UN RACCONTO …
E’ un racconto estivo, quello che proponiamo: inventato ma verosimile. Riguarda un ragazzo e una ragazza, che sin da piccoli s’incontravano sulle rive di un lago artificiale. Tra i due non è mai sbocciato l’amore, solo un rispetto che si è rinnovato ogni anno, fino all’età adulta. La loro storia s’inserisce in un'altra, avvenuta molti anni prima; sempre sulle rive dello specchio d’acqua.
LA PANCHINA DI SASSO
L’estate ha le sue promesse e le manteneva tutti gli anni, almeno per loro: Giorgio e Maria, due amici che sin da piccoli s’incontravano durante le vacanze estive. Suviana, il lago, la montagna, l’Appennino: ci piace pensare che per i due abbiano rappresentato un periodo magico, da rivivere un anno dopo l’altro.
Forse andiamo troppo indietro, ma immaginiamo Giorgio e l’amica mentre posano per una fotografia in bianco e nero, una di quelle col bordo seghettato.
Nell’immagine non sorridono, anzi offrono uno sguardo curioso, come quello di chi è stato interrotto nel bel mezzo di un discorso. Entrambi indossano dei pantaloncini corti e una maglietta bianca. Stanno vicini, quasi a proteggersi; e dietro di loro una donna col grembiule li osserva sorridendo.
Si tratta di un ricordo estivo, che sicuramente esiste in qualche cassetto, anche se probabilmente in altra forma; ma allora la memoria non aveva ancora il tempo per depositarsi, e nemmeno lo spazio. Dopo la scuola, e la promozione, arrivava la montagna, con la nonna, gli amichetti di sempre, i vecchi.
Già, gli anziani: i due li incontravano solo lì, a Suviana; e ne apprezzavano la dolcezza antica, fatta di saggezza e consuetudini rituali.
“Come siete cresciuti”, dicevano, ma per loro l’affermazione risultava inutile, quasi non percepibile. Ritrovavano, insieme: i giochi, il boschetto, l’acqua del lago, i girini, le rane.
C’era poi un posto segreto, poco distante dal paese, dove i due amavano ritrovarsi. Lo chiamavano “la panchina”, anche se si trattava di un grande sasso levigato appena sporgente dal terreno.
Lì si trovavano durante i pomeriggi più caldi, o anche dopo cena; quando le nonne, vedendoli fuggire dalla tavola, esclamavano:
“Mettiti il giubbino!”.
I due sedevano su quel sasso a lungo, spesso in silenzio: guardando il lago incresparsi per il vento o gli aerei striare l’azzurro. Certe notti, poi, il cielo pareva più curvo e fitto di stelle. I due gareggiavano a contare quelle cadenti, nella calda notte di San Lorenzo.
A settembre l’estate dei due amichetti finiva. I saluti erano quelli di rito, ma bimbo e bimba, guardandosi con complicità, si suggerivano a vicenda:
“Ci vediamo sulla panchina”.
Gli anni passavano e i due tornavano puntualmente a Suviana. Nuovi vecchi si meravigliavano del loro cambiamento, ora percepibile anche soggettivamente. Giorgio e l’amica si sentivano diversi, dentro e fuori. “La panchina” divenne così un luogo di dialogo, dove si parlava di progetti, idee, desideri; persino ambizioni. Subentrò la musica, l’arte, la politica; e da parte di Giorgio anche l’amore per la tecnologia.
L’età adulta un po’ li divideva, perché mancavano le assonanze infantili; ed anche quei gesti goffi tipici dei bambini tanto cari a nonni e genitori. “La panchina”, no: rimaneva una costante; il sasso levigato li accoglieva entrambi, ora schiena a schiena nel guardare l’azzurro e le stelle.
Le cose cambiano, e un’estate “la panchina” non si fece trovare. Al suo posto era rimasta un’impronta profonda, scavata nella terra, priva d’erba. Marco ne accarezzò l’incavo col piede, poi entrambi volsero lo sguardo allo specchio d’acqua.
Ottantasei anni prima
Lo sapeva da anni, almeno tre: tutto non sarebbe più stato come prima. Laggiù, verso fondovalle, stavano alzando un muro, alto più di novanta metri. Avrebbe trattenuto l’acqua del Limentra, per formare un lago artificiale che avrebbe sommerso anche casa sua.
Su, in paese, le voci erano tante, particolarmente circa il livello dell’invaso. Di certo per Caselluccia, Molino Righetti, Le Serre, non ci sarebbe stato scampo, e quindi anche per le mura della sua abitazione.
Gli avevano offerto una soluzione, accettata per forza, ma la rassegnazione era di là da venire; così ogni giorno guardava il brulicare di gente attorno a quel muro: muratori, carpentieri, manovali. Spesso lavoravano anche di notte, con una luce artificiale biancastra e lattiginosa.
A ogni sguardo qualcosa cambiava, in altezza e spessore; e questo lo spaventava. Vi scorgeva un accanimento eccessivo, quasi una violenza: stavano chiudendo la sua valle e questo solo lui poteva capirlo.
Un giorno si chiese se valeva la pena seminare l’orto o potare il melo, visto che l’anno dopo tutto si sarebbe trasformato in fango e poltiglia. Lo fece ugualmente, con la dedizione di sempre; anche quando si rese conto che ormai proprio lui stava diventando l’aspetto curioso della valle. I suoi paesani, già trasferiti altrove, spesso sostavano a guardarlo mentre riparava un uscio o semplicemente accarezzava il cane. Il muro era ormai terminato.
Venne il momento nel quale anche l’orizzonte cambiava. Lo specchio d’acqua avanzava lentamente, e assomigliava a una pianura: docile e spaventosa. Perfino il cane iniziò a capire e correva ripetutamente verso la riva artificiale, annusando l’acqua, bagnandosi il muso, per poi scappare spaventato tra le gambe del padrone.
Arrivò quella notte, l’ultima. Insalata e pomodori si lasciavano guardare in trasparenza e del melo emergevano solo le foglie più alte.
Armando, così si chiamava il padrone di casa, non prese sonno. Si sentiva su una barca alla deriva, in un mare in tempesta. Anche i rumori della notte erano differenti: grilli e cicale non cantavano più.
Il mattino seguente voci insistenti chiamavano:
“Armando, Armando, vieni fuori”.
Lui si alzò, mise in ordine le poche cose, guardandosi attorno. Un fiotto d’acqua entrò dalla base della porta, e si allargò a ventaglio. Aprì l’uscio e tante mani lo aiutarono a camminare.
“Lasciatemi stare”, disse strattonandosi, “Voglio guardare”.
L’orto non c’era più e nemmeno il melo. Rimaneva solo la casa, ormai soffocata dalle spire dell’acqua.
Armando non portò via nulla. Tutte le sue cose rimasero laggiù, con l’orto e il melo. I vecchi del paese lo ricordano ancora seduto su una scranna a guardare l’acqua.
Di fianco, il suo cane.
Un appuntamento con la vita
Giorgio guardò l’amica negli occhi. Entrambi erano tristi.
“Hanno portato via solo un sasso”, disse. “Magari è nell’acqua vicino a Molino Righetti”.
“Preferirei di no”, disse lei.
“Domani la compro io una panchina!”, ribadì Marco.
“La panchina siamo noi”, si sentì rispondere.
“Sì, ma dove c’incontriamo?”
“Gli appuntamenti ormai sono con la vita, anche per noi”, rispose la ragazza.
Giorgio e l’amica tornarono verso casa, scherzando come non facevano da bambini. Alle loro spalle rimanevano i ricordi di una vita: una panchina, un orto, un melo.
Luciano Marchi, note biografiche
Luciano Marchi è fotografo da sempre, almeno da quando si è accorto che lo strumento dell’immagine poteva contenere il frutto della propria fantasia. Autore, professionista, è iscritto all’Ordine dei Giornalisti per i meriti della propria arte. Sul paesaggio ha sviluppato un suo pensiero fotografico, poi fatto migrare nel racconto di una prossimità plausibile. Lì Luciano delega “all’Io narrante” emozioni, suggestioni, significati.
Sempre disposto al confronto, Marchi ha incontrato diversi fotografi, allargando il proprio sguardo su molta della fotografia italiana che lavora. Per queste ragioni è stato chiamato a esporre in numerose collettive, presso il PhotoShow di Milano e Roma e durante Fotografica 2011, eventi durante i quali ha svolto anche il ruolo di relatore, presente anche allo Spazio Tadini di Milano con una collettiva a tema “Il Viaggio”, accomunate a quelle di Gianni Berengo Gardin. Ha all’attivo pubblicazioni di rilievo, accompagnate dalle parole di esponenti importanti della cultura e del giornalismo. Le sue immagini compaiono regolarmente sul quotidiano “Il Resto del Carlino”, per il quale opera da svariati anni.
Nel 2016 Sprea Editore l’ha scelto quale testimonial nella propria monografia dedicata al paesaggio. A giugno 2019 le sue immagini sono esposte a Milano in occasione del Photofestival 14th.
A fine 2019 l’ultimo lavoro con il volume fotografico “l’Appennino che non vedi”. Da allora si è concentrato sul suo lavoro, proponendo anche, a livello formativo, continui incontri in Accademia con i grandi della fotografia, tra cui Giovanni Gastel (estate 2020).
Nel 2021 ha pubblicato il suo 30° calendario, dedicato come i precedenti al territorio appenninico.
Le fotografie
Lago di Suviana, 2012. Ph. Luciano Marchi