LA GUERRA È FINITA
Era l’11 novembre del 1918, ore 11 del mattino. Su un vagone ferroviario, la Germania pose definitivamente fine alla prima grande guerra che coinvolse tutto il mondo firmando l’armistizio di Compiègne. Scoppiato il 28 luglio del 1914, fu il primo conflitto a coinvolgere i paesi extra-europei. Causò in poco più di quattro anni 16 milioni di perdite tra soldati e civili. Tra le condizioni della firma di Compiègne, i punti più salienti erano costituiti da: fine delle ostilità entro sei ore; ritiro dai territori occupati entro due settimane; cessione di tutte le navi da guerra e di gran parte dell’ armamentario; consegna di 5.000 locomotive e 150.000 vagoni ferroviari a titolo di risarcimento: condizioni durissime.
Per l’Italia la guerra era iniziata il 24 maggio 1915. Dopo aver rotto la Triplice Alleanza, l’Italia entra in guerra contro l’Austria, occupando una linea di fronte il più delle volte costituita da montagne. Lassù, gli austriaci presidiavano le vette più alte, a scapito dei nostri soldati, impegnati troppo spesso nel tentativo di sfondare una fortificazione prima naturale, poi militare.
La guerra, per due anni, divenne “di posizione”, almeno fino alla pagina tragica di Caporetto, quando i tedeschi, provenienti dal fronte russo, ruppero tutte le linee e costrinsero le truppe italiche a ritrovare se stesse sulle rive del Piave.
Chi si trovi a passare sul passo Falzarego, potrà immaginare, davanti a sé, la vetta del Lagazuoi difesa dagli austriaci. A metà costone, gli italiani, guidati dal tenente Martini, occuparono la cengia che porta il suo nome; all’interno della stessa aprirono una camera di scoppio per far brillare la vetta. Altrettanto accadde poco più a est, sul Col di Lana, appena di fianco al Sass di Stria.
Era la guerra, quella guerra; più volte sentita narrare dal nonno di chi scrive, un ragazzo del ’99, Cavaliere di Vittorio Veneto. Raccontava: «In trincea, la notte, fumavamo con la brace in bocca, per non essere visti dai cecchini». Combatteva e aveva diciassette anni.
Tanto si potrebbe scrivere su quella tragedia del 1915-1918. Non vogliamo cadere nella retorica, non servirebbe. Ci viene in mente il libro: “Niente di nuovo sul fronte occidentale” (1929), un romanzo autobiografico dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque, incentrato sull’esperienza in trincea di un giovane soldato durante la Prima Guerra Mondiale. Nella trama Paul, il protagonista, vede morire “Kat”, un amico, il suo modello di riferimento. Da quel momento, perderà ogni desiderio di vivere; risultandogli del tutto indifferente morire sul campo di battaglia o sopravvivere alle ostilità. Poco prima della fine della guerra nell’autunno del 1918, Paul è ucciso da una granata nel giorno in cui, come recita il bollettino di guerra, non c’è “niente di nuovo sul fronte occidentale”. Era la guerra, quella guerra.
E’ difficile scegliere delle fotografie d’autore circa il primo conflitto mondiale. Le immagini sono tante, ma non portano una firma. Siamo agli inizi del Novecento, quando nascono le prime pellicole e pure le prime fotocamere portatili. La guerra di Fenton era stata “statica” dal punto di vista fotografico. Il nuovo conflitto europeo inaugura la fotografia “in movimento” consentita dalle fotocamere più maneggevoli e dai più rapidi tempi di esposizione. Il fotografo si muove al seguito degli eserciti. Purtroppo, nella maggioranza dei casi, manca un nome. Era la guerra, quella guerra.
Per fortuna ci viene in aiuto André Kertész.
Il fotografo André Kertész, note biografiche
Non è facile parlare di Kertész, anche perché ci si rende conto di affrontare un genio delle cose semplici. Lui non si è mai occupato di grandi temi: né politici, tantomeno sociali; eppure viene riconosciuto universalmente come un maestro del novecento.
Lo stesso successo lui l’ha raggiunto in maniera discontinua, particolarmente nel periodo americano, probabilmente perché le sue immagini lo proponevano come innovatore o forse per il fatto che ogni sua fotografia raccontava troppo (come gli dissero in LIFE).
Considerato da Henry Cartier-Bresson come il padre della fotografia contemporanea e da Brassai il proprio maestro, Kertész ha dimostrato come qualsiasi aspetto del mondo, dal più banale al più importante, meriti di essere fotografato. I costanti mutamenti di stile, temi e linguaggio, se da un lato ci impediscono di collocare il lavoro del fotografo ungherese in un ambito preciso, dall’altro ne dimostrano la versatilità e l’incessante ricerca comunicativa.
André Kertész nasce a Budapest nel 1894, il 2 luglio, e già da bambino sognava di fare il fotografo. La famiglia di provenienza apparteneva alla media borghesia ebraica.
Nel 1912 si diploma all'Accademia commerciale di Budapest e compera la sua prima fotocamera, una ICA 4.5x6. Partecipa alla prima guerra mondiale come volontario e venne ferito alla mano. Anche durante il conflitto scatta fotografie, senza però interpretarne i momenti più cruenti.
Trascorse la sua convalescenza prima a Budapest poi a Esztergom. Continua a fotografare e tra i suoi soggetti preferiti compaiono spesso il fratello e la madre. Nel 1919 conobbe Erzsébet Salamon, che diverrà poi sua moglie.
Finita la guerra è impiegato alla borsa, nel 1925 decide di trasferirsi a Parigi. E’ un drappello di nomi quello che emigra tra Berlino e Parigi: László Moholy-Nagy, Robert Capa, Germaine Krull e Brassaï.
Per lui la fotografia è un diario visivo, strumento per descrivere la vita: le strade della metropoli, parchi, tetti, la riva della Senna.
Nel ’27 alla Galerie Au Sacre du Printemps espone la sua prima mostra e nel ‘29 è alla mostra internazionale “Film und Foto” a Stoccarda e a Berlino.
Dal ‘28 Kertész lavora con una Leica. VU gli pubblica più di 30 importanti saggi fotografici. Nel ‘33 presenta “Distorsioni”, nudi femminili in specchi deformanti e in questo anno l’agenzia Keystone lo chiama a New York, dove si trasferisce. Anni economicamente difficili, quelli in USA. Dal ‘49 al 1962 Kertész lavora per la rivista House and Garden. Durante il suo viaggio a Parigi nel 1963 riscopre gran parte dei suoi negativi, che lo ispirano a nuove attività artistiche che gli ottengono un riconoscimento internazionale.
Nel 1964 presenta le sue opere al Museum of Modern Art di New York: si sprecano gli elogi. Da quel momento Londra, Parigi, Stoccolma, Melbourne, Tokyo, Buenos Aires, Venezia ospiteranno i suoi lavori. Il famoso “On Reading” è pubblicato nel 1971 e Steve MC Curry gli rende omaggio col suo libro “Leggere”. Nel 1977 muore Elisabeth, l’adorata moglie, la sua più grande sostenitrice.
Fotografa dalla finestra del suo appartamento in Washington Square, quando non è più in grado di uscire di casa. Nel libro From my Window (1981) pubblica anche Polaroid di nature morte scattate tra le quattro mura del suo appartamento, confermandolo nuovamente maestro della luce che opera con i mezzi più semplici.
André Kertész muore il 28 settembre 1985, lasciando un archivio di 100.000 negativi.
André Kertész può essere considerato un uomo del ‘900, anche se nasce nel secolo precedente. La sua fotografia non si occupa di grandi temi, ma di frammenti di realtà; e si sviluppa in un’esistenza di alti e bassi, illusioni e disillusioni: vicende che esaltano, per poi demoralizzare, spesso però con un lieto fine.
Ciò può dirsi anche per la sua vita sentimentale. Conosce Erzsébet Salamon nel 1919, la donna che diventerà importante nella sua vita; ma non è ancora il tempo, il momento giusto. Arriva il 1925: André lascia l’Ungheria per Parigi dove diventa fotografo professionista. Nella capitale francese conosce Cartier Bresson, Berenice Abbott e tante altre personalità. Incontrerà anche Brassaï e diventerà il suo mentore, avvicinandolo alla fotografia. Gli presterà anche una fotocamera, insegnandogli i primi rudimenti e le tecniche per la ripresa notturna. Nel primo periodo perigino, mantenne il contatto con Erzsébet, rimasta in Ungheria, attraverso un fitto carteggio, poi, sempre più immerso nel suo lavoro, smette di scriverle. Il 2 ottobre 1928 sposò Rószi Klein. La coppia si separerà due anni dopo e il loro rapporto si concluderà con il divorzio nel 1932. Durante un viaggio in Ungheria, Kertész scoprì che Erzsébet non aveva interrotto la corrispondenza, ma che Rószi aveva intercettato e nascosto le lettere. Si riavvicinarono e nel 1931 Erzsébet lo raggiunse a Parigi, e i due si sposarono infine nel 1933. Una storia a lieto fine.
A Parigi André Kertész conobbe il successo. La sua fama valica l’oceano, così decide di accettare l'offerta di Erney Prince dell'agenzia Keystone, trasferendosi insieme alla moglie Erzsébet a New York, nell'ottobre del 1936. All'epoca voleva rimanere solo per un anno di contratto, ma poi prolungò la permanenza fino al termine dei suoi giorni. Il lavoro alla Keystone durò solo un anno, poi tornò a essere un fotografo freelance. Le sue immagini non erano ben accette nel panorama fotogiornalistico statunitense, il quale richiedeva uno stile più rigoroso e prettamente didascalico. Il gusto degli americani era diverso. Eugene Smith pubblicava delle storie lunghe dieci fotografie. Proponendo il suo lavoro alla rivista LIFE, Kertész ottenne come risposta che "le sue immagini dicono troppo".
Un tale rifiuto iniziò a preoccupare il fotografo. Lavora professionalmente e ricerca anche, ma si disillude. Durante la seconda guerra mondiale viene trattato come un nemico: gli fu anche impedito di fotografare in esterni. Sarà una grande mostra al MoMA a riavvicinare Kertész al pubblico statunitense. Un’altra storia a lieto fine.Alti e bassi, dicevamo; illusioni e disillusioni: la vita di Kertész è stata un po’ questa. Il suo atteggiamento però dimostra tanta sensibilità, che poi ha trasferito nelle fotografie. La moglie lo ha aiutato molto, avendolo capito sin dal primo incontro.
Kertész ci lascia immagini che prediligono gli attimi, le emozioni passeggere. Foto che vivono nel ricordo e che evocano ricordi: il profilo dei comignoli sullo sfondo del cielo, il gioco dell’ombra di una forchetta in un piatto. Attimi e ricordi, dicevamo: forse la materia prima della fotografia; emozioni che fuggono e ritornano proprio per merito delle immagini. Le stesse che hanno il merito di farci ridere, piangere, meravigliare.
Le fotografie
Fotografia scattata dal capitano medico Vaifro Agnoli nei pressi del Soglio dell'Incudine (Pasubio).
Andre Kertesz, prima guerra mondiale: soldati che vanno a casa in treno.