JAMES JOYCE E BERENICE ABBOTT
Come ricordavamo lo scorso anno, James Joyce, scrittore, poeta e drammaturgo irlandese, nasceva a Dublino il 2 febbraio 1882. Di lui ricordiamo, personalmente, l’Ulisse e i Dubliners (Gente di Dublino), per noi entrambe letture giovanili. La nascita del letterato irlandese ci permette di ricordare Berenice Abbott. Lei ritrarrà Joyce in due occasioni: nel 1926, a casa sua; poi nel 1928, in studio. Conosciamola meglio.
Berenice Abbott nasce a Springfield, Ohio, il 17 luglio 1898. Studia giornalismo per un breve periodo alla Ohio State University prima di dedicarsi da autodidatta alla scultura a New York. Nel 1921 si trasferisce a Parigi divenendo parte dell’American expatriate society. Impara la fotografia lavorando come assistente nello studio di Man Ray, dal 1923 al 1925, che la incoraggia nei foto ritratti. Decide in seguito di dedicarsi in proprio alla fotografia di ritratto immortalando personaggi famosi, tra i quali Max Ernst. Le sue foto si distinguono da quelle di Man Ray per il tentativo di catturare la gestualità e le espressioni del volto, secondo uno stile ritrattistico che sarà sinonimo di Abbott. Tiene una prima personale a Le Sacre du Printemps nel 1926 e la sua reputazione è già affermata quando, nel 1928, partecipa alla collettiva “Premier Salon Independant de la Photographie”.
Nello studio di Man Ray, Abbott conosce Eugène Atget (1857-1927), un fotografo documentarista che influenzerà la sua successiva produzione fotografica. Abbott acquista migliaia di negativi e stampe dallo studio di Atget prima di tornare a New York nel 1929. Seguendo l’esempio di Atget documenta la città di New York (la gente e gli edifici) in una serie di scatti che verranno pubblicati nel volume Changing New York (1939). Negli anni quaranta e cinquanta si dedica alla fotografia scientifica, adattandovi equipaggiamento e tecnica.
Berenice Abbott muore a Maine il 9 dicembre 1991.
Come in un film
Guardiamo a lungo il ritratto di Berenice, quello a firma di Man Ray. Una frangetta impertinente incornicia due occhi chiari: dolci ma attenti. La fantasia ci trasporta alla New York dell’epoca. Siamo nei cosi detti Anni Ruggenti, quelli del Grande Gatsby per intenderci, dove cinema, letteratura e musica (ma anche fotografia) offrono il meglio di sé. L’espansione industriale avanza, favorendo mode e tendenze in ogni campo, prima dei fallimenti della grande depressione, datata 1929, e del proibizionismo. Nella Grande Mela si costruiscono grattacieli.
È vivace, Berenice, e anche ambiziosa, nel Greenwich Village incontra Marcel Duchamp e Man Ray. Li vediamo parlare, ma facciamo fatica a sentire. Le note di un Charleston nascondono le parole; il ritmo musicale è dinamico, elegante, espressione della gioia di vivere, anche se sincopato.
“Vieni da me domani”, avrà suggerito Man Ray; e Berenice si sarà recata sicuramente all’appuntamento, conscia di dover posare per dei ritratti, o anche di più. Li vediamo già insieme i due: lui è deciso, attento, capace; lei ascolta, osserva, ha coraggio.
Man Ray avrà detto: “Io mi sforzo semplicemente di essere il più libero possibile: nel mio modo di lavorare; nella scelta del mio soggetto”. “Nessuno può dettarmi norme o guidarmi”. “Possono criticarmi, dopo, ma allora è troppo tardi”. “A quel punto il lavoro è fatto e io ho assaporato la libertà”. “Per esprimere ciò che sento, mi servo dello strumento più idoneo per dar corpo a quell’idea”. “Non m’interessa essere coerente come pittore, come creatore di oggetti o come fotografo”. “Posso servirmi di varie tecniche diverse, come gli antichi maestri che erano ingegneri, musicisti e poeti nello stesso tempo”.
Berenice ha ascoltato, come solo certe donne sanno fare. La vediamo ancora lì, sempre con la frangetta in ordine e lo sguardo attendo. Lei è fuggita dalla provincia con decisione e, di fronte all’artista, ha già scelto: il suo destino, il prossimo viaggio, la fotografia.
“Vengo anch’io”, deve aver detto.
“Dove?”, avrà chiesto Man Ray.
“A Parigi”, è stata la risposta di lei.
Le note del Charleston echeggiano ancora. Berenice cammina a passo spedito. Alle volte sembra correre. La frangetta sobbalza e gli occhi guardano le luci e i clamori di una città mai ferma. Le sue idee sono già alla fotografia, ai ritratti, ai futuri incontri con i propri soggetti; a cosa dire, ma soprattutto a cosa chiedere a chi avrà di fronte.
Il vento, il sole, il mare: Berenice stringe gli occhi e guarda la città che s’allontana. Parigi l’aspetta, insieme a Man Ray. In quegli anni la capitale francese è in pieno fermento.
Cosmopolita, mondana e liberale, arrivano in tanti a, da ogni angolo d’Europa e d’oltreoceano; tra questi le più grandi personalità dell’arte, della cultura, della musica e dello spettacolo. C’è aria di rinascita e la città diventa la capitale internazionale della creatività.
Non ha fatto fatica ad ambientarsi, Berenice, forte della sua scelta. Accetterà il ruolo di assistente con Man Ray, ma già gli occhi guardavano altrove, quando, osservando il panorama dalla finestra, immaginava un atelier tutto suo, in quella Parigi che ormai gli appartiene.
Ed eccola lì, la nostra fotografa, proprio dove aveva sognato. Poseranno per lei: Jean Cocteau, James Joyce, Max Ernst e André Gide, il pittore giapponese Foujita e la principessa Eugénie Murat, nipote di Napoleone.
È soddisfatta, Berenice, contenta. I suoi ritratti verranno esposti alla galleria Sacré du Printemps e sarà ancora un successo. Lei ne è consapevole: si sente fotografa, autrice e artista.
Un altro incontro
Non sappiamo dove, come, quando; proviamo solo a immaginare. Berenice Abbott incontra il fotografo francese Eugène Atget (Libourne, Francia, 1857 - Parigi, 1927), un anziano signore, taciturno e timido, conosciuto soprattutto per il suo lavoro sui cambiamenti del paesaggio urbano di Parigi.
Atget, infatti, è stato testimone di una Parigi che stava scomparendo per lasciar posto ai grandi cantieri, che avrebbero fatto della Capitale francese una città moderna. Per Berenice Abbott, il fotografo francese Atget diventerà fonte d’ispirazione, segnando una svolta nel suo percorso fotografico.
Quando la Abbott, nel 1929, torna a New York, trova una città molto diversa, con i palazzi demoliti per far spazio a nuovi grattacieli. Decide così di realizzare qualcosa di simile al lavoro di Atget: inizia a scattare fotografie in ogni dove, per raccontare la vita degli abitanti e i mutamenti della città.
A questo progetto la Abbott dedicò tutti gli anni Trenta, quelli della Grande Depressione. Ne nascerà la sua opera più famosa: “Changing New York”, un volume pubblicato nel 1939, tra i più importanti nella storia della fotografia del ventesimo secolo.
Berenice Abbott ha affrontato la vita con decisione, e coraggio; avendo anche la capacità di tornare, se necessario. Arriverà a New York per ambizione e lì tornerà cambiata, matura, forse taciturna come Atget. La Grande Mela doveva essere compresa nuovamente, raccontata forse, sicuramente testimoniata; e lei ha continuato a chiedere, come di fronte ai soggetti da ritrarre: a se stessa e alla sua fotografia.
Le fotografie
Berenice Abbott, James Joyce 1928
Berenice Abbott fotografata da Man Ray, Parigi 1924