SPENTO IL FUOCO DEL KUWAIT
Il 6 novembre 1991 viene spento l'ultimo incendio dei pozzi di petrolio in Kuwait. L'armata irachena, durante la ritirata, aveva dato fuoco a circa 700 pozzi di petrolio, i quali bruceranno 6 milioni di barili al giorno. Per spegnerli tutti ci sono voluti dieci mesi.
Tutto era iniziato l’anno precedente. La prima guerra del Golfo, scoppiata con l’operazione Desert Storm la notte del 17 gennaio 1991, veniva di fatto autorizzata due mesi prima, con la risoluzione ONU 678 del 28 novembre 1990.
Il primo Aprile del 1991 Salgado arriva in Kuwait, quando i bombardamenti sono ormai terminati; ma l’esercito di Saddam Hussein aveva incendiato 700 pozzi di petrolio nel deserto del Kuwait. Sette mesi dopo, alcuni pozzi bruciavano ancora.
Quando Sebastião Salgado arriva in Kuwait si trova di fronte a una scena apocalittica lunga mesi e mesi che alcuni eroi, così li definisce Salgado, tentano di arginare. «Ricordo che il calore deformava gli obiettivi della mia macchina fotografica» ha scritto venticinque anni dopo Sebastião Salgado sul New York Times. «Le mie mascelle erano stremate dalla tensione per essere esposti ore ed ore a quelle temperature. C’era rumore, c’era puzza e c’era una continua paura di una grande esplosione. Ho capito immediatamente che avevo bisogno di attrezzature speciali se volevo fotografare da vicino quelle persone impegnate a spegnere gli incendi. Per fortuna, lungo la strada ho trovato calzature e indumenti protettivi lasciati nel deserto dall’esercito iracheno in fuga; uno dei più grandi disastri ecologici della storia moderna».
Sebastião Salgado, un incontro con lui.
Abbiamo incontrato Salgado: un momento unico, indimenticabile. Lui parlava francese e Berengo Gardin (suo amico) fungeva da interprete. Un ricordo così nitido e felice ci invita a ripetere quanto scrivemmo in occasione del suo compleanno (nasce l’8 febbraio 1944). Era il febbraio 2014. C’era l’acqua alta, a Venezia; quasi un segno del destino. Debuttava “Genesi”, la mostra di Salgado (ai Tre Oci) e la “città sull’acqua” mostrava i segni della propria sofferenza. Se n’è parlato anche in conferenza stampa, quando una giornalista ha detto: “Salgado, è un onore averla qui”. “Vede com’è ridotta la nostra città?”. “Lei può farci un regalo, scattare una fotografia che possa essere testimonianza di una situazione drammatica”.
Il fotografo, sempre attento e lucido, non ha declinato l’invito; si è limitato a sottolineare come una fotografia, da sola, non possa smuovere le opinioni. “Occorrono progetti”, ha aggiunto, “A più livelli”. “E’ la società che deve cambiare, a partire dalla coscienza collettiva”. Una delle anime dell’attività condotta dal fotografo brasiliano sta proprio lì: nella capacità di costruire architetture complesse, progetti appunto; condotti peraltro a lunghissimo termine, coerenti, forti, imponenti, quasi impossibili.
Crediamo che Sebastião Salgado vada approcciato proprio nella dimensione che riesce a restituire ai propri lavori. Certo, questa volta conta il bianco & nero (in Genesi), l’elemento compositivo, la forza dell’immagine, l’impatto che fa scaturire; ma la fotografia del nostro vive in simbiosi con la sua vita, con il credo che la contraddistingue, arrivando a influenzarne lo stesso comportamento. Un grande del passato ebbe modo di dire che “lo scattare immagini rappresenta un modo per condurre la propria esistenza”; per Salgado questo è ancor più vero. Le sue opere respirano della sua emozione, ne prendono vita: in un istante, quello del Click, da raggiungersi quasi come in un rito, religiosamente. A Venezia l’ha confermato: “Quando mi trovavo di fronte a un paesaggio, ho capito Ansel Adams, quello che desiderava; la dimensione spirituale che si raggiunge aspettando quella luce, quel momento”. “Del resto”, ha aggiunto, “Non volevo vestire i panni di un fotografo tradizionale”. “M’interessavano invece le emozioni nate da un viaggio durato otto anni”. Naturalmente Sebastião si stava riferendo a Genesi, il lavoro esposto a Venezia, la cui forza deriva da un atteggiamento altrettanto teutonico, portato avanti per la propria fotografia: “Occorre disciplina”, ha spiegato, “Disciplina di vita e organizzazione, anche e soprattutto a livello mentale”. “Durante la messa in opera del progetto Genesi, io non potevo ammalarmi; perché alla base vi era un lavoro d’equipe, pianificato per due anni”. “Quando si opera per così tanto tempo, si sta mettendo in gioco la propria vita, o buona parte di essa; non vi è quindi solo un aspetto produttivo, bensì anche una dimensione individuale”.
C’è tanto rispetto nelle parole di Salgado, almeno questo è ciò che abbiamo intuito allora. Se ci pensiamo bene, la vera novità di Genesi sta nel soggetto scelto: questa volta la natura e non l’uomo, com’era invece capitato nei lavori precedenti. Certo, alla mostra (e nel libro omonimo) compaiono tanti ritratti (stupendi), ma si tratta di un’altra cosa. Sebastião ha compreso quanto aveva di fronte, con rispetto e in un percorso di conoscenza che l’ha portato dentro se stesso: probabilmente il viaggio più importante. Natura o uomo non avrebbe fatto differenza.
Sebastião Salgado, note biografiche
Sebastião Ribeiro Salgado nasce l’8 febbraio 1944 ad Aimorés, nello stato di Minas Gerais, in Brasile. A 16 anni si trasferisce nella vicina Vitoria, dove finisce le scuole superiori e intraprende gli studi universitari. Nel 1967 sposa Lélia Deluiz Wanick. Dopo ulteriori studi a San Paolo, i due si trasferiscono prima a Parigi e quindi a Londra, dove Sebastião lavora come economista per l’Organizzazione Internazionale per il Caffè. Nel 1973 torna insieme alla moglie a Parigi per intraprendere la carriera di fotografo. Lavorando prima come freelance e poi per le agenzie fotografiche Sygma, Gamma e Magnum, per creare poi insieme a Lèlia la agenzia Amzonas Images, Sebastião viaggia molto, occupandosi prima degli indios e dei contadini dell’America Latina, quindi della carestia in Africa verso la metà degli anni Ottanta. Queste immagini confluiscono nei suoi primi libri.
Tra il 1986 e il 2001 Salgado si dedica principalmente a due progetti: prima documenta la fine della manodopera industriale su larga scala nel libro “La mano dell’uomo”, (Contrasto, 1994); quindi documenta l’umanità in movimento, non solo profughi e rifugiati, ma anche i migranti verso le immense megalopoli del Terzo mondo, in due libri di grande successo “In cammino e Ritratti di bambini in cammino” (Contrasto, 2000). Grandi mostre itineranti (A Roma alle Scuderie del Quirinale e poi a Milano all’Arengario di Palazzo Reale) accompagnano l’uscita dei libri. “Genesi” inizia come progetto nel 2003 e viene presentato al mondo dopo nove anni di lavoro. La mostra è accompagnata dal libro omonimo (Taschen, 2013).
Lélia e Sebastião hanno creato nello stato di Minas Gerais in Brasile l’Instituto Terra che ha riconvertito alla foresta equatoriale - che era a rischio di sparizione - una larga area in cui sono stati piantati decine di migliaia di nuovi alberi e in cui la vita della natura è tornata a fluire. L’Instituto Terra è una delle più efficaci realizzazioni pratiche al mondo di rinnovamento del territorio naturale ed è diventata un centro molto importante per la vita culturale della città di Aimorès.
“Kuwait, un deserto in fiamme” è la mostra che ci ha permesso di conoscere il lavoro di Salgado circa gli incendi del deserto. Si è tenuta nello spazio Forma Meravigli, a Milano, dal 20 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018.
Le fotografie
Un pompiere esausto, Kuwait 1991. Sebastião Salgado.
Spray chimici proteggono il pompiere dal calore delle fiamme. Kuwait, 1991. Sebastião Salgado