vicino d’ombrellone. L’estate è al culmine e gira la boa, per cui dobbiamo sentirci quasi abbracciati lungo le coste, sui laghi o passeggiando in montagna: oggi siamo insieme, tutti; come i bagnanti sulla spiaggia nella fotografia di Massimo Sestini.

Buon Ferragosto

Ci occupiamo anche di tempo, per cui una notizia storica dovevamo scriverla (peraltro già citata). Tra il 15 e il 18 agosto 1969 a Bethel, una piccola città rurale nello stato di New York, si tenne il Festival di Woodstock. Si era all’apice della diffusione della cultura hippy, che si voleva riunire con “3 days of peace and music”.
Sono passati 54 anni, eppure il mito di Woodstock è cresciuto a dismisura, per un “festival che non finisce mai”: perché la sua musica continua a circolare, a farsi ascoltare, facendosi apprezzare da generazioni sempre nuove.
La rivoluzione, dopo Woodstock, non c'è stata. Non importa, ma quei tre giorni sono esistiti davvero; e la musica che li ha accompagnati resta ancora con noi, con tutta la sua forza, la sua libertà, l’emozione che scaturisce.
Sul palco si esibirono, tra i tanti: Richie Havens, Joan Baez, Santana, Janis Joplin, Grateful Dead, Creedence Clearwater Revival, The Who, Jefferson Airplane, Blood Sweat & Tears, Crosby, Stills, Nash & Young, Joe Cocker. Tanta roba.

15 agosto, un’esperienza personale

«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti» (Da La Luna e i Falò, Cesare Pavese).
Lo scrittore di Santo Stefano Belbo (Cuneo) ci induce a riflettere sul nostro “paese”. Chi scrive, per anni ha frequentato il Santuario che riportiamo nella fotografia di Luciano Marchi. Siamo sull’Appennino Bolognese, affacciati alla Toscana. Quel luogo di culto apre solo il 15 agosto, per l’Assunta. Frequentarlo, da nipote e poi da figlio, voleva dire confrontare la propria vita con la comunità ritrovata. Quest’anno non potremo esserci, per motivi di salute; ma sappiamo che il Santuario di Calvigi è lì ad aspettarci, come sempre.

L’età di Fulvia, un racconto estivo

Era bella, Fulvia: anche di più. La ricordano ancora oggi, qui: a Ponte della Venturina; perché il solo vederla passare bastava per tenerla in mente, a lungo. Aveva capelli neri, folti, ed occhi profondi, intensi; e denti bianchissimi, che ad ogni sorriso sembravano prenderti in giro. Il corpo, poi, viveva di vita propria: quasi disgiunto dalla vivacità della persona, perché sinuoso, invitante, imbarazzante.
Compariva d’estate, come d’incanto; e tutti gli occhi erano per lei, non solo quelli dei coetanei: perché Fulvia era appiccicosa allo sguardo e all’idea, per giovani ed attempati. I suoi nonni parlavano della nipote con un linguaggio consueto, e dei soliti argomenti: la scuola, gli studi, le qualità, quella vita a Pistoia così speciale perché distante, non verificabile. Ma Fulvia era diversa e quei discorsi suonavano male; era più facile guardala passare ed immaginare: il bello o il brutto, con l’invidia o il desiderio, con la passione e, alla fine, il sogno.
A Fulvia tutto era dovuto: non perché pretendesse, ma per il fatto che tutti le prestavano attenzione. E premura. Tutto ciò capita ai belli, sin da bambini; perché loro non vogliono giocare, ma si concedono nel farlo: così è importante approfittarne; lo stesso dicasi per le feste, le gite, e quelle sere d’estate fatte di caldo, buio e stelle. I giovani le hanno sempre usate per conoscersi e scoprirsi, senza però accorgersi che il tempo sarebbe passato come quel treno lucido, proprio sotto il ponte. “Chi prende il treno a quest’ora è solo nella vita”, diceva Fulvia, ma nessuno la stava ad ascoltare; il solo vedere il suo volto senza il bianco del sorriso era una primizia da non perdere, per potere ricordare meglio.

Non conosciamo tutti gli amori di Fulvia, ma gli spasimanti sì; e sono stati tanti. A quel tempo l’Appennino era popolato da giovanotti longevi: ogni anno un po’ diversi, ma sempre con l’andatura sicura e spavalda. Non si sarebbero mai permessi di sedersi ad un tavolino, né di ballare alla Fontanina: laggiù, vicino al tennis. Appoggiati al bancone dei bar, osservavano distratti la gente, le macchine, le ragazze. Erano Pepo, Loris, Checco, e tanti altri; tutti avvolti dal medesimo comportamento: la macchina parcheggiata distrattamente, il finestrino lasciato aperto, la sigaretta appena appiccicata al labbro e quell’ultimo sguardo al cofano e alle gomme. Larghe.
Pepo ci aveva provato, ed anche Loris; Checco viveva nella convinzione di piacere, a Fulvia. Ma lei non era stata dei tre, neanche col pensiero. Si parlava di amori “di fuori”, di fughe a Pistoia, addirittura di un camionista della “bassitalia”. Eppure faceva rabbia: quelle gambe lunghe a dismisura avrebbero risuscitato un morto! Chi sarebbe stato il marito fortunato? Chi l’amante? Mistero! Anche oggi.

A dire il vero, una passione c’era stata: sin da bambina. Quel treno sotto il ponte di notte era per le persone sole, ma di giorno era per Fulvia. Lo sentiva da lontano, quando ancora era alla Madonna del Ponte: perché il 424 saliva lentamente, con un rumore ruvido, quasi asfittico. “C’è Gianni che guida”, diceva; e correva dalla farmacia lungo il ponte. Lo faceva anche con le ciabatte da mare, perché la gamba la sosteneva anche quando sembrava per cadere.
“Gianni, Gianni”, urlava: che il treno era lì sotto, pronto a fermarsi in stazione. “Gianni, Gianni!”. E Gianni usciva, quasi a fatica dal finestrino stretto, con quel sorriso ironico sotto un baffo da cacciatore. Lui era l’uomo e la macchina, ma libero e fiero: uno che non avrebbe chiesto nulla, soprattutto qualora qualcuno avesse donato qualcosa.
“Ai bambini piacciono sempre i treni”, era il commento dei vecchi. Non era il caso di Fulvia. Lei voleva un treno che la portasse via: non da Pepo, Loris o Checco; nemmeno da Ponte della Venturina. Voleva scappare dalla sua tristezza antica, da quel doversi sentire fortunata per essere bella. Perché non si può essere selettivi per diritto naturale, ma per le proprie idee. Anche Fulvia sentiva che Dio era morto e risorto, che Lisa aveva gli occhi blu: magari in un pomeriggio troppo azzurro e lungo, quando quel carretto sarebbe passato con un uomo che gridava gelati. Ma lei era stanca: dell’imbarazzo di alcuni e del coraggio di altri. Tutti avrebbero chiesto e preteso solo la sua buccia: tutti tranne Gianni. Lui no, ne era sicura. Se pure si fosse svestita in stazione, tra i vecchi di Ponte della Venturina, Gianni sarebbe ripartito, anche quando, col tempo, i capelli avrebbero iniziato a diradare la fronte all’età matura.

Che rabbia l’Appennino, il tempo passa e le cose restano: le abitudini, le usanze, gli odori. Ti accorgi che è estate per il profumo, prima che per il caldo. E poi c’è quel vento, leggero alle volte: che sempre ti accompagna quando i pensieri ti avvolgono la mente e macerano i ricordi. “Gianni, Gianni”, urlava Fulvia. Poi, con gli anni, il grido diventò sguardo, curiosità: tutto per un “amor mio” che solo lei avrebbe potuto amare.

Non correva più, Fulvia, ma alle volte si faceva trovare in stazione, magari per mano ad un cuginetto che il treno lo voleva vedere veramente. Fulvia era sempre bella, forse ancora di più. Non era più tempo, però: neanche per Pepo, Loris e Checco. Fu il vento, un giorno, a farle ricordare che i nonni non c’erano più e neanche il ciliegio di fronte alla casa. Quel soffio le disse come le vacanze fossero diventate ferie e che sarebbe dovuta partire, prima: quando ancora era il tempo per restare.
“Passerotto non andare via”. Quella canzone sarebbe stata di Pepo, da ascoltare con gli sportelli aperti. Magari questa sera l’avrebbero suonata alla Fontanina, giù: vicino al tennis. Aspettò il treno seduta, di fianco ai nuovi vecchi; con il paese di fronte: dall’altra parte del fiume. “Chi prende il treno a quest’ora è solo nella vita”, si disse, e il vento le scompigliò i capelli.
Le porte si aprirono da sole e non scese nessuno. Si sistemò e aprì il finestrino. Ancora un alito caldo, poi un ricordo: questo è il treno di Gianni! Si sporse, guardò avanti. Vide solo due braccia e un po’ di fumo di sigaretta. “Non ricordavo che Gianni fumasse”, si disse.
Era felice.

Il fotografo Luciano Marchi, note di vita

Luciano Marchi è fotografo da sempre, almeno da quando si è accorto che lo strumento dell’immagine poteva contenere il frutto della propria fantasia. Autore, professionista, è iscritto all’Ordine dei Giornalisti per i meriti della propria arte. Sul paesaggio ha sviluppato un suo pensiero fotografico, poi fatto migrare nel racconto di una prossimità plausibile. Lì Luciano delega “all’Io narrante” emozioni, suggestioni, significati.
Sempre disposto al confronto, Marchi ha incontrato diversi fotografi, allargando il proprio sguardo su molta della fotografia italiana che lavora. Per queste ragioni è stato chiamato a esporre in numerose collettive, presso il PhotoShow di Milano e Roma e durante Fotografica 2011, eventi durante i quali ha svolto anche il ruolo di relatore, presente anche allo Spazio Tadini di Milano con una collettiva a tema “Il Viaggio”, accomunate a quelle di Gianni Berengo Gardin. Ha all’attivo pubblicazioni di rilievo, accompagnate dalle parole di esponenti importanti della cultura e del giornalismo. Le sue immagini compaiono regolarmente sul quotidiano “Il Resto del Carlino”, per il quale opera da svariati anni.
Nel 2016 Sprea Editore l’ha scelto quale testimonial nella propria monografia dedicata al paesaggio. A giugno 2019 le sue immagini sono esposte a Milano in occasione del Photofestival 14th.
A fine 2019 l’ultimo lavoro con il volume fotografico “l’Appennino che non vedi”. Da allora si è concentrato sul suo lavoro, proponendo anche, a livello formativo, continui incontri in Accademia con i grandi della fotografia, tra cui Giovanni Gastel (estate 2020).
Nel 2021 ha pubblicato il suo 30° calendario, dedicato come i precedenti al territorio appenninico.

Massimo Sestini, il cuore per la notizia

Non è la prima volta che incontriamo Massimo Sestini. Lo intervistammo per la prima volta sette anni addietro e ne scaturì un articolo dal titolo “La Fotografia Impossibile”. Oggi ci rammarichiamo di aver riservato unicamente un ambito “estremo” al lavoro del fotografo fiorentino. E’ vero: lui si presenta adrenalinico, esplosivo, persino imprevedibile; però le sue immagini stanno raccontando spettacolarmente le piccole e grandi storie del nostro Paese, e di tutto il mondo.

Massimo Sestini è una notorietà nel suo genere. Lungo le pareti del suo studio, a Firenze, riconosciamo tante fotografie, ormai icone del nostro tempo, di fianco ai suoi backstage. Lo vediamo “appeso” a un elicottero, all’interno di un caccia della Marina Militare o immerso di fianco a un sommergibile. Questa volta, però, non ci lasciamo ingannare. Per quanto difficili (o impossibili) gli appostamenti di Massimo rappresentano punti di vista autoriali, scelti per raccontare: in profondità.

Lui si definisce anche paparazzo (termine del quale abusa), forse per via degli esordi. No, non è il termine a spaventarci (il capostipite dei paparazzi era tale solo perché padre, ma sempre di fretta: papà-razzo, appunto), bensì la linea di demarcazione che si sviluppa tra bene e male; tra la presunzione culturale e la stessa che, dall’altra parte, condanna senza tregua un’informazione anche “spinta”, ma sincera. Non siamo certo qui a decidere del dove collocare quella riga. Preferiamo guardare le fotografie, giudicandole per quello che sanno restituirci, scoprendo così come siano belle, buone ed efficaci. Ne esce un Sestini giornalista, con il cuore per la notizia; ma anche un altro: tecnologico, coraggioso, senza limiti, però fotografo vero, e per nulla spavaldo. Crediamo altresì che le sue “imprese” nascano anche dal desiderio di superarsi, per dedicare al soggetto la propria timida sensibilità; del resto molti dei suoi lavori sono strutturalmente unici, particolarmente quelli scattati in volo. Quando si è lassù, in uno “zenit personale”, si ha solo un’opportunità, che poi è la visione d’insieme. Gli altri accadimenti sono preclusi, lasciati ai terrestri; e Massimo può solo guardare, pensando a noi: con una preghiera tutta sua.

Massimo Sestini, note biografiche

Massimo Sestini è nato a Prato (Firenze) nel 1963. Le prime fotografie le scatta mentre è al liceo scientifico: concerti rock e le primissime foto rubate al mare, a Forte dei Marmi. Qui è istruttore di windsurf e si fa passare informazioni dai bagnini. Alla fine del liceo comincia a occuparsi di cronaca locale, passando dalla Nazione a una piccola agenzia fiorentina, la Fotocronache di Fulvio Frighi; collabora a un altro quotidiano, La Città. Pubblica i primi servizi. Non compie nessuno studio di fotografia, ma ricorda che qualcosa al liceo gli hanno insegnato. Comincia a occuparsi di grande cronaca e piazza i suoi primi scoop nel 1984. Riesce a fotografare Licio Gelli a Ginevra mentre viene scortato in carcere e il 23 dicembre 1984 è il solo fotografo ad entrare nel vagone del Rapido 904 annientato da una bomba nella Galleria di San Benedetto Val di Sambro. Una sua foto sarà la cover di Stern.
Anche se sempre più attratto da avvenimenti internazionali non perde la passione per la cronaca della sua città: con l’apertura dell’edizione di Firenze de La Repubblica, nel 1988, comincia a presentarsi come il punto di riferimento per la copertura fotografica di città e regione: vince l’appalto fotografico per La Repubblica. Lo terrà per una decina d’anni. Manterrà quindi a lungo una doppia funzione: fotografo e agente, coordinando il lavoro di reporter locali. Comincia a lavorare sempre di più a livello internazionale e nel decennio successivo collabora con le principali agenzie fotografiche italiane (l’agenzia di Giovanni Liverani, l’Olympia di Walfrido Chiarini, Farabola, Contrasto), ottiene un contratto di fotografo staff dalla grande agenzia francese Gamma, che gli permetterà di essere presente ai grandi fatti, cerimonie internazionali, inizia la sua collaborazione con tutte le principali testate italiane.
E’ un decennio di attività formidabile. Da un lato apprende e insegna l’arte del paparazzo, collaborando tra gli altri con Riccardo Germogli, Elio Zammuto. Bossi in canottiera, il funerale di Casiraghi nel 1990, il bikini di Lady D sono alcuni scatti celebri. E’ presente e scatta la foto esclusiva nei tragici avvenimenti italiani: l’incursione sulla Moby Prince in fiamme, le foto aeree degli attentati a Borsellino e Falcone.
La collaborazione con Epoca di Roberto Briglia e Carlo Verdelli lo spinge al reportage, al fotogiornalismo, in cui una tappa importante è “Italia Novanta”. La fotografia sportiva è un’altra sua passione. La “scuola” di Epoca gli insegna a collaborare da giornalista con i settimanali; diventa una presenza indispensabile per tutte le principali redazioni italiane: Panorama, Gente, Oggi, Sette, Il Venerdì, Espresso, Sorrisi e Canzoni.
Lavora per il Corriere della Sera. Sempre più organizza o improvvisa scatti aerei per cogliere la foto che nessun altro collega ha.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta decide di imparare a fare anche i posati, per affrontare i personaggi con un’altra creatività. Luci, preparazione del set, inventiva per accontentare lo stile e le esigenze dei committenti: si trova così a rivedere spesso i personaggi dello spettacolo e della politica che aveva paparazzato, da fotografo “ufficiale” inviato dai giornali. In questo modo aggiunge a quotidiani e settimanali i mensili nella sua esperienza di fotografo “di giornali”; in particolare Style e le testate del gruppo Class.
Per nulla imbarazzato dal drastico ingresso del digitale nel tradizionale campo della fotografia, Massimo Sestini è riuscito immediatamente ad intuirne le infinite opportunità creative e tecnologiche.

Massimo Sestini in oltre trent’anni di carriera (quasi quaranta) ha sempre continuato a raccontare, offrendoci immagini da ricordare. Il 12 febbraio 2015, mentre documentava il Festival di San Remo, veniva a sapere di aver vinto il 2° premio General News del World Press Photo of the Year, il premio fotogiornalistico più importante al mondo.

Le fotografie

Santuario di Calvigi (Bo), 2006. Ph. Luciano Marchi.
Ostia (Roma), 7 luglio 2005, veduta aerea della spiaggia affollata. Ph. Massimo Sestini.

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