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[NASCE LA MOTOCICLETTA]

Era il 16 marzo 1869. L’ingegnere francese Louis-Guillaume Perreaux depositava il brevetto di un veicolo a due ruote chiamato Vélocipede à Grande Vitesse (Velocipede ad alta velocità). La propulsione era a vapore. Nasceva la motocicletta. Nel 1897 venne depositato il marchio "Motocyclette", per commercializzare una bicicletta mossa da un motore; ma quel nome divenne di dominio pubblico, a tal punto che venne ritirata la concessione di esclusività.

La motocicletta, o moto che dir si voglia, fa parte dello scenario stradario di ogni epoca. Certo, nell’immediato dopoguerra per molti fungeva da mezzo di trasporto, prima dell’automobile; ma anche a quel tempo possedeva un’anima tutta propria, strettamente legata al centauro che la dominava. Il rombo era riconoscibile a distanza, così si sapeva chi stesse arrivando: dopo una curva (in piega) o davanti al bar stanziale di antica memoria.

“Motocicletta, 10 HP, tutta cromata, è tua se dici sì”, così cantava Lucio Battisti; anche se 10 HP oggi sembrano pochini, visti i bolidi che circolano per le strade. Già, perché ne è passato di tempo e la due ruote si è specializzata, diventando scooter, enduro, naked, sidecar, idea, vestito. Una Harley la si indossa, mentre la “sdraiata” va domata piegando in collina alla “Valentino”. Un motociclista sa dove andare per respirare l’emozione della strada che scorre: senza una destinazione, col motore che pulsa e il vento che spinge i petto.

Ecco che la moto diventa una filosofia. Ne sapeva qualcosa Robert M. Pirsig, lo scrittore americano autore del saggio "Lo Zen e l'arte della manutenzione della motocicletta" (1974). "La vera motocicletta sulla quale state lavorando è una moto che si chiama voi stessi", spiega in un celebre passaggio del libro. Il protagonista parte per una vacanza con "più voglia di viaggiare che non di arrivare in un posto prestabilito" e di fronte a paesaggi molto variegati i ricordi e i pensieri si affollano nella mente.

Se la motocicletta vive nell’idea, è facile pensare che caratterizzi il personaggio che la cavalca. E’ il caso di Marlon Brando nel film “Il selvaggio” (diretto da Laszlo Benedek, 1953), dove guida una Triumph Thunderbird 650cc, oppure di Richard Gere, in Ufficiale e Gentiluomo (1982), a cavallo di una Triumph Bonneville 750.

Ci sono poi dei film nei quali la motocicletta diventa protagonista. Uno di questi è “Indian – La grande sfida” e racconta la storia del motociclista Burt Munro e della sua Scout indiana del 1920, truccatissima. Munro stabilì numerosi record di velocità con motociclette di cilindrata inferiore a 1.000 cc al “Bonneville Salt Flats” nello Utah (USA) alla fine degli anni ’50. Il personaggio è interpretato da Anthony Hopkins. La visione è fortemente consigliata. Un’altra pellicola con la moto come “attrice” è “Easy Rider” (1969) diretta e interpretata da Dannis Hopper (un valido fotografo, peraltro), Peter Fonda e Jack Nicholson. Forse l’abbiamo visto tutti, ma è giusto ricordare come il film rappresenti perfettamente la cultura della controtendenza propria di quel periodo storico.

[Le fotografie]

Mario De Biasi, «Gli italiani si voltano», 1954. Serie fotografica realizzata per il rotocalco Bolero Film. Il fotografo bellunese seguì una giovane e sensuale Moira Orfei in giro per Milano, tra bar, negozi e fermate d’autobus e colse le reazioni dei passanti, alcuni in motocicletta.

Carrè Otis ritratta da Albert Watson

[Il fotografo, Mario De Biasi]

Mario De Biasi non può essere circoscritto unicamente negli Italiani che si voltano. In un certo senso il suo lavoro emerge come un’eccellenza di casa nostra, una fotografia che, per grammatica, risulta estremamente Made in Italy. Del resto si è fatto “da solo”, mediante una concitazione tutta sua. Con un po’ di presunzione, possiamo dire che i francesi (umanisti e non) sono rimasti a casa loro, oltre le Alpi; e che pochi sono i paralleli plausibili con altri autori. Mario De Biasi vive, almeno ai nostri occhi, di una soggettività propria: concreta e variegata. E’ il suo percorso di vita a suggerircelo: dagli esordi in poi.

De Biasi nasce a Sois, un piccolo paese del comune di Belluno. Si avvicina alla fotografia in Germania (là fu deportato durante il secondo conflitto mondiale) nel 1944, usando una fotocamera ritrovata tra le macerie della città. Nel 1953 inizia la sua collaborazione con Epoca. Per la rivista Mondadori realizza importanti reportage, primo fra tutti quello sulla rivolta popolare di Budapest del 1956, dove seppe cogliere la violenza dell’insurrezione ungherese come nessun altro. Di lui ricordiamo anche le immagini della New York negli anni Cinquanta e i ritratti, come quelli di Marlene Dietrich, Brigitte Bardot e Sofia Loren. Tutto questo ci suggerisce come la sensibilità del reporter si può convertire in svariati ambiti, non necessariamente drammatici: Mario De Biasi ne è stato capace.

[Albert Watson, parliamo di lui]

Nato e cresciuto a Edimburgo (1942), in Scozia, Albert ha studiato graphic design al Duncan of Jordanstone College of Art and Design di Dundee e cinema e televisione al Royal College of Art di Londra. Sebbene fosse cieco da un occhio sin dalla nascita, Albert ha studiato fotografia come parte del suo curriculum. Nel 1970 si è trasferito negli Stati Uniti con la moglie Elizabeth, che aveva ottenuto un lavoro come insegnante di scuola elementare a Los Angeles. Lì Albert ha iniziato a scattare fotografie, principalmente per hobby. Pian piano è riuscito a entrare nell’ambiente e il suo stile distintivo alla fine ha attirato l'attenzione delle riviste di moda americane ed europee come Mademoiselle, GQ e Harper's Bazaar, che lo hanno ingaggiato per un servizio fotografico con Alfred Hitchcock, la prima celebrità mai fotografata da Albert. Poco dopo, ha iniziato a fare il pendolare tra Los Angeles e New York. Nel 1976, ottenne il suo primo lavoro per Vogue e, con il suo trasferimento nella “grande mela” in quello stesso anno, la sua carriera ha iniziato a decollare.

Albert Watson ha lasciato il segno come uno dei fotografi di maggior successo e prolifici al mondo. Dai ritratti di Alfred Hitchcock e Steve Jobs, agli scatti di Kate Moss, ai paesaggi di Las Vegas, la diversità e il corpo di lavoro di Albert risultano senza pari. Le sue fotografie sono presenti in gallerie e musei di tutto il mondo. Stiamo parlando di uno dei fotografi più influenti di tutti i tempi, insieme a Irving Penn e Richard Avedon, tra gli altri.

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