E.T. L'EXTRA-TERRESTRE
11 giugno 1982, nelle sale statunitensi esce E.T. l'extra-terrestre. Cerchiamo di ricordarne la trama.
Un alieno viene lasciato sulla Terra. Vagando per un bosco giunge a una casa abitata da una donna con i suoi 3 figli, uno dei quali ne scoprirà la presenza e lo nasconderà in casa. Lui e i fratelli si coalizzeranno per difenderlo dagli adulti che lo cercano.
E.T. si colloca tra i capolavori che non perdono l’interesse neppure col trascorrere degli anni. Il film è fantascientifico, ma affronta il tema della diversità. Al primo incontro, il ragazzo ed E.T. si spaventano a vicenda, ma la paura si trasformerà in complicità, per una sopravvivenza comune.
La pellicola offre momenti di grande cinema, come l'incombere delle torce elettriche nella notte alla ricerca dell'alieno, dietro alle quali stanno ombre e non volti; e poi la fuga in bicicletta dei ragazzi che intendono salvare l’extraterrestre. A un certo punto inizieranno a volare, come forse avrebbero voluto gli spettatori. C'è poi quella mano dal lungo dito che sa come indicare il cielo per cercare la 'casa' alla quale telefonare, ma che sa anche illuminarsi per guarire o toccare qualcuno nel profondo dell’anima.
Il film esce all’inizio degli anni ’80, un periodo di pacato ottimismo. Milano era da bere, ai tempi; e Raf canterà: «Cosa resterà di questi Anni Ottanta? Chi la scatterà la fotografia?»; questo a confermare come si sia vissuto un lasso temporale particolare, fuggito via in un lampo, con Reagan e Gorbaciov che parlavano al mondo.
Il cinema era ancora un luogo di culto, anche perché i primi VHS registravano con avidità il presente, il ricordo televisivo, l’evento sportivo o l’appuntamento che non si poteva seguire in diretta. Che dire? Forse iniziava a sorgere una solitudine individuale, la stessa che si sarebbe rafforzata negli anni a venire. E poi crollava l’ideologia, che non trovava spazio in quella pubblicità che proponeva miracoli e meraviglia.
E.T. racconta, delicatamente, anche un conflitto generazionale: adulti contro giovani, la consuetudine contrapposta al nuovo, con l’extra-terreste a simbolizzare l’amicizia delle stelle. Alla fine tornerà a casa, l’alieno; e saranno lacrime, anche tra qualche spettatore.
Steven Spielberg e la storia
Il regista Steven Spielberg è un uomo affascinato dalla storia, particolarmente quella delle Seconda Guerra Mondiale, perché suo padre l’aveva combattuta.
Nato nel 1946 in Ohio, Spielberg è cresciuto nei sobborghi di Haddonfield, New Jersey, e Scottsdale, in Arizona. Ha iniziato a realizzare film amatoriali da adolescente e in seguito ha studiato cinema alla California State University, a Long Beach. Nel 1969, il suo cortometraggio di ventidue minuti Amblin fu proiettato all'Atlanta Film Festival, diventando così il regista più giovane che abbia mai firmato un contratto a lungo termine con un importante studio di Hollywood. I successivi crediti di Spielberg come regista poggiano sulla cultura popolare americana: Lo Squalo, Incontri ravvicinati del terzo tipo, I predatori dell'arca perduta, Il colore viola, Jurassic Park e Amistad.
Un accenno alla sensibilità storica di Spielberg è apparso nel 1987, con L'impero del sole, una storia di formazione ambientata sullo sfondo dell'occupazione della Cina da parte del Giappone. Con Schindler's List (1993), Spielberg ha raccontato la storia dell'Olocausto attraverso gli occhi di Oskar Schindler, un ricco industriale tedesco. Girato in puro bianco e nero, Schindler's List è valso a Spielberg il suo primo Oscar come miglior film e regista.
Cinque anni dopo Schindler's List, Spielberg tornò alla seconda guerra mondiale con la sua epopea sul campo di battaglia, Salvate il soldato Ryan (1998). Spielberg descrive il film come "una storia morale sulla domanda fondamentale: a quale scopo sacrificare i ragazzi per salvare la vita di un ragazzo simile". Invece di un’avventura hollywoodiana incruenta, il film si apre con un ritratto straziante dell’invasione del D-Day. La cruda rappresentazione dell'esperienza dei soldati nel film ha avuto risonanza tra i veterani della Seconda Guerra Mondiale, che finalmente si sono sentiti a proprio agio nel parlare del lato più oscuro della "buona guerra" e hanno suscitato l'interesse del pubblico per il conflitto. Spielberg ha portato a casa l'Oscar come miglior regista per il film.
Far interessare il pubblico al passato (e alla storia) è una sfida che Spielberg continua ad abbracciare.
A noi piace ricordare Spielberg con il film Duel (1971). Un tranquillo commesso viaggiatore sta compiendo il suo solito giro in macchina quando viene invitato al sorpasso da un grosso camion che lo precede. Inizierà lì un’allucinante sfida stradale, perché il misterioso autista dell’articolato ha intenzioni omicide nei suoi confronti. Dopo un interminabile duello, il protagonista riesce ad attirare l'avversario in un tranello e a liberarsene definitivamente. È un film di eccezionale suspense del grande Spielberg, che qui conferma la sua propensione per la fantasia.
Il fotografo, Richard Avedon
Richard Avedon (1923-2004) è nato e ha vissuto a New York City. Il suo interesse per la fotografia è iniziato in tenera età e si è unito al club fotografico della Young Men's Hebrew Association (YMHA) quando aveva dodici anni. Ha frequentato la DeWitt Clinton High School nel Bronx, dove ha co-curato la rivista letteraria della scuola, The Magpie, con James Baldwin. È stato nominato Poeta Laureato delle scuole superiori di New York nel 1941.
Avedon si è unito alle forze armate nel 1942 durante la seconda guerra mondiale, come fotografo nella marina mercantile degli Stati Uniti. Come ha descritto, “Il mio lavoro era scattare fotografie d’identità”. “Credo di aver fotografato centomila volti prima che mi venisse in mente che stavo diventando un fotografo".
Dopo due anni di servizio, ha lasciato la marina mercantile per lavorare come fotografo professionista, inizialmente creando immagini di moda e studiando con l'art director Alexey Brodovitch presso il Design Laboratory della New School for Social Research. All'età di ventidue anni, Avedon ha iniziato a lavorare come fotografo freelance, principalmente per Harper's Bazaar. Ha fotografato modelli e moda per le strade, nei locali notturni, al circo, sulla spiaggia e in altri luoghi non comuni, impiegando intraprendenza e inventiva che sono diventati i caratteri distintivi della sua arte. Sotto la guida di Brodovitch, è diventato rapidamente il fotografo principale di Harper's Bazaar.
Dall'inizio della sua carriera, Avedon ha realizzato ritratti per la pubblicazione sulle riviste Theatre Arts, Life, Look e Harper's Bazaar. Era affascinato dalla capacità della fotografia di suggerire la personalità ed evocare la vita dei suoi soggetti. Ha catturato pose, atteggiamenti, acconciature, vestiti e accessori come elementi vitali e rivelatori di un'immagine. Aveva piena fiducia nella natura bidimensionale della fotografia, le cui regole si piegavano ai suoi scopi stilistici e narrativi. Come ha detto ironicamente, "Le mie fotografie non vanno sotto la superficie”. “Ho grande fiducia nelle superfici, una buona è piena di indizi”.
Dopo aver curato il numero di aprile 1965 di Harper's Bazaar, Avedon lasciò la rivista ed è entrato a far parte di Vogue, dove ha lavorato per più di vent'anni. Nel 1992, Avedon è diventato il primo fotografo dello staff del The New Yorker, dove i suoi ritratti hanno contribuito a ridefinire l'estetica della rivista. Durante questo periodo, le sue fotografie di moda sono apparse quasi esclusivamente sulla rivista francese Égoïste.
In tutto, Avedon ha gestito uno studio commerciale di successo. E’ stato ampiamente accreditato di aver cancellato il confine tra la fotografia "artistica" e "commerciale". Il suo lavoro di definizione del marchio e le lunghe associazioni con Calvin Klein, Revlon, Versace e dozzine di altre aziende hanno portato ad alcune delle campagne pubblicitarie più famose della storia americana. Queste campagne hanno dato ad Avedon la libertà di perseguire grandi progetti in cui ha esplorato le sue passioni culturali, politiche e personali. È noto per la sua estesa ritrattistica del movimento americano per i diritti civili, la guerra del Vietnam e un celebre ciclo di fotografie di suo padre, Jacob Israel Avedon. Nel 1976, per la rivista Rolling Stone, ha prodotto "The Family", un ritratto collettivo dell'élite di potere americana al momento delle elezioni del bicentenario del paese. Dal 1979 al 1985 ha lavorato a lungo su commissione dell'Amon Carter Museum of American Art, producendo il libro In the American West.
Dopo aver subito un'emorragia cerebrale mentre era in missione per The New Yorker, Richard Avedon è morto a San Antonio, in Texas, il 1° ottobre 2004.
(Fonte Avedon Foundation)
Le fotografie
Locandina del film E.T. l’extra-terrestre
Steven Spielberg, 11 febbraio 1994, Richard Avedon