BOMBARDANO MONTECASSINO
15 febbraio 1944. Seconda guerra mondiale: inizia l'assalto degli Alleati all'Abbazia di Montecassino. I bombardamenti si protrassero fino al 18 dello stesso mese: gli Alleati, sospettando erroneamente la presenza di reparti tedeschi, attaccarono l’Abbazia con 142 bombardieri pesanti e 114 bombardieri medi, radendola al suolo.
In quel momento storico, gli italiani si trovavano in una posizione difficile. A settembre ’43 era stato firmato l’armistizio, ma l’Italia era ancora l’epicentro della guerra poiché le truppe tedesche continuavano a combattere quelle Alleate.
Montecassino si trovava in una posizione strategica per sfondare le linee difensive tedesche, procedere per Roma e avvicinare la fine alla guerra. Vi erano però molti dubbi in merito a chi con esattezza occupasse l’abbazia. Alcuni ritenevano fosse occupata da milizie tedesche che usavano l’Abbazia come postazione di avvistamento e di artiglieria mentre altri asserivano con insistenza che fosse soltanto un rifugio per i monaci e non delle truppe tedesche. In molti poi insistevano sul fatto che, anche se forze nemiche non avessero già occupato il luogo religioso, era inevitabile che alla fine l’avrebbero fatto, per via della sua posizione.
Di certo alcuni civili erano fuggiti a Montecassino, nella speranza che non sarebbe stata toccata durante la guerra.
Il 15 febbraio 1944 gli Alleati portarono a termine il bombardamento che uccise centinaia di civili italiani. Non furono trovati soldati tedeschi tra i caduti per il bombardamento e le forze tedesche utilizzarono immediatamente le rovine come protezione, per cercare di impedire agli alleati la risalita verso Roma. Il monastero fu infine preso il 18 Maggio dai soldati polacchi, dopo molti mesi di violento conflitto e una perdita immensa di vite umane. Subito dopo le forze alleate presero Roma, il 4 giugno.
Il fotografo Robert Capa nel gennaio del ’44 si trova a Radicosa, nelle vicinanze di Cassino. Lì si relaziona anche gli abitanti del luogo, raccontando la guerra da par suo, senza porre l’accento sulla violenza e il sangue. Il suo obiettivo inquadra i civili, l’umanità che comunque traspare pur durante un evento tragico quale la guerra.
Per raccontare Montecassino, quello della guerra, ci siamo rivolti anche a un fotografo italiano: Federico Patellani. Nella sua immagine, i civili sfollati stanno tornando nella zona di Cassino.
Il fotografo Federico Patellani, note di vita
Federico Patellani è stata una personalità di spicco del nostro fotogiornalismo. Lui nasce a Monza il 1° dicembre 1911; frequenta i circoli culturali milanesi, forte degli studi classici e di una laurea in legge. Inizia a fotografare nel 1935, durante le operazioni militari in Africa (era ufficiale del genio). Le sue immagini verranno pubblicate da un quotidiano milanese e da quel momento Patellani farà della fotografia la propria professione. Collaborerà a lungo col periodico “Tempo” di Alberto Mondadori, per il quale, nel 1940, documenterà le operazioni militari in Jugoslavia. Nel 1941, come richiamato, fotograferà la campagna di Russia, nel 1943 la Milano bombardata.
Nel 1946, Patellani torna al Tempo; collaborerà poi con le testate “Epoca” e “Oggi”. Le sue immagini raccontano l’Italia del dopoguerra: il boom economico, le industrie, i mutamenti sociali. A rileggerle, si riconosce l’entusiasmo intellettuale dell’autore, quello che ripesca di continuo nella sua Milano, ombelico dei cambiamenti e patria dell’editoria nascente. Rivolgerà il suo sguardo anche all’estero, soprattutto dopo aver fondato una propria agenzia.
Nel 1953 è aiuto regista di Alberto Lattuada per il film “La Lupa”, mentre nel 1959, su “Epoca”, pubblica una serie di servizi dal titolo Paradiso Nero realizzati, con l’aiuto del figlio Aldo, durante un lungo viaggio dal Congo Belga al Kenya. A partire dallo stesso anno Patellani collabora con vari periodici come “La Domenica del Corriere”, “Successo”, “Storia Illustrata”, “Atlante”, producendo numerosi servizi in tutto il mondo.
Intelligenza e passione, queste sono le impronte riconoscibili nelle fotografie di Patellani. Per ogni immagine, quasi stacca una reliquia di realtà, restituendoci una complessità semplice, popolata di personaggi riconoscibili, fortemente caratterizzati, quasi filmici. A lui va il merito di aver guardato altrove, in altre discipline e anche oltre confine, all’estero; questo senza rimanere confinato nel bianco e nero dolciastro dell’Italia migliore.
L’ultimo reportage è datato 1976 e riguarda il Ceylon.
Patellani morirà a Milano nel 1977.
Il fotografo Robert Capa, poche note di vita
Robert Capa, pseudonimo di Endre Friedmann, nasce a Budapest 22 ottobre 1913. Inizia la sua carriera di fotoreporter in un’agenzia fotografica di Berlino. Dopo l’ascesa al potere di Hitler, si trasferisce a Parigi dove inizia la sua attività di foto-giornalista freelance. Viaggia e fotografa in Spagna, Cina, Nord Africa. In Italia, segue la liberazione del Paese da parte degli Alleati in Sicilia, a Napoli e ad Anzio. Nel dopoguerra, Capa diventa presidente dell’agenzia fotografica Magnum. Nel 1954, parte per il Giappone e poi per il Vietnam come inviato di Life. Ed è in Vietnam che muore saltando su una mina anti-uomo, 25 maggio 1954. In suo onore viene istituito il premio annuale Robert Capa e l’International Center for Photography a New York.
In questa sede, ci permettiamo di suggerire un libro scritto dallo stesso Capa: “Leggermente Fuori Fuoco” (ed. Contrasto). Si tratta di un diario circa la partecipazione di Robert, come fotoreporter di guerra, alla Seconda guerra mondiale. Con uno stile accattivante e ironico, Capa ci racconta delle sue peripezie di viaggio, gli incontri fatti, l'atmosfera di quegli anni cruciali: l'Europa, l'Africa, la campagna d'Italia a fianco degli alleati, lo sbarco in Normandia, la liberazione della Francia. Si tratta di un diario particolare, ricco di colpi di scena, di storie d'amore, di personaggi intensi, di esperienze forti e drammatiche. Ne esce la vera figura del fotografo, amante della vita e dell’amore.
Robert Capa privato
Possiamo permetterci, ogni tanto, di indagare nel privato dei fotografi. Robert Capa, il fotografo e cineasta, visse degli amori intensi e importanti, degni della vita avventurosa che conduceva. Di Gerda Taro abbiamo parlato più volte, ma Capa aveva il fascino dell’attore, amava la bella vita, era bello e simpatico.
Nel 1945, a giugno, incontra Ingrid Bergman. Basta uno sguardo e tra i due esplode l’amore. Entrambi soggiornano la Ritz di Parigi e sembra che il fotografo abbia invitato l’attrice per un aperitivo con un biglietto fatto scivolare sotto la porta. Ricordiamo che lei era sposata. Tra l’altro aveva una figlia di sei anni.
Nel 1946, quando la Bergman recitava nel film Notorius, Robert si fa accreditare sul set come inviato di Life. Scatterà molte foto di scena. Il tutto si ripete con Arco di Trionfo, un’altra pellicola che vede coinvolta l’attrice svedese.
La storia d’amore però finisce e il fotografo fugge in Turchia per girare un documentario. Tornerà a Parigi, dove fonderà la Magnum, e partirà per l’Unione Sovietica assieme all’amico John Steinbeck (bello il libro che narra del loro viaggio).
Nel 1948 Capa arriverà anche in Italia, come fotografo sul set di “Riso Amaro”. Lì avrà una love story con Doris Dowling, un’attrice che recitava al fianco di Silvana Mangano.
Robert e Ingrid pare siano rimasti buoni amici. Lui, a fine storia, scrisse a lei una lettera accorata che recitava così: “Non andartene”. “Sono così poche le cose preziose nella vita. La vita in sé non è preziosa, ciò che conta sono i momenti spensierati”. “Ed è la tua spensieratezza che amo e non capita spesso di trovarla, nella vita di un uomo”.
Ingrid doveva essere realmente incantevole. Molti l’hanno giudicata più bella dal vero di quanto non apparisse sullo schermo.
Una curiosità. Alfred Hitchcock, per il suo film “La finestra sul cortile”, trasse ispirazione dalla relazione tra Ingrid Bergman e Robert Capa. Il film narra, in effetti, la vicenda di un fotografo di guerra, interpretato da James Stewart, costretto a casa dalle gambe rotte e dalle premure della sua donna (Grace Kelly). Anche lei avrebbe voluto che l’amato avesse preso le distanze dai reportage, un po’ come la bella Ingrid, che comunque non riuscì nell’intento.
Torniamo a Gerda Taro, perché ci piace pensare che lei abbia rappresentato l’amore per la vita. I due si incontrano nel 1935. Lei è intelligente, oltre che intraprendente; e cambierà il nome dell’amato: da Andre Friedmann a Robert Capa. Lui, da fotografo spiantato, ebreo, in cerca di fortuna, diventerà ricco e famoso. Al suo fianco avrà la bella Gerda, amante e consigliera. La loro è una delle storie più romantiche che il mondo della fotografia possa ricordare.
Le fotografie
I civili sfollati tornano a Cassino, 1945. Ph. Federico Patellani.
4 gennaio 1944, Radicosa. Un civile italiano funge da sherpa per le truppe alleate. Ph. Robert Capa.