VENGO ANCH’IO? NO TU NO
«Vengo anch’io? No, tu no». Già, Enzo Jannacci ci ha lasciati soli, privandoci delle sue visioni sul mondo, del suo stare con i deboli. Sono passati dieci anni dalla sua dipartita e le frasi musicali (e teatrali) che ha cantato ancora ci vagano in testa. «Quelli che fanno l'amore in piedi convinti di essere in un pied-à-terre, oh yeh», cantava Jannacci nel 1975; e noi ridevamo, inconsapevoli del fatto che quel brano era solo una pennellata di un affresco musicale più ampio. Sì perché lui ha spesso mescolato generi e stili, sempre raccontando storie, tra l’ironia e, a volte, la malinconia dei melodrammi di quel tempo: «Vincenzina vuol bene alla fabbrica, ma non sa che la vita giù in fabbrica non c'è, se c'è, com'è?». Ecco che quella donna porta la voce di altre come lei, perse nel grigiore della nebbia di una grande città industriale, costrette ad affrontare le amarezze di una realtà metropolitana.
Oggi però abbiamo tempo, almeno per capire. Il suggerimento ci è arrivato forte e chiaro: «Perché ci vuole orecchio, bisogna avere il pacco, immerso dentro al secchio. Bisogna averlo tutto, anzi parecchio. Per fare certe cose, ci vuole orecchio».
Enzo Jannacci nasce a Milano il 3 giugno 1935. Simpatico di natura in pubblico, nascondeva una personalità rigorosa e un impegno incessante: diventerà medico e si diplomerà, al Conservatorio, in pianoforte, composizione e direzione d'orchestra.
Il suo esordio sarà al Santa Tecla, il tempio del rock milanese, dove suona insieme al suo grande amico Giorgio Gaber. La sua ironia lo porterà a disegnare musicalmente storie che raccontano i diseredati della Milano che è stata: personaggi dignitosi, pur vivendo ai margini. Ne è un esempio la canzone “Faceva il palo”: «Faceva il palo della banda dell'Ortiga, Faceva il palo perché l'era el sò mestee»; o anche: « El purtava i scarp de tennis, el parlava de per lu; el purtava i scarp de tennis, perché l'era un barbun».
Sempre a Milano, ecco arrivare le apparizioni al Derby. Lì Jannacci dimostra di essere uomo di spettacolo, intrattenendo il pubblico, come fosse a teatro. Sarà Dario Fo ad accorgersene, convincendolo a cantare a sipario alzato.
La musica lo porta a produrre una ventina di album e tanti 45 giri, come usava un tempo. Nascono così i grandi brani, quelli storici: “Vengo anch'io, no tu no”, “Giovanni telegrafista”, "L'Armando" e "Veronica" per citare i più noti, dei grandi success nel panorama della canzone italiana.
Jannacci si distinguerà anche come compositore di colonne sonore. Ricordiamo i film: "Romanzo popolare" di Monicelli, "Saxofone" di e con Renato Pozzetto, "Pasqualino settebellezze", che nel 1987 gli valse una nomination all'Oscar come miglior colonna sonora e "Piccoli equivoci" di Ricky Tognazzi.
Nel 1989 partecipa per la prima volta al Festival di Sanremo con "Se me lo dicevi prima", il contributo di un importante cantautore italiano alla lotta contro la droga. Nel 1991 torna al Festival di Sanremo con la canzone "La fotografia", in coppia con la grandissima Ute Lemper e riceve il Premio della Critica Musicale, nel contempo realizza un nuovo LP intitolato "Guarda la fotografia". Nel 1994 si ripresenta al Festival di Sanremo in coppia con Paolo Rossi con il brano "I soliti accordi".
Nel 1996 fa coppia in tv con Piero Chiambretti, mentre nel 1998, insieme al figlio Paolo, realizza la raccolta "Quando un musicista ride". Il lavoro è imponente e disegna un percorso temporale che fa esaltare il valore della carriera del musicista milanese.
Dopo un periodo durante il quale Jannacci riscopre il jazz (un vecchio amore), nel 2001 propone al suo pubblico il suo ultimo lavoro di studio. Dedicato a suo padre, "Come gli aeroplani" diventa un riferimento nel panorama discografico italiano, insieme a "Vengo anch'io, no tu no", "Quelli che...", e "Ci vuole orecchio".
Da tempo malato di cancro, Enzo Jannacci muore a Milano il 29 marzo 2013 all'età 77 anni.
Guido Harari, la passione e oltre
Molte volte, in fotografia, sentiamo parlare di passione, ma spesso questa scalda, motiva, induce, esalta; non andando oltre. Per molti resta uno spazio invalicabile tra l’esistere e il percepire, come se il sentimento rappresentasse unicamente uno strumento da utilizzare alla bisogna. Per Guido non è così: lui della passione si nutre, vive, opera. Non a caso, le sue idee vanno oltre, anche al di là dello spazio temporale della sua vita. Ci dice che vorrebbe essere nato prima, per trovarsi “in fase” con gli anni ’60. No, non si tratta di un rimpianto, bensì di un riflesso verso uno sguardo allargato: sempre propenso all’oltre, alla scintilla che illumina l’anima.
Per finire, ecco il ritratto: che lui ama sin dal contatto, dall’incontro. Spesso lo chiude con l’inquadratura, perché gli piace esserci, per sentirsi percepito. E allora la forza è tutta lì: tra piccolo e grande, tra dentro e fuori, tra interiore ed esteriore. Lui, Guido, cerca sempre; nutrendosi di passione. Sta a noi cercarlo, magari in un ritratto chiuso: per giunta in B/N. C’è un moto perpetuo nel suo creare, un movimento continuo. Saltiamoci sopra: è meglio.
Guido Harari, note biografiche
Guido Harari nasce al Cairo (Egitto) nel 1952. Nei primi anni Settanta avvia la duplice professione di fotografo e di critico musicale, contribuendo a porre le basi di un lavoro specialistico, sino ad allora senza precedenti in Italia. Dagli anni Novanta il suo raggio d'azione contempla anche l'immagine pubblicitaria, il ritratto istituzionale, il reportage a sfondo sociale. Dal 1994 sono membro dell'Agenzia Contrasto. Ha firmato copertine di dischi per Claudio Baglioni, Angelo Branduardi, Kate Bush, Vinicio Capossela, Paolo Conte, David Crosby, Pino Daniele, Bob Dylan, Ivano Fossati, BB King, Ute Lemper, Ligabue, Gianna Nannini, Michael Nyman, Luciano Pavarotti, PFM, Lou Reed, Vasco Rossi, Simple Minds e Frank Zappa, fotografato in chiave semiseria per una storica copertina de «L’Uomo Vogue». È stato per vent’anni uno dei fotografi personali di Fabrizio De André. Ha al suo attivo numerose mostre e libri illustrati tra cui Fabrizio De André. E poi, il futuro (Mondadori, 2001), Strange Angels (2003), The Beat Goes On (con Fernanda Pivano, Mondadori, 2004), Vasco! (Edel, 2006), Wall Of Sound (2007), Fabrizio De André. Una goccia di splendore (Rizzoli, 2007).
Di lui ha detto Lou Reed: «Sono sempre felice di farmi fotografare da Guido. So che le sue saranno immagini musicali, piene di poesia e di sentimento. Le cose che Guido cattura nei suoi ritratti vengono generalmente ignorate dagli altri fotografi. Considero Guido un amico, non un semplice fotografo.
Le fotografie
Copertina del disco “Guarda la fotografia” (1991).
Gaber, Jannacci & Fo, Milano 1989. Ph. Guido Harari.