[BERLINO, CROLLA IL MURO]
Ne abbiamo parlato anche lo scorso anno, ma riprendiamo la notizia, doverosamente. E’ cambiato il titolo, “crolla” prende il posto di “cade”, nella convinzione che il muro sia ceduto a fronte di un sussulto umano collettivo, di pensiero peraltro. In ogni caso, il 9 novembre 1989 Berlino diventa un’unica città. Non era così dal 1961. È la fine simbolica della guerra fredda e l’inizio di un processo che porterà un anno dopo alla riunificazione della Germania dell’Est con quella dell’Ovest, sotto la sovranità della Repubblica Federale.
Le cifre del “muro” fanno riflettere ancora oggi. Era lungo 106 Km e possedeva un’altezza media di quasi 4 metri. Contava 300 torri d’osservazioni solo a Berlino. Attraverso di esso sono fuggite a piedi 600 persone nei primi due mesi, alle quali vanno aggiunti circa 90 soldati usciti con lo stesso sistema. Ovviamente le fughe si sono susseguite nel tempo, anche con metodi curiosi: quali quelli che prevedevano doppi fondi nelle auto.
Anche il cinema si è occupato spesso del muro di Berlino. A memoria ricordiamo: “La spia che venne dal freddo” (1965), diretto dallo statunitense Martin Ritt, tratto dal romanzo omonimo di John Le Carré; “Il cielo sopra Berlino” (1987), con la firma del regista tedesco Wim Wenders; "Il ponte delle spie" (2015), di Steven Spielberg, con la partecipazione di Tom Hanks.
La musica raccontò spesso il muro berlinese. David Bowie nel 1976 incise “Heroes”, un vero e proprio simbolo della Berlino divisa. Bowie racconta la storia di due amanti costretti a rimanere separati, che diventeranno ‘Eroi’, riuscendo a scambiarsi un bacio sotto la barriera, mentre i proiettili sparati delle guardie di confine sibilano sopra le loro teste. Anche Elton John si occupò del muro. Come David Bowie, lo fece parlando d’amore. Nel brano “Nikita”, racconta di un uomo che s’innamora di una giovane che lavora come guardia di frontiera. I due non possono vedere sbocciare il proprio amore, perché residenti nelle due parti opposte del muro.
Se la nostra fantasia è stata stimolata spesso dalla Berlino separata, anche oggi dobbiamo fare uno sforzo, pur celebrando il giorno della libertà raggiunta. Immaginiamoci famiglie, amici, parenti, amanti, che da un giorno all’altro si sono rassegnati a guardarsi a distanza, se la visuale lo rendeva possibile. Ecco quindi le fotografie che proponiamo: gente comune costretta ad adattarsi, cercando dall’altra parte uno sguardo che potesse incontrarsi con il loro.
Il fotografo, Mario Dondero
Mario Dondero nasce il 6 maggio 1928 a Milano. Non lo abbiamo conosciuto personalmente. Siamo costretti a dirlo con rammarico e per un desiderio di verità. Quanto diremo, quindi, sarà frutto di tante conversazioni tenute con altri fotografi, tutti suoi amici. Da qui una prima sensazione: con la sua dipartita, Mario ha lasciato un vuoto fatto di solitudine. Lui era il compagno che ritrovi per caso, e con piacere, magari al bar Jamaica, a Milano, assieme a Lucio Fontana, Camilla Cederna, Ugo Mulas, Uliano Lucas, Alfa Castaldi, Gianni Berengo Gardin. Per tutti doveva essere una sorta di mito e molti lo guardavano con ammirazione, quasi come un modello cui fare riferimento. Gianni Berengo Gardin ci ha confermato quanto avevamo letto: “Mario aveva un giubbotto degli aviatori americani, bellissimo”. “Ho fatto di tutto per averlo anch’io, ma quando sono riuscito a recuperarlo, lui vestiva in giacca e cravatta”.
Chi era Mario Dondero? Un girovago, senza dubbio: aveva lo zaino (e non la valigia) sempre pronto. Paradossalmente, non stava mai “fermo”, a dispetto del nome della cittadina dove aveva scelto di abitare. Andava in giro e fotografava quello che vedeva, nella realtà e senza costruzioni. Lui non era attratto dal senso estetico, arrivando a rompere le proprie opere qualora non contenessero un personaggio o un accadimento degno di nota. Questo deve farci riflettere, perché le fotografie, per il nostro, evidentemente non rappresentavano una proprietà, e nemmeno andava attribuita loro la paternità dell’autore. Una volta scattate, erano già disperse, libere in quel mondo libero che lui amava frequentare.
Girovago, sì; ma anche gentiluomo: così possiamo tentare di completare la personalità di Dondero. Lui era vicino all’uomo che ritraeva, per dedizione. Soleva dire: “Non m’interessano le persone per fotografarle, m’interessano perché esistono”. E poi: “La fotografia è un tramite per arrivare a loro”. Ci arrivava da lontano, però, fermandosi spesso, dove capitava. Nel suo girovagare, alle volte incontrava una marea che lo portava altrove: quella dei suoi desideri, che lo facevano proseguire a piedi, per fermarsi ancora, forse più a lungo. Nelle immagini che ci ha lasciato non c’è l’attimo mitizzato di Bresson, e nemmeno l’istante irripetibile. Traspare viceversa una realtà che si è fermata a sua volta, forse proprio per lui che l’ha aspettata. Un senso di sospensione che era del suo io, del suo disperdersi per ritrovarsi.
Nelle foto che lo ritraggono, ne riconosciamo l’aria svagata e i capelli da ragazzo. Eppure girava instancabilmente, verso quelle situazioni che parevano richiamarlo e che sembravano create per lui. “Volevo diventare marinaio, poi ho fatto il fotografo”. Ci avrebbe fatto piacere essere al suo fianco, come compagni di viaggio. Non sappiamo se ci avrebbe accettato, ma, una volta per tutte, saremmo diventati viaggiatori veri, esploratori per giunta. Sarebbe stato più facile comprendere le sue scelte di campo, il suo modo di vedere: quel mondo che ci ha avvicinato, lasciandolo a noi solo per l’ultimo chilometro, quello che ci serviva per capire.
Amava cantare, Mario Dondero. Girovago, gentiluomo, osservatore, lui era anche un “vocalist”. Ce l’hanno detto in tanti. Il fatto è curioso, ma anche piacevole a scoprirsi; e coerente, in fin dei conti. Il canto si aggiunge alla sua indole, al modo col quale scopriva la vita. Sì, perché, lui più di noi, l’esistenza l’ha spogliata dagli orpelli inutili, dai fardelli dei luoghi comuni. Lo si vede nelle fotografie che ci ha regalato con generosità. Chi avrà pazienza, osservandole potrà capire di più, e a lungo. Purtroppo mancherà il ritornello delle sue canzoni; e si allargherà il silenzio della solitudine di quanti lo aspettavano, convinti di vederlo arrivare da un momento all’altro.
Il fotografo, Henri Cartier Bresson
Henri Cartier Bresson nasce a Chanteloup-en-Brie il 22 agosto 1908. Da molti viene considerato il padre del fotogiornalismo, ma noi (con un po’ di presunzione) preferiamo definirlo come l’inventore della fotografia moderna. Molti interpreti dello scatto si sono ispirati a lui come l’iniziatore di una nuova era; e crediamo che tanti appassionati possano mettersi a ruota: con rispetto e ammirazione. Continuare a conoscerlo è comunque un piacere.
L’Arte di Henri Cartier-Bresson
Non si deve pensare che le sue fotografie siano frutto di fortunate casualità, infatti, oltre alla naturalezza, l’altro aspetto importante della sua ricerca è la composizione e la creazione di un ordine geometrico. Integrava nelle sue foto linee, curve e tutto ciò che potesse contribuire a rendere uno scatto poetico. D’altronde se Henri Cartier-Bresson non fosse diventato un fotografo probabilmente avrebbe fatto il pittore, dato che aveva frequentato lo studio dell’artista André Lhole proprio per studiare pittura.
L’incontro con la fotografia
L’incontro con la fotografia avvenne nel 1931, quando sfogliando una rivista vide una foto di Martin Munkacsi e ne rimase affascinato. L’anno dopo acquista la sua prima macchina fotografica Leica e inizia a viaggiare per l’Europa scattando fotografie.
Le sue immagini iniziano a comparire sulle riviste e vengono anche esposte, ma la sua creatività incontra anche il mondo del cinema e nel 1936 lavora come assistente alla regia di Jean Renoir (assieme a Luchino Visconti) per i film “La scampagnata” e ” La vita è nostra”. Inoltre, diventa lui stesso regista per due documentari sugli ospedali nella Spagna repubblicana e sulla vita dei soldati americani durante la guerra civile spagnola.
Quando inizia a scattare, quindi, Henri Cartier-Bresson ha appena 24 anni ed è ancora alla ricerca del suo futuro professionale. È incerto e tentato da molte strade: dalla pittura, dal cinema. “Per quanto riguarda la fotografia, non ci capisco nulla” affermava. Non capire nulla di fotografia significa, tra l’altro, non sviluppare personalmente i propri scatti: è un lavoro che lascia agli specialisti del settore. Non vuole apportare alcun miglioramento al negativo, non vuole rivedere le inquadrature, perché lo scatto deve essere giudicato secondo quanto fatto nel qui e ora, nella risposta immediata del soggetto.
Le fotografie
Una conversazione fra cittadini: la giovane mamma che vive all’Ovest e il soldato guardia di frontiera della Repubblica Democratica Tedesca. Berlino, 1989. Mario Dondero.Si guarda oltre il muro. Henri Cartier Bresson, 1962.
Henri Cartier Bresson, Mario Dondero, 9 novembre 1989, David Bowie, muro di Berlino