[LA PRIMA DE “LA TRAVIATA”]
Era domenica come oggi, quel 6 marzo del 1853, quando per la prima volta andava in scena alla Fenice di Venezia “La Traviata”, opera scritta da Giuseppe Verdi. Quella prima fu un fiasco colossale. La colpa dell’insuccesso può essere attribuita all’argomento trattato (ricavato da “La signora delle camelie” di Alessandro Dumas, messo a libretto da Francesco Maria Piave), ma anche agli interpreti, incapaci, ai tempi, di fare emergere il dramma di un amore controcorrente, ostacolato dalle convenzioni e dai pregiudizi.
Quel fiasco oggi è ancor più strano se consideriamo che “la Traviata” è una delle opere più eseguite al mondo, con un primo atto incalzante, ricco di romanze e un’overture ad anticipare il dramma. “Libiamo ne’ lieti calici” e “Amami Alfredo” risuonano spesso nelle riunioni conviviali e fanno parte della nostra italianità.
Violetta è una bella signora di società: tossisce, è malata. Vorrebbe fuggire da quell’amore (“follie, follie”, canta), ma non può. Alfredo, da dietro le quinte, canta: “Un dì, felice, eterea, mi balenaste innanze”; ma sarà suo padre a rovinare tutto, per un finale tragico: Violetta muore.
[Le fotografie]
Renata Tebaldi ne “La Traviata”, anonimo.
Giorgio Lotti. Il soprano Renata Tebaldi al termine della sua esibizione al Teatro alla Scala riceve gli applausi e la standing ovation del pubblico. Milano, Italia, 1974.
[Renata Tebaldi]
Renata Tebaldi nasce il 1° febbraio 1922 a Pesaro, ma trascorre la sua infanzia a Langhirano, in provincia di Parma. Inizia gli studi di canto al Conservatorio di Parma con Ettore Campogalliani, ma deve la sua formazione soprattutto all’illustre soprano Carmen Melis, con la quale si perfeziona al Liceo Musicale Rossini di Pesaro.
Debutta il 23 maggio 1944 al Teatro Sociale di Rovigo come Elena nel Mefistofele e l’anno dopo è al Regio di Parma (La Bohème, L’Amico Fritz e Andrea Chénier) e al Verdi di Trieste (Otello). L’11 maggio 1946 partecipa al concerto di riapertura della Scala di Milano diretto da Arturo Toscanini, che conia per il suo intervento nel Te Deum di Verdi il leggendario attributo di “Voce d’Angelo”. In quell’anno debutta alcuni suoi cavalli di battaglia, come Lohengrin (Parma), Mefistofele (Margherita, Milano), Tosca (Catania). Nel 1947 è alla Scala per I Maestri Cantori, dove tornerà in opere diverse per altre nove stagioni, sino al 1960. Debutta anche all’Arena di Verona (Faust), all’Opera di Roma e al San Carlo di Napoli (La Traviata e Tannhäuser), teatro destinato a diventare la sua autentica roccaforte per l’Italia.
Parallelamente ai titoli del grande repertorio (oltre ai citati, Falstaff, Aida, Adriana Lecouvreur, Forza del destino, Messa da Requiem di Verdi), affronta per un breve periodo diverse rarità e ruoli in seguito abbandonati, come Don Giovanni (Donna Elvira, Lisbona, 1949), L’Assedio di Corinto di Rossini (Firenze, 1949), Olimpia di Spontini (Firenze, 1950), Giulio Cesare di Händel (Pompei, 1950), Giovanna d’Arco di Verdi, Fernando Cortez di Spontini (entrambi a Napoli, 1951), Le nozze di Figaro (Contessa, Napoli, 1952), Guglielmo Tell di Rossini (Firenze, 1952), Cecilia di Refice (Napoli, 1953), La Wally di Catalani (Milano, 1953), Eugenio Onegin (Milano, 1954).
Nel 1955 debutta con Otello al Metropolitan di New York, dove sarà di casa sino al 1973, dando inizio alla sua importante carriera americana, che l’ha vista affrontare nuove opere destinate ad entrare nel suo repertorio, come Simon Boccanegra (San Francisco, 1956), Manon Lescaut (Chicago, 1957), Fedora (Chicago, 1960), La Gioconda (New York, 1966), La Fanciulla del West (New York, 1970). È ospite dei maggiori teatri internazionali e, nonostante i prevalenti impegni americani, torna più volte in Europa, al Liceu di Barcellona (debutto in Madama Butterfly, 1958), alla Staatsoper di Vienna, all’Opéra di Parigi, al Covent Garden di Londra.
La sua ultima apparizione italiana in un’opera è al San Carlo di Napoli nel 1968, in Gioconda, mentre l’addio alle scene avviene al Metropolitan nel 1973 in Otello. Prosegue l’attività a livello concertistico, in Italia e all’Estero. Con un recital trionfale alla Scala, il 23 maggio 1976, si congeda dall’attività artistica.
Tornata definitivamente in Italia, vive tra Milano e San Marino, dove si spegne il 19 dicembre 2004.
(Fonte: Fondazione Renata Tebaldi)
[Il fotografo, Giorgio Lotti]
Giorgio Lotti nasce a Milano nel 1937.
Inizia a lavorare nel 1957, collaborando come free-lance per alcuni quotidiani e settimanali quali “Milano Sera”, “La Notte”, “Il Mondo”, “Settimo giorno”, “Paris Match”. Nel 1964 entra nello staff di Epoca sotto la direzione di Nando Sampietro dove rimane fino al 1997, anno di chiusura del giornale. Ha lavorato fino al 2002 a Panorama.
Nel 1973, per un reportage fatto in Cina viene insignito, dalla University of Photojournalism, Columbia, del premio “The World Understanding Award”. In quel reportage aveva ritratto il primo ministro cinese Zhou Enlai.
Ha partecipato inoltre a numerose edizioni del Sicof a cura di Lanfranco Colombo. Nel 1995, nel corso del 16° Sicof viene premiato con l”Horus Sicof 1995” per il ruolo svolto nel campo della fotografia italiana. È stato premiato dalla città di Venezia per i suoi reportage sulla Serenissima.
Nel 1994, a Modena, riceve il prestigioso premio letterario “Città di Modena”.
Alcune immagini sono conservate nei musei americani, di Tokio, Pechino, al Royal Vìctoria Albert Museum di Londra, al Cabinet des Estampes di Parigi, al Centro Studi dell’università di Parma, alla Galleria Civica di Modena.
Negli ultimi dieci anni si è dedicato alla ricerca fotografica nel campo del colore e dell’arte.
[L’incontro con Giorgio Lotti, i ricordi del ’66, la sua fotografia]
Abbiamo incontrato personalmente Giorgio Lotti nella sua Varese. Ecco cosa ne è emerso.
Un ricordo. L’auto procedeva a fatica. La pioggia era torrenziale, mai vista. In autostrada non c’era nessuno. A Firenze veniamo fermati da una pattuglia della polizia: “Da dove venite?”, ci chiedono con una certa meraviglia. E aggiungono: “Stiamo chiudendo entrambe le corsie”. Era il prologo dell’alluvione: quella del ’66. I ricordi sono quelli di chi scrive, allora bambino. Il giorno dopo, il mondo aveva il colore del fango: tra ponti divelti, frane, case danneggiate.
Incontrare Lotti è stata un’emozione grande, perché lui, quella notte, era a Firenze, aspettando la notizia. L’Arno gonfiava e Giorgio camminava per capire, leggere, intuire. Come sempre, mentalmente stava creando quello spazio “vero” nel quale collocare le proprie immagini. Il nostro non è mai stato “cacciatore” delle proprie fotografie; probabilmente le ha attese, creandole magari: conoscendo già cosa la realtà gli avrebbe manifestato. Il servizio sull’alluvione del ’66 ne è appunto un esempio eloquente, perché sorprende per quanto c’è, ma soprattutto per quello che manca. Il racconto possiede la forza della sintassi fotografica da reportage: soggetto e contesto, verità e interpretazione, soggettività e spazio per chi guarda. Giorgio, in quegli scatti, sussurra, suggerisce, propone; offre al lettore la possibilità di afferrare il racconto, immergendovi le proprie emozioni. Questa è fotografia. Cosa manca? La retorica slavata, il clamore, la violenza che strozza il respiro e chiude gli occhi, impedendo di pensare.
Questa è fotografia.
Ringraziamo Giorgio Lotti per il tempo che ci ha voluto dedicare.
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