LAMPADA OSRAM
La Stazione Termini in Roma fu inaugurata il 20 dicembre 1950 e per parlarne partiamo proprio dalla Lampada OSRAM, un lampione altissimo eretto sul piazzale antistante lo scalo ferroviario. I ricordi di gioventù ci riportano lì, perché era il luogo degli appuntamenti per chi provenisse da destinazioni diverse. Tra l’altro la struttura, poi disinstallata, è stata protagonista dell’omonima canzone di Claudio Baglioni, incisa nell’LP Sabato Pomeriggio (1975).
La Stazione Termini, però, non è solo un nodo dei trasporti di Roma, ne rappresenta anche un simbolo culturale, poi adottato dal cinema, italiano e internazionale. Cinecittà ha spesso ambientato i suoi film in quel luogo di binari, fatto d’incontri e di addii, di vite che s’incrociano e strade che si separano. Del resto, un po’ tutte le stazioni sono così: fotogeniche per definizione, perché non frequentate a caso, ma con uno scopo; e quindi ricche di storie individuali. Ne sanno qualcosa i Fratelli Lumière, che hanno ambientato un loro corto con un treno che arriva tra la gente che lo aspetta. Il titolo era: “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” (1896).
Tre anni dopo l’inaugurazione dello snodo ferroviario di Roma, Vittorio de Sica diresse un film intitolato proprio “Stazione Termini” (1953). Già prima dell’inaugurazione ufficiale, però, Termini fu utilizzata come set per una scena d’inseguimento in galleria nel film “Il cammino della speranza” di Pietro Germi, mentre a metà degli anni Ottanta Federico Fellini la scelse per la scena di apertura e di chiusura del suo film “Ginger e Fred”, nel quale si vede una stazione Termini tappezzata di finti cartelloni pubblicitari.
Del resto, il treno e la stazione sono luoghi fondamentali del 900, il secolo durante il quale si sono espressi cinema e fotografia, che pure guardano altrove, verso un mondo nuovo, a volte migliore; un po’ come il treno, col quale si viaggia verso una destinazione consapevole, oggettiva e mentale. L’appuntamento per tutti noi è lì, sotto quella luce che non c’è più, ma che ancora illumina la nostra fantasia: Lampada OSRAM.
Stazione Termini, notizie storiche
Con i suoi 150 milioni di passeggeri all’anno Roma Termini è la stazione più grande d’Italia e la quinta in Europa per traffico. Dispone di 32 binari e, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il suo nome non vuole intendere “meta finale”, ma deriva dalla parola latina “thermae” e si riferisce alle antiche Terme di Diocleziano che si trovavano dove oggi sorge Piazza dei Cinquecento, di fronte alla stazione appunto.
Roma Termini si è modificata nel tempo, a fronte di rinnovate esigenze. I lavori per la costruzione della prima versione furono inaugurati da Papa Pio IX nel 1868 e coordinati dall’architetto Salvatore Bianchi. Il pontefice, che chiamò Termini come "la stazione della capitale d’Italia", contrariamente al suo predecessore (Gregorio XVI), si era dimostrato lungimirante nei confronti del mezzo ferroviario e aveva dato il via alla costruzione di alcune linee ferrate, per collegare Roma con i principali centri dello Stato Pontificio. L’inaugurazione della prima linea, la Roma – Frascati (linea Pio - Latina), avvenne il 7 luglio 1856: il percorso di 19 km era coperto in poco più di mezz'ora. Seguirono nel 1859 la linea Roma - Civitavecchia (Pio-Centrale), lunga 73 km e nel 1862 la linea Roma - Velletri - Ceprano.
La diffusione dell’energia elettrica e l’aumento del traffico ferroviario poi portarono alla demolizione della stazione nel 1939, per fare spazio a un nuovo impianto la cui costruzione fu rimandata a causa del conflitto mondiale. I lavori ripresero nel dopoguerra e la stazione fu nuovamente inaugurata nel 1950. Sarebbero però arrivate ulteriori ristrutturazioni, meno di cinquant’anni dopo; per arricchirla di negozi, edicole e servizi vari in vista del grande afflusso di turisti previsto per il Giubileo del 2000.
Il fotografo Piergiorgio Branzi
Piergiorgio Branzi (6 settembre 1928 - 27 agosto 2022) si avvicina alla fotografia nel 1953, dopo aver visitato una mostra di Henri Cartier-Bresson. Formatosi nella tradizione figurativa rinascimentale toscana, dotato di una naturale eleganza, divenne ben presto un maestro del “ritratto di scena”: monsignori, bambini, borghesi, paesani, colti di sorpresa, con sottile sarcasmo, in bilico tra un sommesso lirismo e una vivida caratterizzazione psicologica. Tra i primi a cogliere la modernità dei grandi modelli stranieri e a sperimentare l'uso del nero profondo, sconosciuto in Italia negli anni Cinquanta, Branzi diventa, con Paolo Monti e Mario Giacomelli, un geniale innovatore dei codici linguistici della fotografia. La "Biblioteque National de France" di Parigi ha istituito nel 2007 un "Fondo permanente" delle sue opere. Sue immagini sono state acquisite anche dal "MOMA" di San Francisco, "Guggenheim Museum" di New York, "Fine Art Museum" di Huston, "Istituto Superiore Storia della Fotografia", "Archivio Fratelli Alinari", oltre che da altri pubblici istituzioni gallerie, in Italia e all'estero.
Piergiorgio Branzi, un libro. Sinossi.
“Il giro dell’occhio” (Piergiorgio Branzi, Edizioni Contrasto) è un libro che raccoglie le fotografie di Piergiorgio Branzi realizzate in più di cinquanta anni di sguardi sul mondo, anni di “osservazioni attive” di un grande interprete del nostro tempo.
Le sue immagini, suddivise e raccolte nel volume per serie spaziali e temporali, si intrecciano con le riflessioni, i ragionamenti e i ricordi di una stagione importante della fotografia e della cultura italiana. Un insieme di temi che accompagna il racconto di una vita piena di meraviglie e di scoperte.
Il volume, introdotto da un contributo di Alessandra Mauro e da un saggio di Branzi stesso in cui l’autore descrive il proprio rapporto con i “linguaggi dell’immagine”, è diviso in sei sezioni, che corrispondono ai diversi luoghi che l’autore ha fotografato nel corso degli anni. Ogni sezione è introdotta da un suo breve testo. Ed ecco che, pagina dopo pagina, il libro ci guida in un percorso che va dalle foto in bianco e nero degli anni Cinquanta realizzate nella sua Toscana (Chiaroscuro toscano) alle immagini che danno conto di uno sguardo complessivo sulla Penisola (Scoperta dell’Italia), fino ad arrivare alle fotografie che riguardano il Mediterraneo, per passare poi a Mosca dove Branzi ha vissuto cinque anni in quanto inviato per la Rai, e Parigi. Il libro si chiude con la sezione Le forme, che contiene l’ultima produzione del fotografo, quella più sperimentale, e una breve nota autobiografica.
«Potrà sembrare un’affermazione azzardata ma, a mio giudizio, fotografare è un’operazione compromettente. Compromettente perché quel fondo di bicchiere che conosciamo, e che capta quel lampo di luce che racchiude un frammento di realtà, è rivolto verso l’esterno, ma l’immagine proviene dal nostro intimo più profondo e nascosto: e ci racconta e ci smaschera».>br> (Piergiorgio Branzi)
Il fotografo Gabriele Basilico
Basilico è spesso abbinato alla fotografia d’architettura, anche se deve essere considerato uno dei più famosi fotografi italiani. Ha lavorato molto anche all’estero.
Nel 1983, a Les Rencontres d’Arles, venne avvicinato da Bernard Latarjet, dirigente dell’agenzia statale francese DATAR, che si occupava di pianificare, o meglio di progettare, il futuro del paese sul piano dell’economia territoriale, urbana e agricola. Latarjet stava progettando una grande missione fotografica da realizzarsi dal 1984 in poi, per fare una ricognizione del paesaggio francese in un momento di grandi cambiamenti come quello del passaggio all’era post-industriale. La missione assomigliava a quella che era stata condotta negli anni ʼ30 in America, durante la grande crisi, e ancora in Francia agli inizi della fotografia. Basilico è stato il primo e unico italiano a partecipare a quella missione.
Basilico nasce a Milano il 12 agosto 1944. Dopo il Liceo artistico, si laurea in Architettura al Politecnico di Milano. Inizia a fotografare mentre è ancora studente, ed è la fotografia sociale il suo primo interesse: nel momento della contestazione studentesca, delle lotte operaie, delle manifestazioni di piazza, del desiderio di cambiare il mondo. Nonostante la gratitudine sempre dimostrata a Gianni Berengo Gardin, suo maestro, o all’amico Cesare Colombo; nonostante la stima per William Klein, il reportage non è il genere di fotografia che realmente gli appartiene.
La sua indole riflessiva lo porta molto presto alla ricerca della forma e dell’identità della città. Da lì passerà ai mutamenti in corso nel paesaggio contemporaneo, fino alla sua urbanizzazione.
Lui ha sempre avuto un’alta concezione della fotografia. In una delle ultime interviste ha detto: “La fotografia è entrata da parecchio tempo, e a buon diritto, nel mondo dell’arte”. “Sono convinto però che un’unità della fotografia nel grande bacino della ricerca artistica è un’idea troppo riduttiva: una cosa è usare la fotografia come linguaggio per comunicare un’opera concepita in modo diverso (per esempio un’installazione), un’altra cosa è pensare «fotograficamente», interpretandola, la realtà”.
Basilico ci ha lasciato da poco, il 13 febbraio 2013, generando un vuoto difficilmente colmabile. Le città e i paesaggi non avranno più la loro voce, perché non ci sarà più colui in grado di ascoltarla. E’ una questione di dedizione, cultura, sensibilità, coraggio. Gabriele delle sue città cercava l’anima.
Le fotografie
Piergiorgio Branzi. Stazione Termini, Roma, ca. 1960/’70
Gabriele Basilico. Stazione Termini, Piazza dei Cinquecento, 2005.