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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Consueto appuntamento del lunedì con la fotografia da leggere. Oggi incontriamo “Non ci resta che l’amore”, il romanzo di Mario Dondero; di Angelo Ferracuti (Il Saggiatore). Si tratta del racconto di una grande amicizia e della vita eccezionale di un uomo che, con una macchina fotografica a tracolla, ha inseguito insaziabilmente la Storia, il fotografo Dondero appunto.

Il racconto inizia da Camogli, nei ricordi del fotografo; e finisce sempre nel paese ligure, con un pellegrinaggio che l’autore compie alla scoperta dei ricordi di un’amicizia incredibile. Si tratta di un volume da leggere a più livelli: c’è la fotografia, il fotografo; ma anche il giornalismo, il reportage letterario. Sono narrati gli incontri con personaggi celebri, i luoghi, gli spostamenti, il tutto descritto con precisione accademica e biografica. Abbiamo riconosciuto Uliano Lucas, Ando Gilardi, ma anche Gianni Berengo Gardin che, sempre a Camogli, ha raccontato anche a noi, e più volte, l’episodio del giubbotto da aviatore indossato da Dondero.

Ovunque, nei vari capitoli, emerge la personalità del fotografo: l’autore che amava Parigi e detestava le autostrade (dei non luoghi, secondo lui). Si respira anche un disordine diffuso, e piacevole potremmo dire; perché la vita di Mario era fatta anche di schegge e sterzate improvvise e impreviste. Ci è piaciuto molto il reportage su Cartoceto, con i rimandi a Eugene Smith (Country Doctor) e al paese di Paul Strand; ma un po’ in ogni capitolo si incontra un’altra Italia, nascosta, da ricercare con cura.

Bella è la descrizione del rapporto tra fotografo e scrittore, ma anche quello tra letteratura e fotografia. «Mario», scrive l’autore, «Era un fotografo molto letterato: non c’era reportage che facesse che non partisse da un libro, alle volte da un romanzo; la sua visione era molto condizionata dalla cultura, non solo dai fatti. Questo gli permetteva di andare sempre oltre la soglia della cronaca».

La bibliografia dell’opera è imponente, il che vuol dire che c’è stata ricerca, tanta e approfondita. Il libro, comunque, restituisce tutti i meriti a Mario Dondero, troppo spesso relegato, tra i più, a una figura fantasiosa e irrazionale. Lui era un autore vero: libero, schierato, sincero, amante della vita e, soprattutto, delle persone. Ha abitato il suo tempo tutto di un fiato, senza tralasciare nulla. In molti lo aspettano ancora al bar Jamaica, che però non è più quello di anni addietro.

Dalla copertina del libro

Anni cinquanta. In mezzo a una strada di Parigi sono raccolte alcune persone, ferme, come in attesa di qualcosa o qualcuno. Uno di loro ha i capelli ispidi e brizzolati, un altro è quasi calvo, parlotta con un uomo baffuto, le mani incrociate sul petto; un altro ancora sputa in aria il fumo di una sigaretta, assorto in chissà quale pensiero. Qualcuno è lì di fronte con una Leica in mano, preme il pulsante, clic. La foto che teniamo in mano ora, sessantadue anni dopo, sembra uno scatto rubato o fortuito; eppure il dito di Mario Dondero non lascia nulla al caso, e la foto che ha scattato a Samuel Beckett, Claude Simon, Robbe-Grillet e gli altri esponenti dell’avanguardia letteraria francese è uno dei suoi capolavori. Ma Dondero non si circonda solo dei grandi del secolo – Fidel Castro, Pasolini, Francis Bacon –: va a cercare la vita negli angoli più remoti del pianeta, instancabile e insaziabile, scatta e scatta. Foto di fornai iracheni, contadini tunisini, pescatori portoghesi, operai francesi in sciopero, perché anche chi non ha un nome ha qualcosa da raccontare. Dove non trova la vita la inventa lui, ogni rullino è una metamorfosi della realtà in poesia. Per chi lo ha conosciuto, Dondero è l’ex partigiano infiammato per l’umanità, un «folletto dei luoghi» costantemente in viaggio, alla ricerca del cuore pulsante che pompa sangue nella Storia.

Angelo Ferracuti, che di Dondero è stato amico e discepolo, compie la metamorfosi della realtà in arte, scrive l’avventura di questa vita eccezionale e racconta, con uno stile denso e appassionato, un’epoca di attese e speranze, un’epoca in cui tutto era ancora possibile. Non ci resta che l’amore, come una fotografia, cattura l’istante irripetibile in cui l’esperienza umana si trasmuta in vicenda universale.

Mario Dondero e Image Mag

Mario Dondero nasce il 6 maggio 1928 a Milano. Non lo abbiamo conosciuto personalmente. Siamo costretti a dirlo con rammarico e per un desiderio di verità. Quanto diremo, quindi, sarà frutto di tante conversazioni tenute con altri fotografi, tutti suoi amici. Da qui una prima sensazione: con la sua dipartita, Mario ha lasciato un vuoto fatto di solitudine. Lui era il compagno che ritrovi per caso, e con piacere, magari al bar Jamaica, a Milano, assieme a Lucio Fontana, Camilla Cederna, Ugo Mulas, Uliano Lucas, Alfa Castaldi, Gianni Berengo Gardin. Per tutti doveva essere una sorta di mito e molti lo guardavano con ammirazione, quasi come un modello cui fare riferimento. Gianni Berengo Gardin ci ha confermato quanto avevamo letto: “Mario aveva un giubbotto degli aviatori americani, bellissimo”. “Ho fatto di tutto per averlo anch’io, ma quando sono riuscito a recuperarlo, lui vestiva in giacca e cravatta”.

(L’episodio del giubbotto è citato anche nel libro)

Chi era Mario Dondero? Un girovago, senza dubbio: aveva lo zaino (e non la valigia) sempre pronto. Paradossalmente, non stava mai “fermo”, a dispetto del nome della cittadina dove aveva scelto di abitare. Andava in giro e fotografava quello che vedeva, nella realtà e senza costruzioni. Lui non era attratto dal senso estetico, arrivando a rompere le proprie opere qualora non contenessero un personaggio o un accadimento degno di nota. Questo deve farci riflettere, perché le fotografie, per il nostro, evidentemente non rappresentavano una proprietà, e nemmeno andava attribuita loro la paternità dell’autore. Una volta scattate, erano già disperse, libere in quel mondo libero che lui amava frequentare.

Girovago, sì; ma anche gentiluomo: così possiamo tentare di completare la personalità di Dondero. Lui era vicino all’uomo che ritraeva, per dedizione. Soleva dire: “Non m’interessano le persone per fotografarle, m’interessano perché esistono”. E poi: “La fotografia è un tramite per arrivare a loro”. Ci arrivava da lontano, però, fermandosi spesso, dove capitava. Nel suo girovagare, alle volte incontrava una marea che lo portava altrove: quella dei suoi desideri, che lo facevano proseguire a piedi, per fermarsi ancora, forse più a lungo. Nelle immagini che ci ha lasciato non c’è l’attimo mitizzato di Bresson, e nemmeno l’istante irripetibile. Traspare viceversa una realtà che si è fermata a sua volta, forse proprio per lui che l’ha aspettata. Un senso di sospensione che era del suo io, del suo disperdersi per ritrovarsi.

Nelle foto che lo ritraggono, ne riconosciamo l’aria svagata e i capelli da ragazzo. Eppure girava instancabilmente, verso quelle situazioni che parevano richiamarlo e che sembravano create per lui. “Volevo diventare marinaio, poi ho fatto il fotografo”. Ci avrebbe fatto piacere essere al suo fianco, come compagni di viaggio. Non sappiamo se ci avrebbe accettato, ma, una volta per tutte, saremmo diventati viaggiatori veri, esploratori per giunta. Sarebbe stato più facile comprendere le sue scelte di campo, il suo modo di vedere: quel mondo che ci ha avvicinato, lasciandolo a noi solo per l’ultimo chilometro, quello che ci serviva per capire.

Amava cantare, Mario Dondero. Girovago, gentiluomo, osservatore, lui era anche un “vocalist”. Ce l’hanno detto in tanti. Il fatto è curioso, ma anche piacevole a scoprirsi; e coerente, in fin dei conti. Il canto si aggiunge alla sua indole, al modo col quale scopriva la vita. Sì, perché, lui più di noi, l’esistenza l’ha spogliata dagli orpelli inutili, dai fardelli dei luoghi comuni. Lo si vede nelle fotografie che ci ha regalato con generosità. Chi avrà pazienza, osservandole potrà capire di più, e a lungo. Purtroppo mancherà il ritornello delle sue canzoni; e si allargherà il silenzio della solitudine di quanti lo aspettavano, convinti di vederlo arrivare da un momento all’altro.

Mario Dondero, note biografiche

Nato a Milano nel 1928, Mario Dondero è stato un appassionato interprete della fotografia “umanista”, di testimonianza e d’impegno civile che ha segnato la storia del secondo Novecento. Formatosi nell’Italia degli anni cinquanta, in un’epoca attraversata da grandi idealità politiche che scopriva la fotografia come strumento d’indagine e racconto della società, ha lavorato per tutta la vita come fotografo freelance portando avanti un suo originale impegno di testimonianza, di confronto e scoperta del mondo, molto lontano dalle tendenze della stampa del suo tempo, spesso legate all’intrattenimento e alla foto illustrativa e “mitopoietica”. La fotografia era per lui un mezzo “per incontrare uomini e donne di origini e paesi diversi, gente famosa o ignota, ma carica di una speciale umanità”, un modo per aprirsi al mondo e stare dalla parte della gente. Con uno stile piano, che non cercava mai la foto ad effetto, che rifuggiva lo scoop e il sensazionalismo, ha seguito e documentato avvenimenti e processi storici del suo tempo, ma soprattutto ha colto la quotidianità del vivere, i rapporti umani. Ecco allora reportage come quelli sull’Algeria nei giorni dell’Indipendenza, sul maggio francese, sulla Berlino dell’89, sull’attività dell’associazione Emergency in Afghanistan negli anni 2000 ed i racconti sul mondo contadino della bassa padana, sulla vita nei paesi della Spagna e del Portogallo, sui villaggi del Mali, del Senegal, del Niger, con la loro economia di sussistenza e la loro cultura tradizionale. Nello stesso tempo Dondero si è fatto anche voce di un mondo intellettuale che condivideva le sue stesse idealità politiche e il suo impegno sociale, seguendo, in particolare negli anni cinquanta e sessanta, i percorsi di una stagione culturale di estrema vivacità: la Nouvelle Vague e il cinema di Bertolucci e di Pasolini, gli artisti di Piazza del Popolo, il teatro di Ionesco e il Nouveau Roman, i nuovi orizzonti del pensiero critico e politico.

Angelo Ferracuti, note biografiche

È nato a Fermo nel 1960; il suo esordio letterario è la raccolta di racconti Norvegia (Transeuropa 1993), cui è seguito il libro Attenti al cane (Guanda 1999), i romanzi Nafta (Guanda 2000) e Un poco di buono (Rizzoli 2001), la raccolta di reportage narrativi sul mondo del lavoro Le risorse umane (Feltrinelli 2006), tradotto in Spagna da Meettok, con il quale ha vinto il Premio Sandro Onofri, quelli di Viaggi da Fermo (Laterza 2009) e Il mondo in una regione (Ediesse 2009), i racconti de Il ragazzo tigre (Abramo 2006). Ha curato il saggio a più voci Paesaggi italiani, percorsi della nuova narrativa italiana (Transeuropa 1995), Donderoad (Cattedrale 2008), e ha scritto anche per il teatro: Comunista! (Effigie, 2008). Intensa la collaborazione con il fotografo Mario Dondero, con il quale ha pubblicato Strade di Cartoceto (Leader arte 2006). Suoi racconti sono presenti in numerose antologie, tra le quali Patrie impure (Rizzoli 2003), Laboriosi oroscopi (Ediesse 2006). Collabora con Nuovi Argomenti, Diario, Il manifesto e Rassegna Sindacale. Per la casa editrice Ediesse dirige la collana ˝Carta bianca˝.

La fotografia

Copertina del libro “Non ci resta che l’amore”.

L’immagine di copertina è una fotografia di Mario Dondero: “Due maestrine in bicicletta nella campagna del Connemara”. Irlanda, 1968.

Concordiamo con l’autore del volume, Angelo Ferracuti: «Si tratta di un’immagine di grande energia, vitalità e gioia di vivere […] Come in moltissime immagini di Mario c’è l’attimo unico e irripetibile dell’istantanea e un movimento che è narrativo, apre sempre a una storia, niente è mai statico, tutto è in movimento». Anche noi l’amiamo molto.

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