LEE JEFFRIES A MILANO
Abbiamo visto, presso il Museo Diocesano Carlo Maria Martini di Milano, la personale di Lee Jeffries dal titolo: Portraits, l’anima oltre l’immagine. Il fotografo, nato il 6 maggio 1971 a Bolton, è diventato la voce dei poveri e degli emarginati. L’esposizione presentava una cinquantina d’immagini in bianco e nero e a colori che hanno catturato i volti di quell’umanità nascosta e invisibile che popola le strade delle grandi metropoli dell’Europa e degli Stati Uniti.
Lee Jeffries, note di vita
Fotografo autodidatta, Jeffries inizia la sua carriera quasi per caso, nel giorno che precedeva la maratona di Londra del 2008 quando scatta una fotografia a una giovane ragazza senzatetto che sedeva all’ingresso di un negozio; rimproverato per averlo fatto senza autorizzazione, Jeffries si ferma a parlare con lei, a interrogarla sul suo passato, a stabilire un contatto che andasse al di là della semplice curiosità per scavare nel profondo dell’animo della persona che aveva di fronte.
Da allora inizia a interessarsi e a documentare le vite degli homeless, passando dai vicoli di Los Angeles fino alle zone più nascoste e pericolose delle città della Francia e dell’Italia. Grazie al suo sguardo e alla sua arte spirituale, come lui stesso è solito definirla, Lee Jeffries fa emergere le persone senza fissa dimora dal buio in cui sono reclusi e cerca di ridare luce e dignità a ogni essere umano. Il suo stile è caratterizzato da inquadrature in primo piano fortemente contrastate, e da interazioni molto ravvicinate con i soggetti, uomini e donne che vivono ai margini della società, incontrati per le strade del mondo.
Questioni di stile
La sua cifra stilistica più caratteristica è quella del ritratto, sempre frontale e ravvicinato, spesso con sfondi monocromatici scuri che, elaborati con un efficace lavoro su luci e ombre, fa emergere i volti nella loro straordinaria potenza espressiva, capace di comunicare la loro sofferenza, il loro disagio e la loro condizione infelice.
L’artista inglese ha conosciuto e guardato nel più profondo dei modi tutte le persone che ha fotografato. La commovente sequenza di volti presentata in mostra non lascia affatto indifferenti; coinvolge e interroga, ma soprattutto ricorda a chiunque li osservi che tutti noi abbiamo lo stesso cuore e lo stesso desiderio di essere guardati, accolti, amati.
«Per realizzare ritratti fotografici potenti come questi – ricorda Barbara Silbe (co-curatrice della mostra insieme a Nadia Righi) -, ancor prima della competenza tecnica o della visione artistica occorrono due requisiti fondamentali: la vicinanza e l’empatia con i soggetti. Le inquadrature di Lee Jeffries spiegano da sole quale sia l’approccio con il quale interagisce coi senzatetto o con le persone in genere: nulla di superficiale, di rubato in velocità restando a distanza, ma un obiettivo corto e un approccio volto a costruire con ciascuno di loro un rapporto che vada ben oltre l’istante decisivo dell’immagine finale che noi vediamo appesa».
«L’autore – continua Barbara Silbe – ha conosciuto ogni singolo soggetto che ritrae, lo ha frequentato a lungo, a volte ha dormito con lui per strada, lo ha spesso aiutato, ben prima di inquadrarlo. In qualche modo lo aspetta, attende il tempo necessario al sorgere di quella fiducia reciproca grazie alla quale entrambi abbassano le difese per comunicare. I suoi personaggi emergono dal buio profondo, inondati da una luce teatrale, quasi caravaggesca, che restituisce ogni segno sulla pelle, ogni dolore racchiuso nel profondo dell’anima. Anche i contrasti così marcati, materici, della sua postproduzione, gli servono a svelare il mistero sull’essere umano».
Le fotografie
Due ritratti di Lee Jeffries