[MAN RAY, COME IN UN SOGNO]
Siamo stati a Parigi, ma da turisti. Volevamo vedere, per offrire la prova a noi stessi di esserci stati e poterlo raccontare. Ancora oggi ne saggiamo il ricordo. Chiudendo gli occhi, ci pare di vedere quella città, di camminarci dentro, scorgendo angoli già visitati (e fotografati) da altri. Il merito è della Capitale francese, capace di concedersi al pensiero e all’idea, creando addirittura dei modelli di comportamento. Il termine “Bohémien”, ad esempio, nasce in Francia, quando artisti e poeti iniziarono a popolare i bassifondi e i quartieri popolari. Si trattava di giovani creativi che volevano fuggire, distaccarsi, cercando una libertà loro, personale e aggregante al tempo stesso. Solo a Parigi avrebbero potuto farlo.
“Se sei abbastanza fortunato ad aver vissuto a Parigi come un giovane uomo, allora per il resto della tua vita ovunque andrai, essa rimarrà con te, perché Parigi è una Festa Mobile”. Così scrisse Hemingway nel suo Parigi è una festa, piccolo libro dove racconta il suo soggiorno nella città e le avventure che colà ha vissuto.
Ma tanti hanno fatto compagnia allo scrittore statunitense. E’ la favolosa Parigi d'inizio '900, ma anche quella del dopoguerra, tra Montmartre, Montparnasse e pure altrove: Picasso, Utrillo, Modigliani, Apollinaire, Coctau, Berenice Abbott, Robert Capa (che lì incontrerà Ingrid Bergman). Pure Elizabeth "Lee" Miller, oggi tanto di moda, per fotografare lascerà la New York del lusso, di Vogue e Steichen, per fuggire a Parigi e cambiare la sua vita.
E’ in quella Parigi che, in sogno, incontriamo Man Ray. Rivoluzionario ed eclettico, si para di fronte a noi con bastone e bombetta. Ha appena finito di parlare con una donna, che ci sarebbe piaciuto conoscere. Che fosse Lee Miller? Berenice Abbott o Peggy Guggenheim? Non lo sappiamo. Forse avremmo preferito “Kiki”, la ragazza dalla schiena nuda con le chiavi musicali trasportate sulla pelle. Non importa, l’artista ci mostra tutto ciò che vogliamo; i rayogrammi, le solarizzazioni, le Lacrime di vetro. Guardiamo, nel velluto dell’immaginazione, e ci rendiamo conto che stiamo esaminando tutta la forza di Man Ray. Lui ci ha fatto divertire, stupire, disorientare, annoiare, riflettere, senza voler mai suscitare la nostra ammirazione. Perché la sua arte si è limitata (si fa per dire) a trasformare, trasfigurare, reinventare, distruggere tutti i soggetti che aveva di fronte. Man Ray ha sperimentato: davvero.
E poi, ecco le donne: la Lee Miller ancora di moda, la Berenice Abbott col ciuffo sulla fronte, Dora Maar, Juliet (la compagna di una vita), ma ancora Meret Oppenheim, o Kiki de Montparnasse, la sua modella preferita; tutte si concedono a lui come assistenti, diventando muse ispiratrici, complici di un’infinita avventura intellettuale, che per Man Ray è la vita.
A fine sogno, Man Ray e la sua esistenza
Emmanuel Rudnitzky, noto come Man Ray, nacque a Filadelfia il 27 agosto 1890. Si trasferì a New York con la famiglia all’età di sette anni e lì intraprese i suoi studi. Crescendo, rivelò il proprio carattere ostinato e ribelle, dimostrando un certo disprezzo per gli insegnamenti tradizionali. Spirito libero e individualità segnarono sempre il suo percorso artistico, difficilmente riconducibile unicamente a un gruppo o movimento; questo nonostante i rapporti che lo legarono ai surrealisti e ai dadaisti. Lui aveva troppo a cuore la propria autonomia.
Egli sperimentò vari stili e tecniche: “Per esprimere ciò che sento, mi servo dello strumento più idoneo che dia corpo a quell’idea [...]”. “Non m’interessa essere coerente come pittore, come creatore di oggetti o come fotografo”. “Posso servirmi di varie tecniche diverse, come gli antichi maestri che erano ingegneri, musicisti e poeti nello stesso tempo”.
Nel 1921 Man Ray arrivò a Parigi. Il Dadaismo stava scomparendo e il Surrealismo prendeva forma attorno ad artisti quali Ernst, Duchamp, Arp e Masson. Durante gli anni del suo primo soggiorno a Parigi (1921-1940), Man Ray s’affermò come fotografo professionista, divenendo collaboratore d’importanti riviste di moda e il ritrattista della ricca borghesia francese. Nel giugno del 1940, quando il governo francese aveva dichiarato l’armistizio, Man Ray fu costretto ad abbandonare Parigi. Ritornato in America, s’isolò nella propria arte; ma lui non si era mai trovato a suo agio negli Stati Uniti: nella società hollywoodiana si sentiva un escluso, così all’inizio del 1951 Man Ray approdò per la seconda volta in Francia. Là rinnovò il suo stile e sperimentò nuove tecniche. Come al solito non era guidato dal desiderio di ottenere un risultato esteticamente gradevole. Un dipinto, un oggetto, una fotografia, un film, dovevano trasmettere un’emozione, una sensazione.
Man Ray costruisce la sua immagine ai fini dell’effetto e non per la sostanza: distrugge, taglia, modifica, con lo scopo di definire livelli diversi di significato. Ben diverso è il caso di Henri Cartier Bresson, e forse anche di Atget, dove il senso estetico viene ottenuto attraverso il soggetto fotografato e non mediante la manipolazione dell’immagine.
Nel novembre 1876 Man Ray morì e fu sepolto al cimitero di Montparnasse. Sulla sua lapide si legge: “Unconcerned but not indifferent – Man Ray – 1890-1976 – love Juliet”. Incurante ma non indifferente. Con amore, Julet. La sua compagna.Robert Capa, Berenice Abbott, Man Ray, 27 agosto 1890, Bohémien, Montmartre, Montparnasse, Parigi, Picasso, Utrillo, Lee Miller, Peggy Guggenheim