FOTOGRAFIA DA LEGGERE …
Per la consueta rubrica del Lunedì, incontriamo ancora Ferdinando Scianna: fotografo illustre, ma anche valente scrittore. Il libro è “Il viaggio di Veronica”, sottotitolato “Una storia personale del ritratto fotografico” (Edizioni UTET, 2021). E qui sta il primo punto di grande interesse: l’autore si espone. In un periodo storico nel quale l’omologazione rappresenta, spesso e in molti campi, la soluzione più semplice, Scianna dice la sua, ovviamente con rigore scientifico e accademico: senza nascondersi, quindi, con coraggio e autorità.
Il volume ci ha appassionato sin dalla parte introduttiva, dove si descrivono gli ambiti del ritratto: «E’ una forma di relazione conoscitiva e affettiva tra gli uomini. Se non c’è coscienza di sé e dell’altro non ci può essere ritratto». Del resto: «Il ritratto coincide con la stessa storia della fotografia». Possiamo anche aggiungere che la fotografia ritrattistica ha anche raccontato le mutazioni sociali, culturali ed estetiche dell’uomo nel mondo, spesso anticipandole o addirittura favorendole.
C’è sempre un eco forte nelle parole dell’autore ed è la voce di Henri Cartier Bresson, il “Mozart” della fotografia (per noi molto di più, perché continuando con il paragone musicale, il fotografo francese si è spinto oltre, anche verso le grandi sinfonie dell’800). E’ lui a dire: «Non tutti i fotografi sono ritrattisti, nemmeno se sono i grandi interpreti dello scatto. Spesso lo sono di più gli umili autori del villaggio». E qui sta l’ultimo “paletto” posto da Scianna nel suo viaggio: fotografi, sì; ma ritrattisti è un’altra cosa.
Nel proseguo del libro si incontrano tanti capitoli: a volte larghi, poi indirizzati ai singoli fotografi. Singolare e interessante è il commento che viene espresso circa la foto tessera: siamo noi che dobbiamo assomigliare ad essa e non il contrario. Belli sono gli spazi dedicati a Nadar (un gigante), ad Avedon, a Bresson, a Sander. Qualche perplessità ci è sorta quando si parla di Annie Leibovitz, ma poco importa: il volume di Scianna è tutto da leggere (d’un fiato) e lo si può anche consultare in un secondo tempo; quando la curiosità ci spinge a cercare nel ricordo del letto lì.
(Sinossi)
Secondo un vecchio ma efficace cliché, la prima fotografa della storia fu santa Veronica. La leggenda narra che vedendo Cristo piegato sotto il peso della croce, ricoperto di sudore e sangue, Veronica si sia avvicinata e gli abbia asciugato il viso con un panno, sulla cui tela rimasero impressi i tratti di Gesù. Ecco, allora, il primo ritratto "fotografico" della storia. Bisognerà aspettare l'inizio dell'Ottocento per un procedimento chimico e meccanico in grado di rivaleggiare con la Veronica, quando in pochi mesi, quasi in contemporanea, Niépce e Daguerre, Fox Talbot e Bayard arrivano a mettere a punto l'invenzione fatale che Sir John Herschel battezza col nome di fotografia. I primi ritratti fotografici servono per catalogare e studiare le tribù indigene di Asia e Africa, ma anche a Lombroso per mettere a punto il concetto di fisiognomica criminale e a Galton per cercare sostegno alle sue idee sull'eugenetica. Nel frattempo, per l'apparato burocratico statale la fotografia diventa una risorsa indispensabile, da declinare in milioni di ritratti in formato tessera, già prima che la propaganda la sfrutti per raccontare e sostenere il potere. Ma se da un lato il ritratto viene usato per analizzare e incasellare gli esseri umani, dall'altro sono presto evidenti le potenzialità estetiche di questa tecnica rivoluzionaria. Nadar la eleva all'altezza dell'arte figurativa classica, aprendo la strada ai grandi fotografi di ritratto: da Margaret Cameron a Lewis Hine, da Dorothea Lange a Richard Avedon, fino ai capolavori di Cartier-Bresson, "il Mozart della fotografia". Che siano immagini glamour accuratamente studiate in teatri di posa o scatti rubati alla realtà inconsapevole, i ritratti raccontano tanto sul soggetto rappresentato quanto sul fotografo, sulla sua visione del mondo e sull'idea che sorregge quello scatto. Un gioco di specchi affascinante in cui si riflette la storia di come l'uomo ha codificato la propria immagine, di come osserva e rappresenta se stesso.
Ferdinando Scianna, note biografiche
Ferdinando Scianna nasce a Bagheria in Sicilia, nel 1943. Comincia a fotografare negli anni '60, mentre frequenta la facoltà di Lettere e Filosofia all' Università di Palermo. In questo periodo fotografa, in modo sistematico, la sua terra, la sua gente, le sue feste. Nel 1965 esce il volume Feste Religiose in Sicilia, con un saggio di Leonardo Sciascia: ha così inizio una lunga collaborazione e amicizia tra Scianna e lo scrittore siciliano. Pochi anni più tardi, nel 1967, si trasferisce a Milano, lavora per L'Europeo, e poi come corrispondente da Parigi, citta in cui vivrà per dieci anni. Nel 1977 pubblica in Francia Les Siciliens (Denoel), con testi di Domenique Fernandez e Leonardo Sciascia, e in Italia La villa dei mostri, sempre con un'introduzione di Sciascia. A Parigi scrive per Le Monde Diplomatique e La Quinzaine Litteraire e soprattutto conosce Henri Cartier-Bresson, Ie cui opere lo avevano influenzato fin dalla gioventù. Il grande fotografo lo introdurrà nel 1982, come primo italiano, nella prestigiosa agenzia Magnum. Dal 1987 alterna al reportage la fotografia di moda riscuotendo un successo internazionale. È autore di numerosi libri fotografici e svolge da anni un'attività critica e giornalistica; ha pubblicato moltissimi articoli su temi relativi alla fotografia e alla comunicazione per immagini in generale. Gli ultimi libri pubblicati con Contrasto sono Ti mangio con gli occhi (2013), Visti&Scritti (2014), Obiettivo ambiguo (2015) e In gioco (2016).
La fotografia
“Il viaggio di Veronica, una storia personale del ritratto fotografico”. UTET, 2021.