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[TEMPI MODERNI IN ANTEPRIMA]

Il 5 febbraio 1936, al Teatro Rivoli di New York, viene proiettata la prima mondiale del film “Tempi moderni” di Charlie Chaplin. Si tratta di un capolavoro filmico, l’ultimo nel quale compare Charlot, il Vagabondo che ha accompagnato il regista nel 22 anni precedenti. In questa pellicola c’è un po’ tutto il Chaplin conosciuto: il clown, il ballerino, l’atleta, il bambino dispettoso contro le regole, sempre dalla parte degli ultimi. E’ anche la sceneggiatura a vincere, la conduzione delle scene: moderna, rapida a volte, con piani ampi e stretti. C’è da imparare, a guardare “Tempi moderni”, contaminandosi a fondo. Le regole ci sono tutte, come nel finale: dialogo stretto (e muto) e una dissolvenza in chiusura su lui e lei che camminano sulla strada del futuro.

Tempi moderni è un capolavoro del cinema mondiale, che declina sullo schermo la critica al sogno americano, seppure in chiave comica. La catena di montaggio è uno degli scenari del film, dove l’alienazione dell’operaio trova sfogo nella sovversione del meccanismo logico, attraverso delle gag esilaranti.

C’è dell’altro, però: una riflessione profonda sul momento storico difficile degli USA. Siamo nel 1936 e ancora si vivono le code di un baratro economico senza precedenti: la crisi del ’29. Chaplin aveva visto con i suoi occhi la condizione operaia in un viaggio in Europa, anche se l’idea del film pare sia stata tratta da uno sguardo diretto allo stabilimento Ford.

Non potevano mancare i sentimenti profondi, come già in “Luci della città”; ecco quindi le vicende comiche e paradossali vissute con Monella (Paulette Goddard). Come dirà lo stesso Chaplin: “Sono gli unici due spiriti vivi in un mondo di automi”. “Sono veramente vivi”. “Entrambi possiedono l’eterno spirito della giovinezza e sono assolutamente privi di morale”. “Vivi perché sono bambini senza senso di responsabilità”. “Spiritualmente liberi, mentre il resto dell’umanità è oberata di doveri”. “Non c’è attaccamento romantico nel rapporto fra questi compagni di giochi, fra questi bambini legati nella colpa da una complicità ingenua e innocente”. Sì, tra i due manca l’amore, ma il finale è tutto per loro: camminano di spalle su una strada senza fine, a indicare un percorso dissimile da quello che avevano vissuto fino a quel momento. Dopo? Una dissolvenza in chiusura, tipica del cinema muto. Del resto, la pellicola è ibrida, nel senso che ha qualche traccia sonora e nulla più. Nelle intenzioni primarie di Chaplin, tutto si sarebbe svolto attraverso dei dialoghi, poi in lui emerse la paura per la quale il sonoro avrebbe potuto diluire il senso del lavoro, quanto si voleva dire.

Tempi moderni rappresenta anche l’apice della carriera del Chaplin compositore, che per l’occasione diede vita a un soundtrack eseguito da un’orchestra sinfonica di 64 elementi. Il brano “Smile” divenne un successo già dalla sua "apparizione" come tema musicale del film. La fama del brano, però, durerà fino ai giorni nostri. La prima versione cantata fu quella di Nat King Cole nel 1954, con moltissime cover realizzate negli anni successivi da artisti in tutto il mondo. La figlia Natalie Cole la riproporrà nel suo fortunato album del 1991 “Unforgettable... with Love”. Michael Jackson inserì la canzone nel suo doppio album del 1995.

Infine, “Tempi moderni” è l’opera con la quale Charlot va in pensione. Quel Vagabondo che lo aveva reso celebre in tutto il mondo prendeva definitivamente la sua strada, allontanandosi verso un orizzonte infinito: questa volta non più da solo, ma con al fianco la Monella del film.

[Le fotografie]

Oltre a una scena del film, abbiamo scelto un ritratto di Charlie Chaplin a firma, manco a dirlo, di Richard Avedon. Ci piace l’interpretazione che il fotografo fa del regista, un volto luciferino sin dal sorriso. Il resto è comicità, che pure è coerente con il soggetto ritratto.

[Il fotografo, Richard Avedon]

Richard Avedon (1923-2004) è nato e ha vissuto a New York City. Il suo interesse per la fotografia è iniziato in tenera età e si è unito al club fotografico della Young Men's Hebrew Association (YMHA) quando aveva dodici anni. Ha frequentato la DeWitt Clinton High School nel Bronx, dove ha co-curato la rivista letteraria della scuola, The Magpie, con James Baldwin. È stato nominato Poeta Laureato delle scuole superiori di New York nel 1941.

Avedon si è unito alle forze armate nel 1942 durante la seconda guerra mondiale, come fotografo nella marina mercantile degli Stati Uniti. Come ha descritto, “Il mio lavoro era scattare fotografie d’identità”. “Credo di aver fotografato centomila volti prima che mi venisse in mente che stavo diventando un fotografo".

Dopo due anni di servizio, ha lasciato la marina mercantile per lavorare come fotografo professionista, inizialmente creando immagini di moda e studiando con l'art director Alexey Brodovitch presso il Design Laboratory della New School for Social Research. All'età di ventidue anni, Avedon ha iniziato a lavorare come fotografo freelance, principalmente per Harper's Bazaar. Ha fotografato modelli e moda per le strade, nei locali notturni, al circo, sulla spiaggia e in altri luoghi non comuni, impiegando intraprendenza e inventiva che sono diventati i caratteri distintivi della sua arte. Sotto la guida di Brodovitch, è diventato rapidamente il fotografo principale di Harper's Bazaar.

Dall'inizio della sua carriera, Avedon ha realizzato ritratti per la pubblicazione sulle riviste Theatre Arts, Life, Look e Harper's Bazaar. Era affascinato dalla capacità della fotografia di suggerire la personalità ed evocare la vita dei suoi soggetti. Ha catturato pose, atteggiamenti, acconciature, vestiti e accessori come elementi vitali e rivelatori di un'immagine. Aveva piena fiducia nella natura bidimensionale della fotografia, le cui regole si piegavano ai suoi scopi stilistici e narrativi. Come ha detto ironicamente, "Le mie fotografie non vanno sotto la superficie”. “Ho grande fiducia nelle superfici, una buona è piena di indizi”.

Dopo aver curato il numero di aprile 1965 di Harper's Bazaar, Avedon lasciò la rivista ed è entrato a far parte di Vogue, dove ha lavorato per più di vent'anni. Nel 1992, Avedon è diventato il primo fotografo dello staff del The New Yorker, dove i suoi ritratti hanno contribuito a ridefinire l'estetica della rivista. Durante questo periodo, le sue fotografie di moda sono apparse quasi esclusivamente sulla rivista francese Égoïste.

In tutto, Avedon ha gestito uno studio commerciale di successo. E’ stato ampiamente accreditato di aver cancellato il confine tra la fotografia "artistica" e "commerciale". Il suo lavoro di definizione del marchio e le lunghe associazioni con Calvin Klein, Revlon, Versace e dozzine di altre aziende hanno portato ad alcune delle campagne pubblicitarie più famose della storia americana. Queste campagne hanno dato ad Avedon la libertà di perseguire grandi progetti in cui ha esplorato le sue passioni culturali, politiche e personali. È noto per la sua estesa ritrattistica del movimento americano per i diritti civili, la guerra del Vietnam e un celebre ciclo di fotografie di suo padre, Jacob Israel Avedon. Nel 1976, per la rivista Rolling Stone, ha prodotto "The Family", un ritratto collettivo dell'élite di potere americana al momento delle elezioni del bicentenario del paese. Dal 1979 al 1985 ha lavorato a lungo su commissione dell'Amon Carter Museum of American Art, producendo il libro In the American West.

Dopo aver subito un'emorragia cerebrale mentre era in missione per The New Yorker, Richard Avedon è morto a San Antonio, in Texas, il 1° ottobre 2004.

(Fonte Avedon Foundation)

[Le fotografie]

Tempi moderni, una scena del film.

Richard Avedon. Charlie Chaplin, 1952.

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