[UNA STORIA DI DONNA]
E’ bella, Dalila Di Lazzaro, che quasi non riesci a spiegarti perché. Due grandi occhi verdi ti guardano decisi e anticipano il resto: fascino, desiderio, sogno, mistero. Tanta fortuna l’ha spinta nella vita verso il successo, ma ha dovuto affrontare ostacoli incredibili e difficili. Abusata da piccola, si trova madre a 16 anni dopo essere fuggita di casa. Verrà picchiata e sequestrata, all’alba di un’esistenza sotto i riflettori, dedicata a pochi. Non è finita però: perderà il figlio in un incidente stradale; e sarà dolore, di quelli che durano per sempre. Oggi gli occhi sono ancora verdi e la bellezza di certo non è svanita del tutto. Rimane la storia di una vita: difficile da raccontare anche alle persone più vicine.
Dalila Di Lazzaro, modella, attrice, cantante e scrittrice, nasce a Udine il 29 gennaio 1953.
Inizia la carriera come indossatrice; viene poi scelta come testimonial per una nota casa di collirio. Nel 1972 debutta sul grande schermo con “Si può fare... amigo”, di Maurizio Lucidi; un film spaghetti western, genere in voga al tempo. Dalila usava lo pseudonimo Di Lamar. La si vedrà comparire in altre pellicole, in ruoli minori; fino al 1974, quando recita nel film “Il mostro è in tavola... barone Frankenstein”, di Paul Morrissey, avendola fortemente voluta i produttori Andy Warhol e Carlo Ponti, al quale si lega con una fervida amicizia.
Dopo essere stata definitivamente lanciata da Alberto Lattuada come attrice principale nella pellicola “Oh, Serafina!” (1976), Dalila verrà scritturata in seguito essenzialmente per il ruolo di femme fatale, girando nel complesso più di trenta film e diverse fiction per la tv, divenendo così una protagonista del cinema italiano degli anni settanta, ottanta e novanta. Ha inoltre girato film anche in Francia, Svizzera e Regno Unito.
Tanti sono stati gli uomini della sua vita, tra cui alcuni molto famosi. Recentemente l'attrice ha confessato di aver frequentato a lungo l'avvocato Gianni Agnelli, mentre un flirt mancato è stato quello con Alain Delon, che pure avrebbe ammesso di essere stato segretamente innamorato di lei.
La bella Dalila ci fa incontrare due fotografi che non vedevamo da tempo: Bob Krieger e Gianfranco Salis.
[Bob Krieger, un incontro]
La casa è elegante, raffinata. Bob Krieger ci accoglie con gentilezza e disponibilità. Volgiamo lo sguardo intorno a noi, anche un po’ stupiti. Le opere del fotografo campeggiano ovunque, comprese quelle fatte rivivere con la rinnovata espressività della manipolazione. Il dialogo inizia e prosegue in armonia, mosso da una coerenza di fondo. Non ama parlare di sé, Bob, preferisce ascoltare, interagire, comprendere. Si definisce curioso, e non stentiamo a crederlo, soprattutto quando ci racconta le immagini che vediamo. Sono i gesti a stimolarlo, le movenze dei soggetti. È lì che inizia l’interpretazione dell’immagine che sarà: sia nel caso di una fotografia di moda, che di un ritratto. Avedon l’ha stimolato in tal senso: è lui stesso a confermarcelo; ma crediamo che tanta ispirazione parta da lontano. Probabilmente la sua gioventù l’ha abituato a intravedere, a stringere gli occhi per guardare più in là; anche quando la guerra gli restituiva paura, incertezza e l’odore dei rifugi. Pensiamo poi a sua madre: bella, elegante, nobiliare, artista; e al tutore, che gli ripeteva come la vita non comprendesse meriti. Bob continuava a guardare, per cercare ciò che comprendeva, ma anche quanto era di difficile spiegazione. “Ho spesso cambiato opinione”, ci dice; e noi crediamo rappresenti il massimo della coerenza, perché chi cerca non sa cosa trova.
La curiosità, quindi, è la parola chiave della vita di Bob Krieger; ma lo sono anche ascolto e interpretazione. Non ha incontrato l’amore, il nostro fotografo; lo afferma quando meno ce lo aspettiamo. Ma è sempre la coerenza a vincere, almeno crediamo. Quel sentimento non prevede ascolti o domande: occorre svestirsi, mostrarsi. Non basta la curiosità e nemmeno il suo sguardo.
[Bob Krieger, note biografiche]
Bob Krieger, fotografo italiano, nasce ad Alessandria d’Egitto da madre siciliana e padre prussiano. Fin da ragazzo è affascinato dal mondo dell’arte, verso il quale lo avvicina il bisnonno Giuseppe Cammarano, autore dei dipinti neoclassici della Reggia di Caserta.
Pur avendo iniziato a fotografare a undici anni (ricorda ancora la prima immagine, un ritratto della madre), solo nel 1962 entra in uno studio come assistente.
Trasferitosi nel 1967 a Milano, dove tuttora vive e lavora, comincia l’attività in proprio pubblicando subito su Harper’s Bazar e Vogue, documentando la nascita del pret-a-porter italiano. Dal ’70 al ’75 è art director di Bazar Italia, poi torna a realizzare fotografie lavorando per i più grandi stilisti (Armani, Krizia, Versace, Valentino, Bulgari), su riviste come N.Y. Times Magazine, Vogue, Esquire, Harper’s Bazar, ma affermandosi anche in campo pubblicitario e firmando ben tre copertine di Time, tra le quali, nel 1982, quella dedicata a Giorgio Armani. Pur legato alla moda, se ne allontana per realizzare ricerche personali sul nudo, con due libri molto belli: Metamorfosi, in B/N nel ’90; e Anima Nuda, a colori, nel ’98. Anche il ritratto fa parte della sua vena fotografica, con immagini di grande libertà espressiva.
[“Di malinconica bellezza”, a colloquio con Gianfranco Salis]
“Non credo alla realtà oggettiva, né alle apparenze; la fotografia anche se manipolata secondo i propri fini è l'unica ipotesi di realtà”.
Scrivere di Gianfranco Salis non è facile, almeno per noi. Le ragioni sono tante: personali, logiche, comportamentali, fotografiche; ma soprattutto, a farci riflettere è la complessità dell’autore, lo sviluppo della sua opera. Lo incontriamo al telefono (ahimè) e ci accoglie una gentilezza antica, malinconica forse, stupenda a frequentarsi. E’ quella del carattere, sicuramente; la stessa che si affianca a un’altra, fatta di solidità e consapevolezza: di sé, del mondo, del proprio ruolo.
C’è poi la fotografia, la sua, offerta a noi e a tutti con semplicità, senza clamori e nella completa pienezza. E qui sorge la prima riflessione, circa l’autore e sull’arte dello scatto in generale. E’ possibile osservare i lavori di Gianfranco nell’immediatezza? O non sarebbe meglio, prima, mondarsi dai luoghi comuni (fotografici) di tutti i giorni? La risposta racchiude ipotesi non percorribili, ingiuste forse; ma, di fronte ai ritratti di Salis, per un attimo abbiamo invocato una riforma luterana moderna, che con la sua iconoclastia potesse liberarci dall’idea che si forma su un’altra, quella che ci fa allontanare dall’individualità vera del soggetto ritratto.
In questo ambito, è l’autore a venirci in soccorso: la capacità che gli è propria. Col suo lavoro, distrugge le migliaia d’immagini che aleggiano attorno ai vari personaggi “famosi”, volte a costruire un’aura professionale, d’apparenza per lo più. Le donne di Salis, ad esempio, vivono della propria interezza, tralasciando i trascorsi o del destino che appartiene loro. Moana Pozzi e Ilona Staller (le porno dive) diventano le donne con le quali sarebbe splendido vivere tutto. La ragione è però una sola, e Gianfranco ce la spiega:
“Fotografo le persone che m’ispirano, facendomi pensare a qualcosa che è dentro di me”.
Durante il nostro colloquio, Salis rimane sempre gentile, moderato, anche un po' malinconico. Forse anche questo fa parte degli ingredienti della sua fotografia, quello che cerca nelle donne che fotografa. Nei suoi ritratti sembra non possa esserci bellezza senza malinconia, e neanche felicità.
[Gianfranco Salis, note biografiche]
Gianfranco Salis, romano, intraprende presto la strada della fotografia sotto lo stimolo di Tazio Secchiaroli. Non ancora ventenne è fotografo al Festival dei due mondi di Spoleto, ritraendo artisti come M. Ceroli, William De Kooning, e l'Orlando Furioso di Luca Ronconi. Dai primi anni '70 inizia a lavorare come fotografo di scena, collaborando con registi come Squitieri, Monicelli, Ferreri, Loy, Scola, Risi, Zeffirelli. Dal 1978 è fotografo di fiducia di Tinto Brass. Parallelamente al cinema, inizia a metà degli anni '80 una serie di ritratti femminili, grazie ai quali Giorgio Armani gli affida il compito di fotografare Laura Morante per il lancio mondiale del suo primo profumo femminile. Nel 1987 ha posto la sua attenzione sui personaggi Ilona Staller e Moana Pozzi, che si erano imposte all'attenzione dei media. Nel 1988, unico europeo nella sezione ritratto, vince con l'immagine di Marisa Berenson il The professional photographer's showcase all'Epcot Center di Orlando, Usa. Al suo attivo, numerose mostre in Italia e all'estero.
[Le fotografie]
Bob Krieger. Dalila Di Lazzaro per Valentino.
Gianfranco Salis. Dalila Di Lazzaro, 1981.