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IL REGISTA DELLA PAURA

Il titolo non deve ingannare, con i film di oggi ci spaventiamo di più. I film di Hitchcock, però sono rimasti moderni, perché, per quanto inverosimili, si manifestano alla nostra vista come plausibili. La paura vera è lì: non in quello che si vede, ma per quanto potrebbe accadere a noi, magari a fine proiezione. “Gli uccelli” ne è un esempio o anche "La finestra sul cortile". Quest’ultimo film è un affresco di tecnica, che vive in due ambientazioni: un caseggiato e un piccolo appartamento, dove vive un fotografo convalescente. Sarà lui a scoprire un omicidio, inserito con cura in un palazzo che vive di tanti personaggi variegati. Ecco, sì: in questo lavoro la fotografia diventa protagonista, il che ci fa piacere ricordarlo; ma a vincere è il racconto, quello che appare come disegnato in un fumetto d’autore. Del resto, Hitchcock era fatto così: si presentava sulla scena con delle scenografie disegnate personalmente, estremamente dettagliate. Il rigore, quello di qualità, paga sempre.

Le fotografie

Ci sono due ritratti famosi di Alfred Hitchcock e, guarda caso, portano la firma di Irving Penn e Richard Avedon. Per non ripeterci, e tentare un po’ di originalità, abbiamo optato per un paio d'immagini a firma Elliott Erwitt e Philippe Halsman. E’ bello vederli all’opera col regista inglese: documentativo il primo, ironico il secondo; da non crederci, quasi.

Alfred Hitchcock, la vita

Alfred Joseph Hitchcock nasce il 13 agosto 1899 a Leytonstone, nell’Essex, in Inghilterra. Era il figlio di Emma Jane e del fruttivendolo dell'East End William Hitchcock, entrambi di origini per metà inglesi e irlandesi. Cresce come un cattolico rigoroso, frequentando il Saint Ignatius College, una scuola gestita da gesuiti. Gli studi proseguono con l'iscrizione alla scuola di Ingegneria e Navigazione, che deve abbandonare per motivi economici, alla morte del padre nel 1914.

Fin da quegli anni, Alfred Hitchcock manifesta un grande interesse verso il mondo degli omicidi, visitando spesso il museo del crimine di Scotland Yard. Nel 1915 trova lavoro come disegnatore presso la "Henley telegraph and cable Company". Il suo interesse per i film è iniziato in questo periodo, quando frequenta spesso i cinematografi e legge riviste specializzate.

Il suo primo impiego in campo cinematografico arriva nel 1920, quando viene assunto come disegnatore di titoli in un nuovo studio londinese, il "Players-Lasky-Studios". Nel 1922 termina il film "Always tell your wife" al posto del regista ufficiale, che si era ammalato. Hitchcock si mette immediatamente in luce per le sue qualità. Gli viene affidata la sua prima regia con il film "Number 13", che però rimane sfortunatamente incompleto a causa della chiusura della sede londinese dello studio. Hitchcock non si arrese. Diresse “Il labirinto delle passioni” (1925), una produzione anglo-tedesca, che ebbe molto successo, e poi “Il pensionante” (1927). Nello stesso anno, il 2 dicembre, Hitchcock sposò Alma Reville. Ebbero una figlia, Patricia Hitchcock, nata il 7 luglio 1928, che apparirà in molti film del padre. Raggiunse ancora il successo quando realizzò in Gran Bretagna “La signora scompare” (1938) e “La taverna della Giamaica” (1939), alcuni dei quali ottennero un’eco negli Stati Uniti.

Nel 1940 Hitchcock gira il primo film americano, “Rebecca”, che vinse l'Oscar per la miglior fotografia; ma sarà negli anni ’50 e ’60 che produrrà i suoi capolavori: "Gli uccelli", "Psycho", "Vertigo", "La finestra sul cortile".

Tecnico puntiglioso, Hitchcock aveva un carattere gioviale e non supponente. Il suo lavoro lo divertiva, al punto da impegnarsi anche in televisione. Alla regia era perfetto, tanto da essere considerato un maestro della settima arte. Celebri anche le sue immancabili apparizioni da cammeo, inserite praticamente in tutte le sue pellicole. L'ultimo film con la sua firma è "Complotto di famiglia", del 1976.

Alfred Hitchcock muore a Los Angeles il 29 aprile 1980.

Il fotografo Elliott Erwitt

Elliott Erwitt nasce a Parigi il 26 luglio 1928. Non è facile parlare di lui. Abbiamo visto più volte le sue immagini, tra mostre e libri; il destino ci ha anche concesso il privilegio di stringergli la mano, ma ogni volta ci troviamo al punto di partenza. Sì perché il suo lavoro, facile a digerirsi, divertente persino, svanisce in una bolla di sapone, rilanciando significati ulteriori, allungati in idee e riflessioni.

Molti suoi colleghi ci hanno parlato di lui (anche questo ha rappresentato un privilegio). Gianni Berengo Gardin, amico di Erwitt, nonché coautore del libro “Un’amicizia ai sali d’argento”, ne riconosce il valore iconico assoluto, la capacità di indagare la persona, la sensibilità, l’ironia, la profondità del lavoro. Ferdinando Scianna, collega in Magnum, nel suo libro (un capolavoro) “Obiettivo Ambiguo”, quasi ne attribuisce un valore terapeutico. Il fotografo siciliano suggerisce di conservare un volume di Erwitt nella cassetta del pronto intervento, per i momenti bui! Subito dopo, però, ne conferma l’intelligenza, la capacità di saper far coesistere, nella stessa immagine, significati contrapposti.

Qual è la verità, allora? Perché, personalmente, di fronte alle fotografie di Erwitt ci sentiamo incompleti? Del resto sarebbe troppo semplice goderne della sola ironia, anche perché c’è molto dell’altro. Alle volte ci siamo anche commossi, esplorando Erwitt; e poi meravigliati, con un senso di sbigottimento e gratificazione.

Erwitt con i suoi scatti ci offre una visione del mondo molto personale, che ignora per lo più il paesaggio, per concentrarsi quasi esclusivamente su persone e animali, colti in atteggiamenti molto spesso insignificanti e a volte anche ironici, ma sempre in grado di suscitare empatia nell’osservatore. Ciò che emerge da queste fotografie sono le emozioni proprie degli esseri umani, viste e rappresentate in modo semplice e schietto, e sempre caratterizzate da un tocco di umorismo.

Erwitt ha avuto modo di dire: “Uno dei risultati più importanti che puoi raggiungere, è far ridere la gente”. “Se poi riesci, come ha fatto Chaplin, ad alternare il riso con il pianto, hai ottenuto la conquista più importante in assoluto”. “Non miro necessariamente a tanto, ma riconosco che si tratta del traguardo supremo”.

Anche qui riconosciamo il contrapporsi di due entità separate, di due sentimenti lontani, suffragati appunto dal riso e dal pianto. Il fotografo ha sempre nutrito grande stima per Chaplin, che più volte ha detto (parafrasiamo): “La felicità sta nella gioia di essere tristi”. Forse Erwitt ha condiviso con il regista la visione della vita, quella che accenna, dichiara, esige, restituisce; ma che alla fine, col passare del tempo, smussa gli angoli. La malinconia diventa così un sentimento a tendere, il risultato dei ricordi, il mescolarsi continuo di sensazioni dissimili, come appunto quelle del pianto e del riso.

Oggi ci sentiamo tutti fotografi, solo perché possediamo una fotocamera. In realtà non è così, come del resto non basta avere una penna per sentirsi scrittori. Essere autori è un’altra cosa e richiede molto di più che non la semplice perizia tecnica. “Dire qualcosa”, suggestionare un pubblico di guardanti, trasmettere sensazioni, implica sensibilità, senso dello stile, della composizione, forse anche una buona istintività; ma al centro di tutto deve esservi la capacità di guardare le cose nel modo giusto.

Al centro della poetica di Erwitt sta proprio l’anima della fotografia, ovvero l’osservazione, l’attenta analisi della realtà che lo circonda. Questo gli ha permesso di maneggiare giocando, ma sempre in modo benigno, i difetti propri dell’essere umano, eliminando tutte le superficialità, per giungere alla vera sostanza. Nelle sue immagini difficilmente c’è spazio per la violenza, per le guerre, o le crudeltà; in esse non compaiono né quartieri degradati, né dimore sontuose, ma vivono placidamente cani, bambini e famiglie numerose. Anche le celebrità sono ritratte nella massima spontaneità. Lo spirito che muove l’artista, e che ci permette di comprendere la sua passione per la fotografia, emerge come immagini capaci di entrare in empatia con gli osservatori: nell’impatto e durante il tempo a venire. Del resto la genesi dell’icona nasce da lì: una fotografia viene vista più volte e in ogni occasione contagia e persuade. Erwitt ci ha abituato così.

Ha detto Elliott Erwitt: «Nei momenti più tristi e invernali della vita, quando una nube ti avvolge da settimane improvvisamente la visione di qualcosa di meraviglioso può cambiare l’aspetto delle cose, il tuo stato d’animo. Il tipo di fotografia che piace a me, quella in cui viene colto l’istante, è molto simile a questo squarcio nelle nuvole. In un lampo, una foto meravigliosa sembra uscire fuori dal nulla».

Il fotografo Philippe Halsman

Philippe Halsman nasce a Riga (Lettonia) il 2 maggio 1906 da una famiglia ebrea: suo padre era un dentista, sua madre una preside di liceo. Nel Settembre del 1928, durante una gita sulle Alpi Austriache, il padre Morduch muore in circostanze misteriose. Philippe viene accusato di omicidio e condannato per questo a quattro anni di reclusione. Tutta la propaganda anti ebraica era contro di lui e all’epoca il caso si diffuse sulla stampa di tutto il mondo. Molti si espressero a favore di Philippe, a sostegno della sua causa; tra questi ricordiamo A. Einstein e T. Mann. Venne rilasciato nel 1931, a condizione però che lasciasse il territorio austriaco.

Inizia per Philippe un lungo peregrinare. Si trasferisce a Parigi, dove, come fotografo, collabora con alcune riviste di moda. Nel 1934 apre uno studio di ritratti a Montparnasse, dove fotografa André Gide, Marc Chagall, André Malraux, Le Corbusier e altri scrittori e artisti, utilizzando un'innovativa fotocamera reflex a doppia lente da lui stesso progettata.

L’invasione tedesca (1940) lo costrinse a fuggire ancora: prima a Marsiglia, poi negli USA; sempre con l’aiuto di A. Eistein. Nel corso della sua prolifica carriera in America, Halsman ha prodotto reportage e copertine per la maggior parte delle principali riviste americane, comprese le incredibili 101 cover per la rivista Life (un record). I suoi incarichi l’hanno portato faccia a faccia con molte delle personalità di spicco del secolo.

Nel 1941 Halsman ha iniziato una collaborazione con Salvador Dalí.

Nei primi anni '50, Halsman ha iniziato a far saltare i suoi soggetti, per una ragione “logica”: “Ogni inibizione dovuta alla presenza dell’obiettivo viene annullata, perché l’attenzione è rivolta maggiormente al salto”. “Vengono così rivelati i veri tratti del viso”. Le immagini ottenute, straordinariamente spiritose ed energiche, sono diventate una parte importante della sua eredità fotografica.

Ritrattista “di razza”, Philippe ha immortalato diversi personaggi illustri: oltre a Marilyn, Frank Sinatra, Dean Martin, Jerry Lewis, Muhammed Alì, Louis Armostrong.

Il caso di Philippe Halsman, quello del presunto omicidio del padre, è stato ripreso da Martin Pollack quale elemento ispiratore per il romanzo “Assassinio del Padre”, il caso del fotografo Philippe Halsman (edizioni Bollati Beringhieri). Il libro è di assoluto interesse e molto preciso nella narrazione storica. Ne esce tutta l’Austria del momento e anche il carattere del giovane Philippe. Ne consigliamo la lettura.

Halsman muore il 25 giugno 1979, a New York (USA).

Le fotografie

Alfred Hitchcock e Vera Miles, New York City 1957. Photo Elliott Erwitt.

Alfred Hitchcock per Vogue 1974. “Gli Uccelli”. Photo Philippe Halsman.

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