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[NASCE IL CODICE DELLA STRADA]

Con un Decreto del Presidente della Repubblica datato 15 giugno 1959, n. 393, viene emanato il primo Testo unico del Codice della strada. Si tratta di una data ormai simbolica, che comunque indica un cambiamento forte. L’Italia sta per affrontare uno dei momenti più felici della sua storia: lenite le ferite della guerra, aspetta il boom economico. La gente inizierà a muoversi in auto, a guardare la TV, lasciandosi alle spalle quanto documentato, con maestria, da Fulvio Roiter agli albori della sua carriera. Il documento legislativo sente il peso degli anni e nel leggerlo si prova una malinconia dolciastra, derivante da una sorta d’ingenuità di fondo. Ne leggiamo un articolo.

Disposizioni Generali Articolo 6: Tregge e slitte

pLa circolazione delle tregge (un carro senza ruote, n.d.r.) è ammessa soltanto per il trasporto di strumenti agricoli. La circolazione delle slitte è ammessa soltanto quando le strade sono coperte di ghiaccio o neve di spessore sufficiente ad evitare il danneggiamento del manto stradale. Chiunque viola le disposizioni del presente articolo è punito con l'ammenda da lire cinquemila a lire ventimila.

Nel ’59 era in via di costruzione l’Autostrada del Sole (Milano-Napoli). La prima pietra venne posata nel 1956 e nel 1960 (3 dicembre) entrava in funzione il tratto appenninico (Bologna-Firenze): 80 Km d’asfalto con quaranta ponti, quelli di Rioveggio e Barberino del Mugello dove la coda è una regola. Il totale dell’opera sarebbe stato inaugurato nel 1964, durante il governo con Aldo Moro come Presidente del Consiglio.

[Le fotografie, i due autori]

Gianni Berengo Gardin. Milano, anni ’60.

Pepi Merisio. Colli Albani, gli Sposi.

Ci troviamo di fronte a due grandi narratori. Gardin riferisce come questa sia stata una delle prime fotografie scattate a Milano dopo il suo trasferimento in città. Il “Ghisa” appare esageratamente alto. Certo, le auto allora erano piccole, ma il poliziotto sembra essere di taglia cestistica. Il contesto è ben curato, come sempre. C’era poco a disposizione, ma il cartello del senso unico offre un valido contributo.

La fotografia di Pepi Merisio è altamente evocativa, almeno per quanto stiamo dicendo: il vecchio e il nuovo, di fianco a un matrimonio a piedi passa un’auto. Anche in questo caso, la composizione è da reportage. Ottimo è il contributo del passante di spalle (quello col giornale piegato in mano): guarda gli sposi, quindi aiuta il racconto.

[Le fotografie, le due automobili]

Due Bianchine, un caso fortuito. Venivano prodotte a Desio, sotto il marchio Autobianchi, nato nel 1955 grazie a un accordo tra Bianchi (il brand delle biciclette), Pirelli e Fiat. Si trattò di un prodotto di successo. Dalla fabbrica ne uscivano 200 al giorno, per un totale di 320.000 in dodici anni. La Bianchina piaceva per le sue linee americaneggianti (all'epoca molto di moda), per l'allestimento ricercato, per la meccanica semplice ed affidabile (la stessa della Fiat 500). Molti ricordano la Bianchina come l’auto di Fantozzi, sulla quale precipita la lavatrice la notte di Capodanno. In realtà l’auto era una 500 con il “vestito buono”, quello della festa. Siamo negli anni ’60 e ci si poteva permettere qualche lusso.

Da notare: mancano i retrovisori esterni, a destra e sinistra. Quelli lato conducente, diventarono obbligatori nel 1976.

[Gianni Berengo Gardin, la fotografia racconta]

Gianni Berengo Gardin nasce il 10 ottobre 1930, a Santa Margherita Ligure. Scrivere di lui è un po’ come incontrarlo, perché personalmente lo conosciamo bene, avendolo frequentato a lungo. Tante volte ci ha ospitato a casa sua (grazie), regalandoci emozioni che sono le stesse di adesso, mentre cerchiamo di descriverne il pensiero fotografico.

Narrare con la fotografia, per Berengo, è una questione di vita: forse la missione di un’esistenza. Siamo convinti che il suo pensiero sia sempre lì, nelle storie raccontabili: attorno a quell’uomo comune col quale è possibile costruire anche una “realtà immaginata”. Gli Zingari, i manicomi, la Luzzara di Zavattini (e Paul Strand!), hanno rappresentato solo delle opportunità per un motore già in moto, per una “penna” già avvezza alla scrittura.

Ha sempre desiderato fare libri, il maestro, più di ogni altra cosa. Il racconto è lì, nella costruzione della pubblicazione: narrando una situazione con tutto il tempo necessario.

Comunque è stato fotoamatore per cinque anni. Poi, la passione forte l’ha convinto a diventare professionista. I suoi ideali sono stati i fotografi americani della “Farm Security Administration” e soprattutto Eugene Smith, poi, subito dopo, i francesi. Parigi esercitò un grosso fascino su di lui ed è rimasto là quasi due anni. E’ stato un periodo di grandi incontri: Doisneau, Boubat, Masclet, Willy Ronis, col quale ha stretto una solida amicizia. Da loro ha imparato moltissimo e da lì è partito tutto.

E’ un mondo in B/N quello che ci racconta Berengo, forse (lui ci disse) per una questione di educazione visiva, partita dal cinema e dalla televisione in bianco e nero, continuata poi con i grandi maestri che l’hanno ispirato.

Tutto ciò ci fa riflettere e subito ci vengono in mente i tanti scatti del Maestro diventati icona. In questi non si riconosce unicamente un formalismo di sintassi, ma lo sviluppo di un racconto che prende forma. Non solo, nei suoi libri famosi quasi si nota una generosità di scatti. E’ come se il nostro desiderasse arrivare al soggetto per assonanze successive, con rispetto. La somiglianza col montaggio filmico diviene quasi scontata, anche se a prevalere c’è il desiderio di verità, di narrare a fondo: con rigore.

La gente comune che Berengo ama ritrarre viene descritta nel proprio contesto, come nella scena di un grande teatro. Ci sono le quinte e le comparse, i soggetti principali e gli elementi descrittivi, spesso chi compie un’azione e un altro che guarda, un elemento “centrale” e tanto altro che parla di esso.

Il nostro incontro di fantasia è finito. Dopo aver immaginato le fotografie di Berengo comprendiamo ancora di più di essere cittadini del mondo. E’ il suo racconto ad accomunarci tutti, perché ognuno di noi può ritrovarsi nei suoi scatti: magari nel proprio tempo e nel luogo che gli appartiene. Complice è la fotografia del maestro, vicina, nel suo fruire, al divenire stesso della vita.

[Pepi Merisio, il fotografo gentile]

Pepi Merisio è nato il 10 agosto 1931, a Caravaggio (Bergamo) e ci ha lasciato il 2 febbraio 2021. Parlando di lui, ci siamo sempre detti come abbia raccontato la civiltà contadina e montanara: è così, anche se non solo. Che poi i soggetti trattati siano individui senza nome e senza storia è un fatto ancor più conclamato. I meriti di Merisio, però, vanno oltre, e di molto. Forse partono da una consapevolezza antica, respirata nelle terre conosciute sin dall’infanzia, ma no: non basta. Probabilmente deve essere chiamata in causa la concretezza “bergamasca”, quella dove il tempo misura il valore delle azioni. E poi, c’è dell'altro? Evidentemente, pensiamo, una cultura religiosa profonda, dove l’uomo si confronta continuamente con se stesso e le proprie opere, con onestà. Ecco, sì: ci siamo.

Ripensiamo alle sue fotografie. Ci accorgiamo come i soggetti, i paesaggi, gli oggetti, siano tutti più vicini. Merisio ha concesso a noi la conoscenza che gli era propria, i sentimenti che lo animavano. Ogni immagine racchiude un racconto, esprimendo anche un sentimento, un’emozione, una forte suggestione. Ci passano davanti gioia, dolore, fatica, sacrificio, persino amore, senza che il fotografo abbia edulcorato nulla. Non è un girone dantesco, quello che vediamo, e nemmeno il luogo della bellezza nostalgica di quanto è stato. Le persone che incontriamo sono senza nome e senza storia, ma ne stanno costruendo l’elemento portante, che poi è la vita.

Merisio ha trattato tutti con rispetto: nelle sue valli e pure nel corso dei viaggi intrapresi un po’ dovunque in Italia. Ha cercato, e trovato, i medesimi racconti; perché i “senza nome” sono tali in ogni luogo. Meglio salvarne la dignità, quindi, rendendola palese a chi guarderà. Basta parlare a tutti dando loro del “lei”, pacatamente. È un fatto di educazione: quella di un fotografo gentile, appunto.

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