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[CIAO AMORE, CIAO]

Un giorno dopo l’altro la vita se ne va; e la speranza ormai è un’abitudine

Si tratta di una scoperta: Luigi Tenco con al collo svariate fotocamere, di classe peraltro. Alcuni sostengono fosse appassionato di fotografia, ma questa volta non ci interessa averne la certezza. Siamo altresì orientati a chiederci su dove potesse indirizzarsi il suo pensiero prima del click, quando ancora l’immagine è un’idea e si stanno caricando i rullini.

Ricordiamo oggi Luigi Tenco, perché il 26 gennaio del ’67 si tolse la vita, lasciando alle sue spalle una malinconia antica e quella voglia d’esprimersi che nessuno è riuscito ad apprezzare.

Andiamo con ordine: chi era Luigi Tenco? Un ragazzo nato a Cassine, in provincia d’Alessandria. Belloccio (è stato anche attore), mostrava sul volto i segni della malinconia e di una tristezza che emergeva senza filtri nelle sue composizioni. Preparato musicalmente, era cresciuto nella Genova della canzone d’autore, quella di Lauzi, Paoli, De André. Polistrumentista, ha mostrato in gioventù una talentuosa inclinazione per il Jazz. Assunto alla Ricordi come musicista di studio (’59), inizia a produrre i primi 45 giri, il “formato” di tendenza ai tempi. Non arriverà mai al successo, Tenco, almeno quello pieno. Siamo negli anni ’60 e lui li attraversa tra malinconia e un compulsivo desiderio di rinnovamento; ma il suo verbo non verrà capito, almeno non fino in fondo. I più lo ricordano per la sigla di Maigret, lo sceneggiato televisivo interpretato da Gino Cervi (“Un giorno dopo l’altro”), ma lui fa molto di più, incoraggiato solo da se stesso.

Valichiamo le metà degli anni ’60. La crisi di Cuba è ormai lontana e inizia ad affacciarsi la protesta studentesca, con le prime tensioni sociali. Si stanno spendendo gli ultimi spicci del boom economico e Tenco si accorge come la vecchia Italia sia sempre la stessa. Nonostante i sussulti della canzone d’autore, si ricade nella canzonetta, nel già visto, nel “meno peggio” di quanto si è ascoltato.

Luigi porta l’occhio all’oculare, inquadra: “La solita strada, bianca come il sale”. Il tempo si allunga, tra pensieri e desideri: l’immagine non è ancora latente e nemmeno fissata nelle idee. Meglio camminare ancora, oltre; lo vuole anche l’io fotografo: “Andare via lontano, a cercare un altro mondo; dire addio al cortile, andarsene sognando”. C’è troppo silenzio attorno, un’eccessiva solitudine. Ancora un tentativo, si guarda con la fotocamera. Il tempo inizia a incalzare, incessante, eccessivo: “E poi mille strade grigie come il fumo, in un mondo di luci sentirsi nessuno”. L’orizzonte si allarga e moltiplica i sentimenti sulle solite domande: “Guardare ogni giorno, se piove o c’è il sole; per saper se domani, si vive o si muore; e un bel giorno dire basta e andare via”. Sì ma dove? Come? E perché? Occorre anche conoscere, capire, poterlo e volerlo fare: “Non saper far niente, in un mondo che sa tutto; e non avere un soldo nemmeno per tornare”. Anche qui, a quale strada rivolgersi? Quella del cuore? Dell’amore? Già, forse: “Saltare cent’anni, in un giorno solo”. “Dai carri dei campi, agli aerei nel cielo”. “E sentirsi solo e aver voglia di tornare da te”.

Luigi torna a scattare, ancora, una volta di più; ma osserva ciò che non avrebbe nemmeno voluto intravedere. La strada in effetti è sempre quella, anche per il suo mondo; quello di una canzone che si inviluppa nei ritornelli scontati, tra idee omologate e un falso perbenismo di maniera. L’immagine, latente o meno, amplifica le sensazioni, senza emozionare: non c’è speranza, nulla da ricordare. Torna indietro, Luigi, scatta a ritroso. Almeno lì c’è ancora la pulsione, il desiderio di scompaginare. Senza un’idea futura, però, anche un ritorno vuol dire calpestare i propri passi, omologare. “Un giorno dopo l’altro, il tempo se ne va; le strade sempre uguali, le stesse case”. “Un giorno dopo l’altro, e tutto è come prima; un passo dopo l’altro, la stessa vita”. “E gli occhi intorno cercano, quell’avvenire che avevano sognato; ma i sogni sono ancora sogni e l’avvenire è ormai quasi passato”.

C’è ancora un’immagine da inquadrare e riprendere. Ed è l’ultima, quello del tempo lungo che svanisce nel buio, dove anche il rumore di una pistola diventa silenzio prima dell’ultimo lampo di luce. È il 27 gennaio 1967. Lo trovano riverso nella camera 219 dell’Hotel Savoy, a San Remo: c’è del sangue vicino alla testa. “È suicidio”, quello di Luigi Tenco, si viene a sapere. “Ho voluto bene al popolo italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita”, c’è scritto sulla lettera d’addio. Il suo pezzo “Ciao amore, ciao” cantato in coppia con Dalida, era stato eliminato dal Festival di Sanremo. Tenco ha segnato una rottura essenziale nella musica italiana, invadendo il mondo livido della canzonetta senza riuscire a scalfirlo. Lui viveva un triste presagio ed era devastato da un senso d’impotenza dinanzi alla realtà. Quasi meglio farla finita, lasciando che le fotografie di una vita si addensino in una soltanto, per sempre. In fin dei conti, quasi ci aveva avvisato: “Per saper se domani, si vive o si muore; e un bel giorno dire basta e andare via”.

Ciao amore, ciao.

[Il fotografo, Gianni Greguoli]

Per quarant’anni Gianni Greguoli ha fotografato i grandi miti della musica e della canzone, da stelle internazionali come Miles Davis e Billie Holiday agli italianissimi Giorgio Gaber e Adriano Celentano.

Fin dagli anni Cinquanta Gianni cattura con la sua macchina fotografica le performance di leggende del jazz del calibro di Lester Young, Miles Davis, Chet Baker, Ella Fitzgerald, Louis Armstrong e perfino Billie Holiday nel suo unico concerto italiano. Nel 1957 ritrae Maria Callas al Teatro alla Scala di Milano per la copertina dei due dischi contenenti le registrazioni di una storica Medea di Cherubini.

In quegli anni Gianni è anche testimone di un periodo d’oro della canzone italiana, in particolare della nascente canzone d’autore: pochi sanno che suoi sono i primissimi servizi fotografici di Luigi Tenco con i suoi Cavalieri, Enzo Jannacci, Giorgio Gaber, Umberto Bindi, Fabrizio De André, Adriano Celentano, Milva, Renato Carosone, Tony Renis, Mia Martini, Riccardo Cocciante, Franco Cerri e altri ancora, che fotografa nel suo piccolo studio in centro a Milano, oppure in sala di registrazione o in concerto.

Gianni ha sempre preferito lavorare in luce ambiente, ideale per fissare sulla pellicola con naturalezza ed efficacia l'atmosfera di un particolare momento, nella convinzione che sia meglio una foto “vera”, anche con qualche minima imperfezione, ad un’immagine costruita. Le sue fotografie sono apparse su innumerevoli riviste musicali, pubblicità e copertine di dischi. Di queste ha spesso anche progettato la grafica, collaborando con case discografiche anche nell’ideazione del logo e della linea grafica aziendale: tra queste La Voce del Padrone, Dischi Ricordi, Mercury, Fonit Cetra, Music Records, Saar Dischi, Ariston Dischi e Produttori Associati.

Fonte, Wall of Sound Gallery

[Le fotografie]

Luigi Tenco “fotografo” (anonimo)

Luigi Tenco. Ph. Gianni Greguoli

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