[DANNEGGIANO LA PIETA’]
La pietà è il capolavoro del poco più che ventenne Michelangelo, considerata uno dei maggiori capolavori che l'arte occidentale abbia mai prodotto. È anche l'unica opera da lui firmata, sulla fascia a tracolla che regge il manto della Vergine: MICHEL.A[N]GELVS BONAROTVS FLORENT[INVS] FACIEBAT.
Il 21 maggio 1972, giorno di Pentecoste, un geologo australiano di origini ungheresi di 34 anni, Laszlo Toth – eludendo la sorveglianza – riuscì a colpire con un martello l'opera di Michelangelo per quindici volte in un tempo di pochi secondi, al grido di: “I Am Jesus Christ, risen from the dead!”, ("Io sono Gesù Cristo, risorto dalla morte!"), prima che fosse afferrato e reso inoffensivo. La Pietà subì dei danni molto seri, soprattutto sulla Vergine: i colpi di martello avevano staccato una cinquantina di frammenti, spaccando il braccio sinistro e frantumando il gomito, mentre sul volto il naso era stato quasi distrutto, come anche le palpebre. Il restauro venne avviato quasi subito, dopo una fase di studio, e fu effettuato riutilizzando per quanto possibile i frammenti originali, oltre che un impasto a base di colla e polvere di marmo.
I più anziani ricorderanno come l’allora Pontefice (Paolo VI) fosse accorso al cospetto della statua senza scorta e a dispetto di qualsiasi protocollo. Non solo, il capolavoro, che in precedenza aveva viaggiato verso gli Stati Uniti per essere esposta là, da quel momento non si sarebbe più mossa, proprio per volere del Papa.
Il viaggio via mare era avvenuto nel 1964. La pietà doveva essere presente all’Esposizione Mondiale di New York, in occasione del IV centenario della morte del suo autore. Il permesso era stato concesso già da Giovanni XXIII e fu confermato dal suo successore. Dopo un viaggio durato 8 giorni il capolavoro di Michelangelo venne esposto nel Padiglione Vaticano del New York World’s Fair e durante la sua permanenza fu ammirato da più di 27 milioni di visitatori.
La scultura tornò in basilica il 13 novembre 1965.
Un fatto curioso. Dopo l’attentato del 21 maggio 1972, molti turisti raccolsero dei frammenti di statua come souvenir personali. Alcuni di questi, tanti a dire il vero, tornati a casa, spedirono in Vaticano il mal tolto.
[Le fotografie]
Pietà di Michelangelo in Roma, Aurelio Amendola
[Il fotografo di Michelangelo]
Le vicende della Pietà michelangiolesca ci permettono di conoscere un fotografo che più volte ha ritratto le sculture dell’artista toscano: Aurelio Amendola. Lo abbiamo sentito al telefono prima di redigere questo pezzo, per chiedergli le fotografie. La sua voce, cordiale come sempre, è squillante come un tempo, quando quel ragazzo di bottega ha iniziato a scrivere un’esistenza meravigliosa.
[Aurelio Amendola, un artigiano contemporaneo]
Aurelio Amendola preferisce definirsi ancora artigiano. A suo dire, oggi tutti si fanno chiamare artisti, forse perché è diventato troppo “facile” produrre immagini. Meglio rimanere fotografi, come quelli di un tempo. “Artigiano” diventa quindi un aggettivo contemporaneo, che definisce un autore ricco di entusiasmo, e la cui professione vive di responsabilità. Tramite le sue fotografie, Aurelio instaura un rapporto con le opere che ritrae, quasi le interroga; in un dialogo che diventa respiro, pulsione, vita. Il merito sta nel suo sguardo sempre nuovo, lo stesso che restituisce azione ai soggetti, ma anche armonia, equilibrio.
Aurelio Amendola ha instaurato un rapporto profondo con le sculture di Michelangelo, forse perché i marmi dell’artista toscano nascondono essi stessi la vita. Le fotografie del nostro, paradossalmente, quasi restituiscono dinamicità alle anatomie, ai contorni, alle levigatezze. E’ come se tra i due artisti fosse venuta a instaurarsi un’amicizia lontana: oltre la distanza dei secoli e del tempo. C’è quasi da credere che il Buonarroti abbia suggerito luci e pose al nostro Aurelio, che quindi si è trovato a compiere un “dettato”, poi divenuto parafrasi. Sono i misteri dell’arte, quella che si raggiunge con la consapevolezza e non per diritto acquisito. Ci rendiamo così conto come il termine “Artigiano” stia proprio bene, almeno per definire il lavoro del nostro. Lui ha preso in mano un mestiere e l’ha colmato di valori, usando la passione che maturava piano piano. Non ha inseguito modelli, questo è certo; ma quando ha capito la sua missione, il fare ha prevalso sull’essere dello status. Un bagno d’umiltà? Non proprio; piuttosto si tratta di una presa di coscienza: sincera, acuta, scoperta e solo dopo voluta. Alla fine è arrivata anche la fama, e una carriera d’artista. Tanto il nostro non se ne fregia: “Meglio che lo dicano gli altri”, ribadisce. Perché c’è già un altro artista da ritrarre, magari mentre lavora: con lui e per lui; come forse a suo tempo ha fatto Michelangelo. Senza saperlo.
[Aurelio Amendola, domande e risposte]
Anni addietro intervistammo il fotografo pistoiese. Riportiamo alcune domande (e risposte) che caratterizzeranno bene l’indole artistica dell’autore.
D] Aurelio, quando hai iniziato a fotografare?
R] Negli anni ’60. A ventidue anni già possedevo un mio studio. Prima andavo a lavorare presso un collega, dove mi occupavo del lavaggio delle fotografie. Erano i tempi delle cerimonie (matrimoni, cresime, comunioni). Un giorno, nel 1964, andai in gita a Roma, assieme a un gruppo di studenti della Scuola d’Arte di Pistoia. Visitammo una mostra di Marino Marini. Scattai alcune fotografie alle sue opere. Al ritorno, lo storico d’arte Gian Lorenzo Mellini mi chiese: “Perché non fotografi l’opera di Giovanni Pisano, in via S. Andrea 37, a Pistoia?”. “Cos’è?”, chiesi “Il pulpito”, rispose: “Prova!”. Durante un fine settimana iniziai il lavoro, che tra l’altro mi coinvolse molto. Produssi dieci scatti in B/N. Evidentemente avevo qualcosa dentro. L’Electa, che visionò le immagini, scrisse: “Dite a quel ragazzo di terminare quanto iniziato”. Provai a confrontarmi con tante persone e tutte m’invitavano ad andare avanti. “Non sono abituato”, dicevo. Nonostante ciò, mi misi al lavoro, utilizzando la luce naturale. Il sacerdote della chiesa ne fu felice. Era colui che mi aveva sposato. Ne nacque un libro importante, il primo: quello della svolta. Passare dalle fototessere a un libro edito da Electa su Giovanni Pisano fu davvero una grande soddisfazione.
D] Spesso le opportunità sono più vicine di quanto immaginiamo …
R] Al tempo, i miei dubbi erano tanti. “Ho una famiglia”, ripetevo. L’Electa mi chiamò per produrre un libro su Marino Marini, che tra l’altro fece il mio nome. La vita cambiò repentinamente attorno a me, così nel ’74 abbandonai lo studio. Iniziò il mio viaggio nell’arte. I giornali (Oggi, Vogue) scrivevano: “Aurelio Amendola, il fotografo degli artisti”.
D] La tua è una bella storia, tutta da raccontare. La passione per la fotografia è stata importante?
R] All’inizio no. E’ maturata col tempo. Noi giovani dovevamo lavorare e ci sentivamo artigiani. Sarei potuto diventare calzolaio, barbiere; e non avrebbe fatto alcuna differenza. Col tempo le cose sono cambiate. Incontravo Burri, De Chirico. Col primo ero molto amico e lui contribuì alla mia visibilità ad alti livelli (’76). Ricordo che da una conoscenza ne nasceva un’altra, così in me montava la motivazione, poi diventata passione: per la fotografia e l’arte, particolarmente nei confronti della scultura, verso la quale ero l’unico a prestare attenzione. Per questa ragione ero interpellato da Giacomo Manzù e Emilio Greco. Nel ’92 uscì il mio primo libro su Michelangelo.
D] Tu sei il fotografo di Michelangelo …
R] L’ho fatto mio. Con la mostra su di lui ho girato il mondo. Credo sia stata importante l’interpretazione che sono riuscito a far vivere. A proposito, Skira ha prodotto un documentario su di me. Io ho pubblicato un libro sulle tre pietà di Michelangelo e un altro sul Davide.
D] Delle tre, quale pietà preferisci?
R] La Rondanini è straordinaria; quella di Roma, graziosa.
[Aurelio Amendola, note biografiche]
(Fonte www.aurelioamendola.it) – Nel corso della sua lunga carriera di fotografo Aurelio Amendola si dedica principalmente all’arte contemporanea, immortalando i protagonisti dell’arte del Novecento: De Chirico, Lichtenstein, Pomodoro, Schifano, Warhol, per ricordarne solo alcuni. Tra le numerose monografie dedicate ai maggiori scultori e pittori contemporanei ricordiamo Marino Marini, Burri, Manzù, Fabbri, Ceroli, Vangi, Kounellis. Aurelio Amendola è poi noto per le fotografie delle sculture del Rinascimento italiano: ha documentato l’opera di Jacopo Della Quercia, Michelangelo e Donatello, e illustrato singoli capolavori e monumenti quali il pulpito pistoiese di Giovanni Pisano, il fregio robbiano dell’Ospedale del Ceppo, sempre a Pistoia, Santa Maria della Spina e il Battistero a Pisa, San Pietro in Vaticano. San Pietro in Vaticano è il primo di una serie dedicata ai grandi temi dell’arte italiana visitati secondo l’ottica personale del fotografo, presenta una campagna iconografica completamente nuova, calibrata sul “taglio” e sulle esigenze specifiche del progetto: approfittando della rara occasione di un contatto senza vincoli con i monumenti berniniani e, più in generale, con i vari elementi architettonici e scultorei caratterizzanti San Pietro, simbolo di tutta la cristianità, Amendola riesce a riprenderne gli scorci e i particolari più inaspettati.
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