AUGURI BERENGO
Mi sono chiesto più volte perché desidero scrivere un libro su Gianni Berengo Gardin. Non ne ho ancora concepito il soggetto, e nemmeno la trama o le circostanze; eppure il bisogno bussa forte, incessante. Per un po’ di giorni ho smesso di guardare le sue fotografie, pensando viceversa al tempo insieme, agli episodi, all’accaduto. Mi sono accorto così che il solo riflettere su di lui apriva la mia visuale. La fotografia? Un pretesto, o quasi. L’umanità di Berengo accompagnava i miei sguardi, abituati troppo spesso a cogliere solo la superficie. Persone, storie, idee, sentimenti, assumevano un ordine preciso, chiaro, logico. Emergeva quindi il privilegio nell’averlo conosciuto: comprendere cosa dire e come farlo, anche per immagini. Di mezzo c’era anche la verità, non unicamente fotografica (che forse non esiste), ma un’altra: quella delle azioni portate avanti con cura, sul serio; una sorta di genuinità della vita.
Non capiremo mai la forza di Gianni Berengo Gardin, anche perché troppo spesso ci siamo fatti ingannare dall’umiltà che gli appartiene. Oltretutto il suo gesto fotografico (ma anche il pensiero) parte prima dello scatto, attingendo da una vita condotta con rigorosa semplicità, all’interno della quale lui cerca, scruta, interroga, esaltando così una curiosità antica e sofisticata.
E’ un narratore, Berengo; e il fatto che usi la fotocamera risulta quasi occasionale. Lui ha la capacità di avvicinarci all’esistenza che diviene, mostrandocela dal suo punto di vista.
E il libro allora? Arriverà, rappresentando un desiderio che si avvera, nulla più. Spiegare il fotografo sarebbe troppo difficile, e pure riduttivo. Ci sarà tempo per fingersi critici: molto meglio riconoscere il privilegio nell’averlo conosciuto, o anche di avere vissuto la sua era. Cercherò di raccontare il tempo con lui, gli istanti; magari dipanando quei viaggi che ci hanno accomunato, anche dentro le fotografie.
Sarà un regalo, che speriamo Berengo voglia apprezzare.
Auguri
La mansarda del maestro
«Stai attento alla testa», Berengo lo dice sempre quando saliamo le scale della sua mansarda. Prima c’è stato l’ascensore, antico, di ferro e legno; e anche quell’abbaiare di Nina, fino all’aprirsi della porta d’ingresso. Dopo, ci accoglie la gentilezza di sempre, quasi d’altri tempi.
«Come stai?», ce l’ha già chiesto; così cerchiamo d’impegnare con le parole quelle poche scale che ci portano su, nell’ufficio del maestro.
Tutte le volte che entriamo in quella mansarda siamo impreparati, forse perché il più delle volte avevamo qualcosa da chiedere: una firma, un libro, quell’evento, la sua presenza. Le risposte sono sempre state logiche e misurate, e per questo non è mai mancato il coraggio per rivolgersi a lui, una volta di più.
Berengo, dal canto suo, è sempre pronto, con tutto. Quel libro che vuole darci è già sul tavolo della corrispondenza, e lo riconosciamo. Con un po’ d’emozione, ricordo quando lo visitai subito dopo aver perso il lavoro. Al maestro bastò prendere un biglietto, compilato con cura e da lui riletto con attenzione. Sopra vi erano i nomi di coloro che avrebbero potuto darmi almeno dei consigli in fotografia.
Dalla prima volta, però, quella mansarda è diventata un orizzonte per la mia esistenza, un luogo nel quale riconoscersi, scoprendo sempre qualcosa di nuovo. Del resto, non sono mai riuscito a vedere tutto, a iniziare da quella biblioteca infinita che si perde nell’ombra; o le piccole imbarcazioni, costruite dal maestro e disposte con ordine in ogni dove. Ci sono i giocattoli antichi, i ricordi dei viaggi, persino quei trenini che hanno sempre mosso la sua passione. Ovunque regna la precisione, naturale però: spontanea, caratteriale. Lui è così.
Penso a quando potrò sedermi ancora sulla seggiola di quella mansarda, provo a immaginarlo perché ne sento il bisogno. Berengo non mi ha mai concesso tanto tempo nel suo studio, al massimo un’ora. Abbiamo parlato più a lungo in auto, durante i nostri spostamenti; eppure, lassù ho iniziato a comprendere la lentezza: non il comportamento stanco, e nemmeno la pigrizia; ma il giusto tempo da dedicare ai gesti e alle idee. L’incedere di Berengo non si ferma, procede altresì negli interstizi, tra le fessure, negli angoli di ciò che vuole raccontare. Che sia un discorso o un’immagine, lui riesce a comporre realtà complesse senza scosse né indecisioni. Tutto diventa chiaro, esplicito ma interpretabile, logico alla comprensione. Per farlo riflettere, occorre interrogarlo, particolarmente sulle sue fotografie. In quel caso, volge lo sguardo altrove, pensa, respira profondamente, e inizia a raccontare di quell’immagine oggi, adesso, per noi, nel momento in cui stiamo parlando. Lì sta la sua forza, aver composto con gli scatti racconti da rileggere: domani, tra un anno, sempre. Le sue fotografie, singolarmente, riescono a sfogliarsi come in un grande calendario a strappo, dove non è il tempo a dettare le regole, ma il senso, il significato, lo stato d’animo di chi guarda.
Quella mansarda mi ha fatto vivere istanti di grande intensità. Ricordo tutte le volte che Berengo mi ha consegnato le fotografie di una mostra. Al mio arrivo, il pacco era già pronto, imballato con cura. C’era poi la bolla da firmare, di quelle che generano una copia con la carta carbone. Da lì in poi, avrei dovuto ascoltare tutte le raccomandazioni: «Per fissare le stampe non usate il biadesivo, ma gli angolari; ne ho messo un esempio nel pacco».
«Me le fai vedere?», ho sempre chiesto. Allora lui apriva il pacco con cura, senza danneggiare l’adesivo che lo teneva chiuso. Era bello vedere il maestro intento a far scorrere le sue immagini. Consideravo la cosa come un privilegio, perché lui, prima di cambiare foto, aspettava un mio cenno. Io tentavo sempre di commentare, senza pensare che forse il silenzio avrebbe rappresentato la scelta migliore. Dal canto suo, Berengo alle volte annuiva, con un piccolo cenno di assenso. La sua lentezza non ha mai previsto l’orgoglio estremo, neanche in pubblico. L’orgoglio e la vanità non appartengono al maestro. Per quanto ne esistano le premesse, queste finiscono per consumarsi nell’impegno, tra le attenzioni di un lavoro condotto con cura, nella precisione delle cose. Una fotografia di Berengo non esplode in un goal, tantomeno rappresenta un furto della realtà; in essa si racchiude una storia, con anche il “prima” e il “dopo”. Lo sforzo per produrla è tale che a lui non rimane il tempo (né il modo) per esserne orgoglioso.
Quella mansarda ha visto nascere una mostra (la nostra), e il libro che la rappresentava. Andai a casa di Berengo che era primavera. Lo ricordo perché i primi tepori scoprivano gli odori delle travi del tetto. Ero con Massimo, quella volta, e portavo con me tutti i libri che riguardassero la ferrovia del mio paese. Per una volta ero pronto, come lui. Sciorinavo date, personaggi, eventi, leggende, meraviglie, episodi. Lui, Berengo, mi ascoltava con curiosità, sfogliando i volumi con la delicatezza di sempre.
«Va bene», disse. «Ad agosto vengo».
Ne fui sorpreso, non meravigliato. Ero solo convinto di dover lottare di più. Massimo ha sempre imputato quel successo alla capacità persuasiva del progetto e al modo col quale l’avevo esposto. Io ero convinto del contrario. Ancora oggi, con un pizzico d’orgoglio, penso che Berengo abbia deciso con generosità e spero per amicizia. Preferirei così.
Scendo le scale con attenzione. Berengo è davanti a me. Nina non abbaia più e accetta qualche carezza. Sulla porta appare Caterina, la moglie del maestro, e mi mostra un sorriso dolce e deciso, di donna forte. In quegli istanti ci scambiamo dei saluti ripetuti. Qualcosa mi trattiene, ma devo andare. Purtroppo.
Usai l’ascensore, quella volta, non le scale. Apro le porte lentamente. Ho imparato la lezione: c’è tempo, anche per andarsene. Arrivato in fondo, guardo la ringhiera, i battenti d’ottone. Sento gli ultimi gradini sotto i piedi e volto lo sguardo verso l’alto. Vedo un triangolo naturale, con la luce che dipinge di bianco e oro. Al piano terra, mi fermo ancora. Penso: “Sono più ricco”; e non ho bisogno di convincermi. Fuori mi aspetta la Milano di sempre: non da bere, ma per aspettare.
Le fotografie
Gianni Berengo Gardin, 2009
Gianni Berengo Gardin, Gran Bretagna 1977