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LA TRANSAPPENNINICA

Con l’inaugurazione dell’ultimo tratto, quello tra Pracchia-Pistoia, il 3 novembre 1864 veniva inaugurata da Vittorio Emanuele II la ferrovia Porrettana, che da Bologna portava a Pistoia, valicando l’Appennino. Nord e sud d’Italia erano finalmente uniti, prima collegati solo dalle diligenze.
Lo confessiamo: siamo di parte, perché amiamo quei binari. Li abbiamo percorsi tante volte a piedi, sfidando anche le gallerie (tante), ammirando i miracoli dell’ingegnosità proto-industriale.

I lavori della Transappenninica iniziarono prima dell’unità d’Italia. L’Austria vedeva la nuova strada ferrata come uno strumento strategico-militare di collegamento fra la fortezza di Mantova e il porto di Livorno. Trai vari progetti, gli austriaci preferirono quello passante da Pistoia, in quanto più lontana da Firenze, vista a quell’epoca come centro di pericolose rivolte. La costruzione della linea - già indicata come “Strada Ferrata dell’Appennino Centrale”, e prima “Via Leopolda Pistoiese”, venne affidata nel 1856 a una grande impresa francese.

Oggi la Transappenninica è un po’ dimenticata. Vogliono chiuderla, almeno dicono: tra Porretta Terme e Pistoia. Quella ferrovia è ormai un “ramo secco”, termine vetusto per definire un esercizio antieconomico, pertanto da eliminare. Siamo quindi alle solite: rottamare per sopravvivere; dimenticando, è il caso di dirlo, storia, tradizioni, braccia, vite umane, speranze, amori. Sì perché la Porrettana il suo dovere l’aveva fatto, collegando un’Italia ancora non fatta: tra sud e nord; con i primi progetti iniziati a metà ‘800, quando ancora esistevano lo Stato Pontificio, il Granducato di Toscana, l’Impero Austro – Ungarico e i ducati dell’Emilia.
Una cosa è certa: quei binari meritano una visita, turistica e fotografica. Siamo in una delle valli più belle d’Europa (così dice il Touring) dove la storia ha lasciato un segno indelebile.

La Transappenninica, piccola riflessione

C’è una sola Transappenninica. Le altre due ferrovie, nate dopo e per lo stesso scopo, vengono chiamate diversamente: Direttissima, la prima; variante (o casa altro?) la seconda. Non è solo una questione tecnologica, perché le nomenclature rispettano i fatti e le energie coinvolte: ancor di più i voleri. Spesso ci diciamo che è venuta meno la magia, ma non è quella che vive di sola nostalgia, bensì un’altra: coerente con le genti ed i luoghi.
La Transappenninica (l’unica, dicevamo) non ha rappresentato un semplice “foro”, ma una congiunzione complessa e preziosa tra sud e nord: la prima. Noi oggi ne ammiriamo l’architettura industriale, ma ai lati della ferrovia nasceva una costruzione più articolata, che ha coinvolto paesi, persone, strade, attività, famiglie: il tutto nel ribollire del risorgimento.

A noi piace pensare che il ferro, la macchina, le pietre, le mani, abbiamo costruito un’opera progettata (e bene, diremmo) sulla carta, ma anche nel cuore collettivo. Siamo anche convinti che chi gli ha vissuto vicino ha deciso (inconsciamente o no) di donare ai binari, e al loro mondo, parte della propria esistenza. Come dire, la Porrettana non ha rappresentato una costruzione di comodo, forse neanche la più economica o funzionale: ha semplicemente posto in essere quanto ci voleva perché, con garbo, si mescolassero lingue, costumi, usanze e, per finire, vite e amori.

La Transappenninica, la nascita, il declino

La Transappenninica è una tipica ferrovia dell’800, che col tempo ha dovuto far fronte a un traffico in aumento. Nasce, sul versante toscano, senza stazioni. Queste prenderanno vita col tempo: quando gli incroci tra treni diventeranno inevitabili per un tracciato a binario singolo. Il primo ostacolo per il progettista fu quello della pendenza. Dai 54 mt. sul livello del mare di Pistoia bisognava raggiungere i 615 mt. di Pracchia (punto più alto), in pochi chilometri. Protche (a lui si deve il progetto) optò per un percorso a convolute, con gallerie in curva a disegno elicoidale che vincevano dislivelli del 27 per mille. C’era il vapore, all’epoca; e le leggende narrano come i macchinisti svenissero in galleria, soccorsi dal personale delle stazioni che saliva al volo su locomotive senza controllo.

Col tempo, dicevamo, nascevano le stazioni: in entrambi i versanti; e con esse i paesi limitrofi (inesistenti prima della ferrovia). Servivano a far incrociare treni opposti per senso di marcia, ma anche a rifornire le locomotive di acqua (indispensabile nel periodo del vapore). Chi volesse visitare una di quelle stazioni oggi potrebbe immaginare qual era la vita di allora. C’era il binario di lanciamento (una locomotiva a vapore non parte in pendenza) e quello di salvamento (dove indirizzare i convogli nel caso di avaria ai freni), per un lavoro prezioso e faticoso al tempo stesso. La stazione di Corbezzi possiede ancora oggi sei gallerie: due di transito, tre di ricovero, una col binario di salvamento. Al tempo il personale era ridondante, perché i treni viaggiavano con l’aiuto delle braccia di molti.

Se però nel novembre del 1864 (data di ultimazione dell’intera tratta Bologna Pistoia) si andava a vapore, negli anni successivi arrivò la trazione elettrica, la cui energia veniva prodotta dalla diga di Pavana (1925). Iniziò un periodo di rinnovato splendore per la tratta, che portò lavoro e turismo alle zone limitrofe. Pracchia divenne una ridente località di villeggiatura, un po’ come tutti i paesi toccati dalla ferrovia, compresa quella Porretta già famosa per le terme. Al tempo il ristorante della stazione contava 90 camerieri che si davano il cambio nelle 24 ore.

Il declino iniziò con la direttissima Bologna Firenze. Resta però il valore di un’opera costruita a Km zero (i laterizi venivano sottratti a cave locali), quando ancora si deviavano i corsi dei torrenti per non turbare gli equilibri naturali. Anche un visitatore distratto non può rimanere indifferente di fronte ad un percorso ardito, fatto di viadotti, gallerie, pozzi di ventilazione, sbancamenti, muraglioni: tutti rilievi proto-industriali da non dimenticare, solo per comprendere.

Il fotografo Gianni Berengo Gardin

Gianni Berengo Gardin inizia a occuparsi di fotografia nel 1954. Nel 1965 lavora per Il Mondo di Mario Pannunzio. Negli anni a venire collabora con le maggiori testate nazionali e internazionali come Domus, Epoca, Le Figaro, L’Espresso, Time, Stern. Procter & Gamble e Olivetti più volte hanno usato le sue foto per promuovere la loro immagine. Berengo Gardin ha esposto le sue foto in centinaia di mostre in diverse parti del mondo: il Museum of Modern Art di New York, la George Eastman House di Rochester, la Biblioteca Nazionale di Parigi, gli Incontri Internazionali di Arles, il Mois de la Photo di Parigi. Nel 1991 una sua importante retrospettiva è stata ospitata dal Museo dell’Elysée a Losanna e nel 1994 le sue foto sono state incluse nella mostra dedicata all’Arte Italiana al Guggenheim Museum di New York. Ad Arles, durante gli Incontri Internazionali di Fotografia, ha ricevuto l’Oskar Barnack - Camera Group Award. Nel 2008 Gianni Berengo Gardin è stato premiato con un Lucie Award alla carriera. Lunedì 11 Maggio 2009 l’Università degli Studi di Milano gli ha conferito la Laurea Honoris Causa in Storia e Critica dell’Arte. Erano cinquant’anni che la Statale non conferiva un tale riconoscimento. L’ultimo era stato Eugenio Montale.

Ha pubblicato oltre 250 libri fotografici.

Le fotografie

Segni del tempo
Una fermata sui monti. Ph. Gianni Berengo Gardin

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