L’ETA’ DI FULVIA, UN RACCONTO
Era bella, Fulvia: anche di più. La ricordano ancora oggi, qui: a Ponte della Venturina; perché il solo vederla passare bastava per tenerla in mente, a lungo. Aveva capelli neri, folti, ed occhi profondi, intensi; e denti bianchissimi, che ad ogni sorriso sembravano prenderti in giro. Il corpo, poi, viveva di vita propria: quasi disgiunto dalla vivacità della persona, perché sinuoso, invitante, imbarazzante.
Compariva d’estate, come d’incanto; e tutti gli occhi erano per lei, non solo quelli dei coetanei: perché Fulvia era appiccicosa allo sguardo e all’idea, per giovani ed attempati. I suoi nonni parlavano della nipote con un linguaggio consueto, e dei soliti argomenti: la scuola, gli studi, le qualità, quella vita in città così speciale perché distante, non verificabile. Ma Fulvia era diversa e quei discorsi suonavano male; era più facile guardala passare ed immaginare: il bello o il brutto, con l’invidia o il desiderio, con la passione e, alla fine, il sogno.
A Fulvia tutto era dovuto: non perché pretendesse, ma per il fatto che tutti le prestavano attenzione. E premura. Tutto ciò capita ai belli, sin da bambini; perché loro non vogliono giocare, ma si concedono nel farlo: così è importante approfittarne; lo stesso dicasi per le feste, le gite, e quelle sere d’estate fatte di caldo, buio e stelle. I giovani le hanno sempre usate per conoscersi e scoprirsi, senza però accorgersi che il tempo sarebbe passato come quel treno lucido, proprio sotto il ponte. “Chi prende il treno a quest’ora è solo nella vita”, diceva Fulvia, ma nessuno la stava ad ascoltare; il solo vedere il suo volto senza il bianco del sorriso era una primizia da non perdere, per potere ricordare meglio.
Non conosciamo tutti gli amori di Fulvia, ma gli spasimanti sì; e sono stati tanti. A quel tempo l’Appennino era popolato da giovanotti longevi: ogni anno un po’ diversi, ma sempre con l’andatura sicura e spavalda. Non si sarebbero mai permessi di sedersi ad un tavolino, né di ballare alla Fontanina: laggiù, vicino al tennis. Appoggiati al bancone dei bar, osservavano distratti la gente, le macchine, le ragazze. Erano Pepo, Loris, Checco, e tanti altri; tutti avvolti dal medesimo comportamento: la macchina parcheggiata distrattamente, il finestrino lasciato aperto, la sigaretta appena appiccicata al labbro e quell’ultimo sguardo al cofano e alle gomme. Larghe.
Pepo ci aveva provato, ed anche Loris; Checco viveva nella convinzione di piacere, a Fulvia. Ma lei non era stata dei tre, neanche col pensiero. Si parlava di amori “di fuori”, di fughe in città, addirittura di un camionista della “bassitalia”. Eppure faceva rabbia: quelle gambe lunghe a dismisura avrebbero risuscitato un morto! Chi sarebbe stato il marito fortunato? Chi l’amante? Mistero! Anche oggi.
A dire il vero, una passione c’era stata: sin da bambina. Quel treno sotto il ponte di notte era per le persone sole, ma di giorno era per Fulvia. Lo sentiva da lontano, quando ancora era alla Madonna del Ponte: perché il locomotore saliva lentamente, con un rumore ruvido, quasi asfittico. “C’è Gianni che guida”, diceva; e correva dalla farmacia lungo il ponte. Lo faceva anche con le ciabatte da mare, perché la gamba la sosteneva anche quando sembrava per cadere.
“Gianni, Gianni”, urlava: che il treno era lì sotto, pronto a fermarsi in stazione. “Gianni, Gianni!”. E Gianni usciva, quasi a fatica dal finestrino stretto, con quel sorriso ironico sotto un baffo da cacciatore. Lui era l’uomo e la macchina, ma libero e fiero: uno che non avrebbe chiesto nulla, soprattutto qualora avesse donato qualcosa.
“Ai bambini piacciono sempre i treni”, era il commento dei vecchi. Non era il caso di Fulvia. Lei voleva un treno che la portasse via: non da Pepo, Loris o Checco; nemmeno da Ponte della Venturina. Voleva scappare dalla sua tristezza antica, da quel doversi sentire fortunata per essere bella. Perché non si può essere selettivi per diritto naturale, ma per le proprie idee. Anche Fulvia sentiva che Dio era morto e risorto, che Lisa aveva gli occhi blu: magari in un pomeriggio troppo azzurro e lungo, quando quel carretto sarebbe passato con un uomo che gridava gelati. Ma lei era stanca: dell’imbarazzo di alcuni e del coraggio di altri. Tutti avrebbero chiesto e preteso solo la sua buccia: tutti tranne Gianni. Lui no, ne era sicura. Se anche si fosse svestita in stazione, tra i vecchi di Ponte della Venturina, Gianni sarebbe ripartito, anche quando, col tempo, i capelli avrebbero iniziato a diradare la fronte all’età matura.
Che rabbia l’Appennino, il tempo passa e le cose restano: le abitudini, le usanze, gli odori. Ti accorgi che è estate per il profumo, prima che per il caldo. E poi c’è quel vento, leggero alle volte: che sempre ti accompagna quando i pensieri ti avvolgono la mente e macerano i ricordi.
“Gianni, Gianni”, urlava Fulvia. Poi, con gli anni, il grido diventò sguardo, curiosità: tutto per un “amor mio” che solo lei avrebbe potuto amare.
Non correva più, Fulvia, ma alle volte si faceva trovare in stazione, magari per mano ad un cuginetto che il treno lo voleva vedere veramente. Fulvia era sempre bella, forse ancora di più. Non era più tempo, però: neanche per Pepo, Loris e Checco. Fu il vento, un giorno, a fargli ricordare che i nonni non c’erano più e neanche il ciliegio di fronte alla casa. Quel soffio le disse come le vacanze fossero diventate ferie e che sarebbe dovuta partire, prima: quando ancora era il tempo per restare.
“Passerotto non andare via”. Quella canzone sarebbe stata di Pepo, da ascoltare con gli sportelli aperti. Magari questa sera l’avrebbero suonata alla Fontanina, giù: vicino al tennis. Aspettò il treno seduta, di fianco ai nuovi vecchi; con il paese di fronte: dall’altra parte del fiume. “Chi prende il treno a quest’ora è solo nella vita”, si disse, e il vento le scompigliò i capelli.
Le porte si aprirono da sole e non scese nessuno. Si sistemò e aprì il finestrino. Ancora un alito caldo, poi un ricordo: questo è il treno di Gianni! Si sporse, guardò avanti. Vide solo due braccia e un po’ di fumo di sigaretta. “Non ricordavo che Gianni fumasse”, si disse. Era felice.
L’importanza del padre
Il titolo rischia sempre di ingannare. La figura paterna ha avuto la sua importanza, senza però influenzare direttamente Alberto Buzzanca. Possia-mo dire che sono stati i ricordi del padre ad aver ispirato il nostro fotografo, peraltro piuttosto tardi nel tempo. Non ci troviamo di fronte a Monaldo e Giacomo (Leopardi), tantomeno a Leopold e Wolfgang (Mozart). Di questi mancano i conflitti, forse le stesse contraddizioni. Padre e Figlio, Buzzanca in questo caso, sono due figure simili: che si sono passate il testimone per il bello e l’eleganza. Ringraziamo entrambi, perché forse un giorno scopriremo che quanto uno ha lasciato è stato subito preso dall’altro, se pure in una disciplina diversa.
Delle immagini di Alberto c’è poco da dire: sono molto belle. Si ha quasi la sensazione che lui abbia lavorato assiduamente, in profondità: perché ovunque c’è coerenza, stile, riconoscibilità. Lo abbiamo scovato quasi nel nulla: come spesso accade quando cerchiamo qualcosa su Internet. All’improvviso si percepisce di essere di fronte all’immagine giusta, perché sensuale quasi al tatto. Al telefono la simpatia ci invita a continuare, a domandare: per capire il ruolo di una vita. Al bello ci si arriva con la fatica della rincorsa; con le immagini che vediamo ne abbiamo la conferma.
Alberto Buzzanca, note biografiche
Alberto Buzzanca nasce a Gorizia nel 1969. eredita dal padre, pittore visionario e vignettista pungente, l’armamentario per fotografare; ma forse molto di più. All’età di 23 anni nasce così il suo impegno artistico e la fotografia diventa la sua principale professione. Dopo gli inizi paesaggistici diventa interprete di un nuovo concetto della fotografia glamour, marcando la strada, insieme ad altri, di un filone moderno e dinamico soprattutto nelle riprese dei ritratti.
Apre uno studio e avvia la collaborazione con agenzie di comunicazione pubblicando su riviste nazionali. Tra i vari volumi, Le voci di una conchiglia 2007, in cui segue il percorso artistico del pittore Matteo Massagrande.
È vincitore nel 2009 del concorso "Photo France". Le persone sono i soggetti preferiti da Buzzanca: modelle in studio o immerse in location suggestive, ma anche uomini, donne e bambini ritratti nei reportage in giro per il mondo. Opera in digitale. Il suo stile è riconoscibile per le luci morbide che avvolgono il soggetto e creano una grande presenza.