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ERIBERTO GUIDI, NARRATORE FOTOGRAFICO

Conoscevamo già Eriberto Guidi, ma nel celebrarlo (nasce il 21 marzo 1930) ci accorgiamo come la sua carriera sia imponente. Ne abbiamo parlato con il figlio Enrico e anche con Simona Guerra, curatrice della mostra “Eriberto Guidi, sconfinamenti fotografici”, tenutasi tra il 2020 e il 2021 a Fermo.
«La nostra casa è piena delle fotografie di papà», ci dice il figlio Enrico, «Lui era un uomo riservato, di poche parole, che non amava mettersi in mostra. Preferiva raccontarsi con le fotografie». Ne esce una figura quasi timida, ma le sue immagini colpiscono per profondità, anche prese singolarmente.
Simona Guerra, al telefono, ha parlato della passione musicale di Eriberto. «Tra le sue cose», ci ha detto, «Abbiamo trovato una balalaika, una chitarra e anche un violino. Non era uno strumentista, ma si deliziava con un ascolto attento e lucido del repertorio classico». Un po’ presuntuosamente (chiediamo scusa) abbiamo fatto un parallelo con Ansel Adams, studente modesto ma valente musicista; che forse tra le note ha trovato quel rigore poi riversato nello scatto e nella stampa. Abbiamo proposto il parallelo a Simona Guerra, chiedendo se possa esserci un rapporto tra l’immagine scattata e la musica. Ecco cosa ci ha risposto: «La fotografia non è solo rigore, ma ha un suo ritmo; ecco il vero legame».
Per rimanere alla musica, Guido è stato fondatore del prestigioso Liceo Musicale di Fermo (ora Conservatorio Statale di Musica “G.B. Pergolesi”) di cui egli ricoprì per diverso tempo la carica di segretario generale. In questo ruolo, il fotografo di Fermo ha dimostrato una forte creatività, sommata a quella generosità che dovrebbe far parte del corredo di un autore.

Con Simona Guerra abbiamo parlato anche delle Marche, regione “al plurale” che però ha dato i natali a tanti fotografi, tra questi Giacomelli. «E’ vero», ci ha detto Simona, «Si tratta di un fenomeno straordinario, le Marche rappresentano un territorio fotografico, che ha ispirato tardi. Forse tutto nasce dal paesaggio o anche dall’indole creativa degli abitanti, quella che poi è sfociata nell’arte in genere».

Nel comunicato stampa della mostra fermana leggiamo: «L’autore che emerge è un vero sperimentatore; potremmo quasi affermare che egli è il Nino Migliori delle Marche: un autore che si è sempre fatto guidare dalla curiosità, dalla voglia di misurarsi con il gesto del fotografare andando oltre l’immagine. L’ha fatto per gran parte della sua vita, ma a differenza del noto autore emiliano, Guidi ha tenuto per sé molto di tale percorso; lo ha goduto privatamente, facendosi solo sporadicamente tentare dalla gioia di condividere le sue meraviglie con gli altri».

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AUGUSTE MESTRAL E L’AMICIZIA IN FOTOGRAFIA

Ci sarebbe molto da dire in questo 20 marzo, anche perché nel 1910 nasce, a Castellammare di Stabia, Vincenzo Carrese. A lui, nel 1934, il “Corriere della Sera” chiede di assumere la gestione del servizio fotografico del giornale. Il quotidiano aveva esigenza di differenziare la sua proposta e, dando al giovane Vincenzo la gestione della parte fotografica, si garantiva immagini diverse rispetto alle altre testate giornalistiche. Lui stesso s’improvvisò fotografo, iniziando ad avvalersi di altri autori, tra i quali è giusto ricordare Fedele Toscani, padre del famoso Oliviero.
Carrese aprirà uno studio a Milano e nel 1936 fonda la società “Publifoto” che in futuro diverrà una delle agenzie fotografiche più importanti del mondo.

Arriviamo al fotografo di oggi, un autore poco conosciuto che però ha solleticato la nostra simpatia. Si tratta di Auguste Mestral, che diventerà amico di Gustave Le Gray. I due scatteranno insieme, spesso firmando entrambi le opere prodotte.
Nato a Rans, un villaggio del Giura, il 20 marzo 1812, Auguste si laureò in giurisprudenza nel 1833. Nel 1840, fu nominato cancelliere del giudice di pace di Ecouen (Val d'Oise) e conobbe così Gustave le Gray, impiegato presso un notaio a Villiers-le-Bel.
Nel 1844 Mestral si dimise dalla sua posizione, stabilendosi a Parigi, iniziando a interessarsi al dagherrotipo, che praticava con talento; anche se non rimangono tracce del suo lavoro; firma comunque anche alcune stampe di paesaggi realizzate nel suo paese natale e in Bretagna. Membro fondatore della Heliographic Society, fu l'ultimo fotografo scelto per partecipare con il suo amico Le Gray alla missione eliografica del 1851.
Viaggiando insieme, i due fotografi non rispettarono il programma stabilito dalla Commissione per i Monumenti Storici. In Touraine, hanno fotografato gli edifici di Amboise, Chenonceaux, Loches, Tours, Azay-le-Rideau e Candes-Saint-Martin.
L'attività di fotografo amatoriale di Auguste Mestral continuò fino al 1856 quando lasciò la capitale. Ritornò nel Giura dove si sposò con la 25enne Eulalie Victoire Emmanuelle Hermance Gagey; vendette poi il suo laboratorio e i suoi negativi all'amico Ernest Moutrille, banchiere di Besançon. Il fratello, rimasto celibe, andò a vivere con lui verso la fine degli anni '70 e morendo nel 1883 nominò Auguste erede universale; Mestral, a sua volta, non avendo figli, nominò erede la moglie.
Auguste Mestral morì il 1° marzo 1884, lo stesso anno di Le Gray.

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UN FONDATORE DELLA MAGNUM

Prima di parlare del fotografo e della famosa agenzia, vogliamo fare gli auguri a tutti i papà. Il 19 marzo, infatti, è dedicato ai padri e al loro ruolo nella famiglia e nella società. Coincide con la festa di San Giuseppe, patrono per eccellenza dei padri e dei lavoratori.
Felice giornata a tutti i padri, quindi, da trascorrere semmai con figlie e figli.

Il 19 marzo 1908 nasce George Rodger. Nel 1947 si unì a Robert Capa, Henri Cartier-Bresson e David (Chim) Seymour per fondare la rinomata agenzia fotografica Magnum Photos.

Due anni dopo la fine dell’apocalisse chiamata Seconda Guerra Mondiale, i quattro erano motivati sia da un senso di sollievo che dal mondo sopravvissuto, mossi dalla curiosità di vedere cosa c'era ancora. Hanno creato la famosa agenzia per riflettere la loro natura indipendente: sia come persone che come fotografi; il mix peculiare di reporter e artista che continua a definire Magnum, enfatizzando non solo ciò che si vede ma anche il modo in cui lo si osserva.
L'inglese George Rodger ha ricordato come il suo collega Robert Capa immaginava il ruolo dei fotografi dopo la seconda guerra mondiale, che era stata a sua volta preceduta dall'invenzione di fotocamere più piccole e portatili e maggiormente sensibili alla luce. Ecco cosa diceva George: «Ha riconosciuto la qualità unica delle macchine fotografiche in miniatura, così veloci e silenziose da usare, e anche le doti uniche che noi stessi avevamo acquisito durante diversi anni di contatto con tutti gli eccessi emotivi che vanno di pari passo con la guerra. Ha visto un futuro per noi in questa combinazione di mini fotocamere e maxi sentimenti».

Questi quattro fotografi formarono Magnum per consentire ai bravi autori di lavorare al di fuori delle formule del giornalismo da rivista. L'agenzia, inizialmente con sede a Parigi e New York e più recentemente con uffici a Londra e Tokyo, si è allontanata dalla pratica convenzionale in due modi abbastanza radicali. È stata fondata come una cooperativa in cui lo staff avrebbe supportato piuttosto che diretto i fotografi. Il copyright sarebbe stato detenuto dagli autori delle immagini, non dalle riviste che hanno pubblicato l'opera. Ciò significava che un fotografo poteva decidere di documentare un evento da qualche parte, pubblicare le foto sulla rivista “Life”, con l’agenzia che avrebbe potuto vendere le fotografie a riviste di altri paesi, come Paris Match e Picture Post, dando ai fotografi i mezzi per lavorare su progetti anche senza un incarico.
(Fonte: sito ufficiale Magnum)

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LUC BESSON, AMERICANO IN EUROPA

E’ difficile parlare di Luc Besson, anche perché non si sa da dove iniziare.
Ha avuto modo di dire: «Sai che a volte sei in una posizione di rischio e senti che puoi diventare buono o cattivo». E ancora: «Amo le persone che sanno quello che vogliono e sanno come costruire la propria azienda e il suo valore. Chiunque sappia cosa farà appartiene al gruppo di persone con cui voglio essere il loro partner». Entrambe le frasi sono tratte dal sito ufficiale del regista. La seconda rappresenta un ideale: sapere ciò che si vuole; mentre la prima ne nasconde il pericolo, la doppia via di una scelta intrapresa con audacia.
Ecco, sì; parlare di Besson significa leggere un’esistenza all’insegna del coraggio: tra tanti amori, film d’avanguardia, produzioni di stile americano. E’ come se avesse tentato di creare una Hollywood europea e, in un certo senso, quasi c’è riuscito. Ha poi lanciato tanti attori francesi, il che rafforza l’audacia che lo contraddistingue.

Di Luc Besson ricordiamo il film “Leon”: un capolavoro, poliziesco vero. La trama vive sulle vicende di una ragazzina (Mathilde, Natalie Portman, che ai tempi aveva quattordici anni) e un sicario di professione, Leon appunto, interpretato da Jean Reno. I due personaggi, durante lo svolgimento filmico, s’invertono nelle loro personalità, perché, nonostante la violenza, il vero bambino è proprio lui, l’omicida di professione; Mathilde appare quasi matura, decisa nel voler intraprendere la carriera di Killer.
Leon è ben caratterizzato, con delle scene che si ripetono: cura la propria forma fisica, beve latte e coltiva con passione una piantina di gerani. Non lascia nulla al caso, sin dalla preparazione. Mathilde, che vuole imparare, segue il suo tutor con attenzione.
Le vicende si complicano, ma l'abilissimo e spietato Léon riuscirà a mettere in salvo Mathilda, che, dopo la sua morte, cercherà lavoro presso gli stessi mandanti del killer che l’ha istruita. Ricevendo un rifiuto, la ragazza tornerà in collegio, quello che aveva smesso di frequentare. Racconterà la storia alla direttrice, per poi piantare in giardino la piantina di Léon.
Già, la piantina; nel film diventa quasi un interprete, perché rappresenta l’indole di colui che se ne prende cura: è priva di radici.

Chi scrive ha visto il film in un cinema di provincia, uno di quelli che (purtroppo) non esistono più. Uscii dalla sala quasi spaventato, di certo meravigliato; anche perché le vicende, pur nella loro drammaticità, diventavano quasi naturali, ineluttabili. Del resto, lo stesso desiderio di vendetta espresso da una ragazzina deve far riflettere sugli avvenimenti del mondo.

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