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[L’ESISTENZIALISMO DI JEAN-PAUL SARTRE]

Jean-Paul Charles Sartre, scrittore, romanziere, attivista politico, biografo, critico letterario e filosofo, nasce il 21 giugno 1905 a Parigi. E’ stato una figura di spicco dell'esistenzialismo e della fenomenologia del XX secolo. I suoi contributi filosofici, la critica letteraria, la creatività del pensiero e un'attiva lotta politica nell'ultima parte della sua vita gli valsero il riconoscimento mondiale. Conosciuto anche come il padre dell'esistenzialismo, le idee di Sartre si sono aggiunte in modo significativo ai circoli intellettuali dopo la seconda guerra mondiale.

[Le fotografie]

Jean-Paul Sartre, ca. 1960. Ph. Robert Doisneau

Jean-Paul Sartre, 1946. Ph. Henri Cartier-Bresson

La fotografia di Henri Cartier Bresson ha un valore tutto suo, a partire dal taglio. Sartre è l’elemento centrale, mentre il suo interlocutore intrude appena, quel tanto che basta a giustificarne la presenza: si racconta il dialogo tra i due. E poi c’è la presenza (interpretata!) dell’intellettuale francese, che appare concentrato consapevolmente, mentre elabora ciò che sta ascoltando: gli occhi sono strabici, le rughe accentuate, la mano stringe la pipa.

[Jean-Paul Sartre, la vita, l’esistenzialismo]

Il principale contributo filosofico di Sartre fu quello dell'esistenzialismo. Lui mirava prima a comprendere l'esistenza di una persona piuttosto che ad approfondire i segreti del mondo. Nel suo capolavoro, “L’essere e il nulla”, Sartre spiega i due tipi di realtà dietro le nostre esperienze coscienti: da un lato, vi è l'oggetto della coscienza, la cosa che esiste in sé; dall’altro, la coscienza stessa, un fenomeno che è sempre in relazione a qualcosa. La cosa unica della coscienza è che può sempre sperimentare il nulla.

Sartre ha proposto una teoria sulla libertà umana. Poiché noi umani non conosciamo l'essenza e il piano dietro la nostra esistenza, siamo lasciati completamente liberi di fare le nostre scelte e agire secondo la nostra volontà, quindi senza scuse. Ha anche espresso l'idea che l'individualità e l'originalità si guadagnano e non possono essere apprese. Per lui, le esperienze di vita sono più importanti della conoscenza. È la realizzazione della morte che rende gli esseri umani pienamente consapevoli delle loro vite e potenzialità. La morte per Sartre è quando smettiamo di vivere per noi stessi ed esistiamo solo per il mondo esterno.

Prima della seconda guerra mondiale, Sartre credeva che avrebbe potuto contribuire al mondo nel ruolo di intellettuale apolitico. Gli orrori della guerra gli hanno aperto gli occhi e ha iniziato a svolgere un ruolo politico attivo in Francia. Nel 1941 formò un gruppo di resistenza a Parigi. Nel 1943 si unì al gruppo di resistenza degli scrittori.

Sartre era un sostenitore del Partito Comunista Francese, ma dopo l'invasione dell'Ungheria da parte dell'Unione Sovietica, respinse le affermazioni del PCF di essere i veri rappresentanti delle masse francesi. Più tardi nella vita, Sartre amava definirsi un anarchico politicamente. Le opere letterarie di Sartre sono un ritratto della sua filosofia esistenzialista. I suoi romanzi (la Nausea tra questi) sono tutte opere famose della letteratura esistenzialista che gli valsero il Premio Nobel nel 1964. Tuttavia, rifiutò l'onore affermando che un autore non dovrebbe essere istituzionalizzato.

Jean-Paul Sartre è morto il 15 aprile 1980 a Parigi.

[Robert Doisneau: la vita, lo stile, l’insegnamento]

Doisneau nasce il14 Aprile 1912, a Gentilly. Lui, poeta della fotografia francese, trascorre l’infanzia a Corréze, per via della madre ammalata di tubercolosi. Quest’ultima si mostrerà autoritaria e rappresenterà per il giovane Robert l’alter ego della propria sensibilità. Lui amava la pesca, che praticava con l’aiuto dello zio o le tante volte nelle quali marinava la scuola. Il padre, a lungo atteso a guerra finita (1918), si rivelerà una delusione. La voglia di una figura teutonica e forte venne delusa. L’infelicità, comunque, era ancora più vicina: perché la madre moriva appena un anno dopo il ritorno della famiglia a Gentilly. Robert prende ancora più le distanze dal mondo, sin dal funerale; lo immaginiamo distratto dietro al carro funebre, ma anche al cimitero, dove il padre conoscerà la sua seconda moglie. Quest’ultima si rivelerà ancor più severa e costrittiva, persino gelosa e punitiva. Il futuro fotografo scoprirà la solitudine, quel non sentirsi appartenente a niente e a nessuno, nemmeno a quella classe “piccolo borghese” che la nuova residenza stava a significare.

Quel bambino timido e goffo inizia a osservare in maniera acuta, particolarmente nelle fughe verso la periferia: segno di disobbedienza, da un lato; ma anche dell’identificazione di quel teatro che, per tutta la vita, rappresenterà il suo territorio di ricerca fotografica.

Gli studi

Nel 1925 viene ammesso, in qualità di allievo incisore - litografo presso la scuola di Etienne, un istituto dedicato alle Arti Grafiche. Gli studi primari erano stati condotti di malavoglia e in maniera irregolare. Doisneau non riceve alcun insegnamento di fotografia, che incontrerà, per la prima volta e alla lontana, quando verrà assunto presso uno studio grafico, dove disegna alcune etichette per dei medicinali. Siamo nel 1929.

Solo frequentando gli atelier di Montparnasse Robert incontrerà la fotografia: questo nei contrasti degli “anni folli” della Parigi del tempo. Inizia così un bisogno compulsivo di fotografare, che lo porta a esplorare inconsapevolmente gli scenari visitati, anni prima, da Atget.

André Vigneau e l’avanguardia parigina

L’incontro con André Vigneau (fu il suo assistente dal 1931) fu fondamentale per Robert, come più volte ha confermato lui stesso: “... lui mi parla di un’altra filosofia, un’altra pittura, un altro cinema”. Presso lo studio dell’artista Doisneau incontrerà l’avanguardia parigina, tra cui Prévert. Sarà il servizio militare ad allontanare il nostro dallo studio di Vigneau ed al ritorno non potrà essere assunto nuovamente, per questioni economiche. Doisneau troverà lavoro nell’ufficio pubblicitario di Renault, tra il 1934 e il 1939: anni nei quali il fotografo consoliderà la propria vita sentimentale, sposando Pierrette. Ma un luogo chiuso non era per lui, che tra l’altro aveva sempre visitato le periferie anche per disobbedire, per infrangere le regole. Così, quando viene licenziato, siamo alle soglie della Seconda Guerra Mondiale.

Il dopoguerra

Gli anni 50 - 60 saranno per Doisneau quelli della consacrazione. È una Francia “fotografica” quella che i professionisti si trovavano a disposizione. A parte le varie iniziative culturali (Arlés, ad esempio), vengono sviluppati dei programmi di commesse pubbliche a vantaggio dei fotografi. Negli anni ‘80 accetterà anche di rivisitare le sue periferie; ma erano diverse da quelli di anni prima. Sarà Sabine Azéma, l’attrice da lui fotografata, a fargli scoprire la Parigi a lei prossima. Avendo sempre privilegiato il rispetto per l’uomo a scapito della tecnica, è stato definito “fotografo umanista”. Nella sua carriera, ha preso spunto da varie parti: dal costruttivismo, dal surrealismo, dal Cinema Sovietico. Con “il Bacio dell’Hotel de Ville” ha raccontato una storia eterna.

Lo stile di Robert Doisneau

In un periodo nel quale domina la “Street Photography”, parlando di Doisneau siamo costretti a prenderne le distanze. Lo stile di oggi è troppo rapido e anche i suoi contenuti non ci vengono in aiuto: eccessivamente candid, occasionali, opportunistici. Robert preferiva le attese, le scoperte, la semplicità. Lui aspettava il miracolo, come ha confessato in un’intervista rilasciata a Frank Horvat: quello che occorreva cogliere al di là della composizione o di altri aspetti tecnici. “C’è chi guarda”, viene da dire osservando le fotografie del nostro. In quasi tutte le sue immagini accade qualcosa e tanti occhi ne rafforzano il contenuto, connotandolo. Non è così nel famoso bacio (Hotel De Ville), ma lì era necessario, sin dalla committenza. Doisneau costruisce in ogni scatto la scena di un teatro, dove a fianco di un soggetto principale, altre comparse aggiungono un “coro di occhi”. L’intreccio di sguardi che ne consegue porta a una vita sospesa, immobile; a galla tra l’oggi e il domani, dove l’interpretazione dell’autore diventa verità, bella da credersi per dolcezza, ironia, semplicità.

Gli insegnamenti di Robert Doisneau

Gli insegnamenti di Robert Doisneau sono pochi, ma solidi. Al contrario di altri suoi colleghi, lui non usa solo focali corte, anzi. Molto spesso notiamo delle prospettive compresse, tipiche delle lunghe focali; ma è l’attesa a vincere, la perseveranza: l’aspettare quel miracolo suggestivo che diventerà eterno, agli occhi di tutti. C’è poi il rapporto con i poeti e gli scrittori. Con loro esplorerà Parigi di giorno e di notte. Prévert lo accompagnerà tra “rue” e “bistrot”. Lui soleva dire: “La poesia è ciò che sogniamo, ciò che immaginiamo, ciò che desideriamo e ciò che si compie, spesso”. Con Robert Giraud, Doisneau conoscerà la notte, quella da scovare con tenacia. Ecco cosa dice lo scrittore: “Una luce si spegne, un’altra si accende e la sostituisce”. “La notte a volte ha anche i suoi orari di chiusura; questo è grave”. “Il tutto è da sfruttare al meglio, poi si vedrà”. Doisneau non ha sfruttato la sua vita, ma ne ha raccontato lo sguardo: quello che cercava la tenerezza dei cuori gentili. Forse l’ha trovata nei bambini, corpus importante del suo lavoro fotografico; quelli da accomunare alla sua infanzia, trascorsa ad aspettare un miracolo mai giunto a destinazione.

[Il fotografo Henri Cartier-Bresson]

Henri Cartier Bresson (ne abbiamo parlato anche lo scorso anno) nasce a Chanteloup-en-Brie il 22 agosto 1908. E’ uno dei fotografi più importanti del ‘900, avendone intuito lo spirito. Per questo motivo è passato alla storia come “L’Occhio del Secolo”. Con i suoi scatti è riuscito a cogliere la vera essenza della vita, mentre la sua esistenza è stata tutta dedicata a trasformare la fotografia in un mezzo di comunicazione moderno, influenzando intere generazioni di fotografi. Ha documentato la Guerra Civile Spagnola, quella Cinese, l’Occupazione Nazista in Francia, la costruzione del muro di Berlino, i funerali di Gandhi. Fu l’unico fotografo occidentale al quale venne permesso di fotografare in Unione Sovietica ai tempi della Guerra Fredda.

Durante la II^ Guerra Mondiale, si arruolò nell’Esercito Francese. Fu fatto prigioniero per trentacinque mesi, riuscendo poi a fuggire al terzo tentativo. Si aggrega poi nelle file della Resistenza francese, documentando la liberazione di Parigi nel 1944.

Cogliere il momento perfetto è tutto nelle foto di Bresson, che ha descritto lo stile dell’immediatezza nel suo libro Images à la Sauvette, pubblicato nel 1952. Henri Cartier Bresson non metteva in posa i protagonisti dei suoi ritratti ma li fotografava nei momenti più inaspettati per cogliere la loro naturalezza. Images à la Sauvette si traduce approssimativamente come "immagini in fuga" o "immagini rubate". Il titolo inglese del libro, The Decisive Moment, fu scelto dall'editore. Nella sua prefazione al libro di 126 fotografie di tutto il mondo, Cartier-Bresson cita il Cardinale de Retz del XVII secolo che disse: - "Non c'è niente in questo mondo che non abbia un momento decisivo”.

[Henri Cartier Bresson, una lezione da apprendere]

L’approccio alla fotografia di Bresson è stato controverso, tormentato. Arriverà anche a rinnegare la propria arte, più volte; ma non è questo che ci interessa. Più importante è sapere come lui sia partito dalla pittura, frequentando personaggi del calibro di Andrè Lhote, che per lui sarà un grande maestro. La lezione è stata importante: “Non c’è libertà senza disciplina”. E poi: “La follia non può dispiegarsi prima che il confine sia stato rigorosamente tracciato”. “Non può esserci corpo senza scheletro”.

Un celebre aforisma di Henri Cartier-Bresson recita: “È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore; è un modo di vivere”. Molti rimangono affascinati dalla prima parte e spesso vediamo dimenticata la seconda, dove la fotografia influenza l’esistenza e il modo di affrontarla. Solo a titolo di curiosità, ma con tanto rispetto, citiamo una prima “fuga” del nostro dalla fotografia, quella compiuta a favore del cinema. C’era alla base sempre l’idea di esprimersi, di creare, forse anche di possedere uno strumento. Si troverà col regista Renoir su set de “La scampagnata”, come secondo assistente. Va rivolto, a proposito, un applauso al cineasta francese, che aveva affiancato a uno dei più grandi fotografi di tutti i tempi quel Luchino Visconti (altro assistente) che troverà glorie nel cinema italiano del dopo guerra.

I provini & la scelta

I provini saranno per Bresson una sorta di diario intimo del fotografo. Sono quei fogli sui quali venivano riprodotti tutti i fotogrammi di una pellicola. In pratica, rappresentano i nostri file, quelli che un po’ frettolosamente (confessiamolo) scorriamo alla ricerca dello scatto migliore. Per il nostro i provini rappresentavano un giudice senza pietà e non aveva voglia di mostrarli. Lui non doveva certo temere i giudizi altrui. Gli archivisti della Magnum (la celebre agenzia che Bresson ha contribuito a fondare) dicevano che i suoi scatti erano tutti buoni e che ogni tanto ne compariva uno eccezionale. Sta di fatto che il fotografo francese pretendeva il diritto di scelta, il suffragio sulle proprie immagini. Noi facciamo altrettanto? I nostri file, come i provini di Bresson, rappresentano un racconto interiore pieno di errori; e non possiamo declamarlo a voce alta. Allo stesso modo, osservando il nostro lavoro, saremo in grado di comprendere esitazioni e titubanze, persino rimorsi, comunque gli errori più comuni. Fotografare (sono parole del maestro) è come piantare un chiodo su un asse di legno: si parte con dei piccoli colpi, poi si procede con più forza; riducendo le battute, però.

L’inquadratura

Per Bresson ridefinire l’inquadratura era vietato. Non ci sentiamo di suffragare tale scelta (tutti “croppiamo” un poco), ma crediamo che la testimonianza di un grande vada comunque ascoltata per le implicazioni che comporta sulla fotografia in genere. Per il nostro ridefinire i contorni di un’immagine equivaleva a stravolgere la realtà, non essendo coerenti con quanto si è visto. Dal nostro punto di vista, non si tratta se decidere di ridefinire i contorni o meno; ma di comprendere quale taglio possa passare sull’immagine senza stravolgerne il significato. Per tornare al nostro, diciamo che amava la cornice nera del bordo pellicola. Era una sua mania, rispettabile peraltro. La magia delle sue immagini prevedeva che il tempo (anzi, l’attimo) avesse uno spazio ben preciso col quale dargli forma e vita. Oltretutto emerge forte il tema del contenuto. In molte delle sue immagini, troviamo elementi che intrudono, individui tagliati a metà: un mondo che appartiene al “fuori scena”, ma che intensifica il valore dell’immagine, completandolo. In questo caso, un taglio sarebbe un delitto: perché inflitto alla sostanza e non alla forma. Riflettiamoci sopra, forse anche noi possediamo uno scatto che non vogliamo tagliare. Probabilmente non si tratta del migliore che abbiamo prodotto, ma il contenuto regge, funziona. Rivalutiamolo.

La luce e la presenza

Altre due piccole annotazioni. Bresson aborriva il flash. Il lampo per lui rappresentava un atto di maleducazione, anche perché andava a distruggere i fini dendriti che andavano a comporre il contenuto di un’immagine. “Non si frusta l’acqua prima di pescare”, diceva. Il flash è quindi proibito? No, assolutamente; ma il rispetto per la luce dobbiamo conservarlo e ne abbiamo già parlato diffusamente nei numeri scorsi. Il fotografo francese non amava essere riconosciuto mentre lavorava. Preferiva collocarsi in uno status di uomo invisibile, senza il quale non sarebbe stato neanche un fotografo. È una regola da seguire per forza? No, certamente: siamo uomini liberi. Di certo è giusto comprendere quando intrudere oppure no. La fotografia è anche sensibilità.

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