Ci sono fotografi che sarebbe stato bello incontrare personalmente: non per conoscerne le metodiche o il perché di alcune immagini; semplicemente al fine di condividere atteggiamenti e approcci, la chiave di lettura del linguaggio che gli è proprio.
Ivo Saglietti sarebbe potuto essere uno di questi. Lo abbiamo anche intervistato un giorno, poi è volato via: inopinatamente e all’improvviso.
Il libro che proponiamo oggi lo riguarda direttamente. Si tratta di: “Ivo Saglietti, Lo sguardo inquieto, Un fotografo in cammino”, a cura di Federico Montaldo, edizioni Postcard.
Ecco cosa leggiamo nella sinossi del volume: «La fotografia era la sua vita e la sua vita era la fotografia. Ha sempre negato che fosse una “missione” (termine che non gli piaceva se applicato al proprio lavoro). Non amava molto neanche il termine “professionale”, troppo asettico e distaccato. Per lui la fotografia era “mestiere”. Mestiere nel senso più alto del termine, che ha a molto che fare con un servizio non volto soltanto al guadagno personale, ma piuttosto con un’attività indispensabile al servizio della comunità. Era il mestiere di Reporter Photographe, come amava definirsi. In francese. Perché la Francia è il luogo dove era nato e dove è sempre rimasto un pezzo del suo cuore. [...] (Federico Montaldo).
Sempre nella sinossi viene affrontato il tema della lentezza, a noi molto caro: «Camminare lentamente. Questo è il titolo di un capitolo del libro che abbiamo fatto insieme, ma che avrebbe potuto essere il titolo dell’intero volume. È quasi un’epigrafe, che riassume il senso di una vita e di un percorso umano e professionale a un tempo. Ivo voleva capire. E per capire occorre muoversi adagio, soffermarsi, entrare nelle situazioni; capire per raccontare l’Uomo e il suo destino. È questo l’enigma che, pur da non credente, ha ricercato per tutta la sua vita». (Federico Montaldo).
Lo sguardo inquieto è un libro di fotografie (tante), storie e ricordi di Ivo Saglietti. Nasce per volere di Federico Montaldo – appassionato di fotografia e fotografo. Il loro dialogo ha generato questo volume. In esso viene raccontato il cammino del fotografo: il suo spirito da viaggiatore, la sua curiosità, la sofferenza da affrontare in qualità di testimone oculare. Emerge poi passione per la letteratura (una compagna di viaggio) e quella cultura visiva cresciuta guardando i film o ascoltando i dischi su un piatto.
Il 23 giugno 1868 fu brevettata la prima macchina per scrivere. Christopher Latham Sholes, direttore di un giornale a Milwaukee, con l’amico tipografo Samuel W. Soule, perfezionò questo strumento. Era dotato di una tastiera in grado di imprimere i caratteri su un supporto cartaceo. Il prodotto raggiunse un successo mondiale, definendo un’era.
La macchina per scrivere non divenne un semplice strumento come tanti: ha rappresentato un’epoca e il suo fascino perdura ancora oggi, per una moda senza tempo. Non è azzardato dire che c’è stata tanta Italia dietro alla scrittura meccanica. Grazie all’ingegno e alle capacità di Camillo Olivetti, nel ‘900 l’Italia era all’avanguardia nel campo. La digitalizzazione della scrittura portò nuovamente il centro di tutto oltreoceano.
In rete si trovano molte immagini, diventate iconiche, che ritraggono alcuni autori mentre operano con la scrittura dei tasti. Ci stiamo riferendo a Ernest Hemingway, Agatha Christie, Orson Welles, Indro Montanelli; tutti impegnati nel loro mestiere. George Simenon scriveva ottanta pagine al giorno chino sulla tastiera. Ne proviamo una sorta d’invidia, abituati come siamo a editare il nostro testo a piacimento con il computer. Un tempo non si poteva sbagliare, pena correggere tutto con la gomma e ribattere. C’erano poi le copie, da produrre con la carta carbone (altro oggetto dimenticato); e lì la precisione non permetteva errori.
Chi scrive conserva gelosamente una Olivetti Lettera 22, avuta in regalo dai genitori (come la prima chitarra, la fotocamera, il registratore a bobine). Non esistevano i telefonini allora e per documentare la realtà, raccontandola, occorreva dotarsi di strumenti specifici.
Sono molti i personaggi famosi che hanno utilizzato la Lettera 22 come strumenti di lavoro:Pier Paolo Pasolini, Enzo Biagi, Indro Montanelli, Philip Roth, Günter Grass.
Alcune curiosità circa la portatile dell’Olivetti. I tasti di scrittura hanno alcune evidenti mancanze: non è presente il tasto del numero 1, che si deve scrivere battendo la lettera l (elle) minuscola oppure la I (i) maiuscola; e nemmeno lo zero, che si ottiene con la O (o) maiuscola. Non sono presenti anche i tasti per le vocali accentate maiuscole e per accentare una vocale maiuscola si deve battere dopo di essa un apostrofo.
Ogni tanto abbiamo provato a scrivere qualche parola con la nostra Lettera 22. E’ difficile, troppo. Non basta sfiorate i tasti, occorre battere con energia; così la lasciamo lì, tra gli oggetti dimenticati. Alla vista, fa la sua bella figura; del resto, parla di noi e di ciò che siamo stati.
Il 23 giugno 1868 fu brevettata la prima macchina per scrivere. Christopher Latham Sholes, direttore di un giornale a Milwaukee, con l’amico tipografo Samuel W. Soule, perfezionò questo strumento. Era dotato di una tastiera in grado di imprimere i caratteri su un supporto cartaceo. Il prodotto raggiunse un successo mondiale, definendo un’era.
La macchina per scrivere non divenne un semplice strumento come tanti: ha rappresentato un’epoca e il suo fascino perdura ancora oggi, per una moda senza tempo. Non è azzardato dire che c’è stata tanta Italia dietro alla scrittura meccanica. Grazie all’ingegno e alle capacità di Camillo Olivetti, nel ‘900 l’Italia era all’avanguardia nel campo. La digitalizzazione della scrittura portò nuovamente il centro di tutto oltreoceano.
In rete si trovano molte immagini, diventate iconiche, che ritraggono alcuni autori mentre operano con la scrittura dei tasti. Ci stiamo riferendo a Ernest Hemingway, Agatha Christie, Orson Welles, Indro Montanelli; tutti impegnati nel loro mestiere. George Simenon scriveva ottanta pagine al giorno chino sulla tastiera. Ne proviamo una sorta d’invidia, abituati come siamo a editare il nostro testo a piacimento con il computer. Un tempo non si poteva sbagliare, pena correggere tutto con la gomma e ribattere. C’erano poi le copie, da produrre con la carta carbone (altro oggetto dimenticato); e lì la precisione non permetteva errori.
Chi scrive conserva gelosamente una Olivetti Lettera 22, avuta in regalo dai genitori (come la prima chitarra, la fotocamera, il registratore a bobine). Non esistevano i telefonini allora e per documentare la realtà, raccontandola, occorreva dotarsi di strumenti specifici.
Sono molti i personaggi famosi che hanno utilizzato la Lettera 22 come strumenti di lavoro:Pier Paolo Pasolini, Enzo Biagi, Indro Montanelli, Philip Roth, Günter Grass.
Alcune curiosità circa la portatile dell’Olivetti. I tasti di scrittura hanno alcune evidenti mancanze: non è presente il tasto del numero 1, che si deve scrivere battendo la lettera l (elle) minuscola oppure la I (i) maiuscola; e nemmeno lo zero, che si ottiene con la O (o) maiuscola. Non sono presenti anche i tasti per le vocali accentate maiuscole e per accentare una vocale maiuscola si deve battere dopo di essa un apostrofo.
Ogni tanto abbiamo provato a scrivere qualche parola con la nostra Lettera 22. E’ difficile, troppo. Non basta sfiorate i tasti, occorre battere con energia; così la lasciamo lì, tra gli oggetti dimenticati. Alla vista, fa la sua bella figura; del resto, parla di noi e di ciò che siamo stati.
Le scelte fotografiche
Circa le due immagini le scelte sono cadute su Gianni Berengo Gardin e Henry Wolf. Non potevamo fare diversamente, visto che il fotografo ligure ha lavorato a lungo, e in profondità, per l’Olivetti. L’autore austriaco, invece, ha messo la firma su alcune campagne pubblicitarie importanti circa l’azienda di Ivrea, con testimonial di grido. Abbiamo parlato di lui quattro anni addietro. Giusto ripetersi, comunque.
Il fotografo Gianni Berengo Gardin
Gianni Berengo Gardin inizia a occuparsi di fotografia nel 1954. Nel 1965 lavora per Il Mondo di Mario Pannunzio. Negli anni a venire collabora con le maggiori testate nazionali e internazionali come Domus, Epoca, Le Figaro, L’Espresso, Time, Stern. Procter & Gamble e Olivetti più volte hanno usato le sue foto per promuovere la loro immagine. Berengo Gardin ha esposto le sue foto in centinaia di mostre in diverse parti del mondo: il Museum of Modern Art di New York, la George Eastman House di Rochester, la Biblioteca Nazionale di Parigi, gli Incontri Internazionali di Arles, il Mois de la Photo di Parigi. Nel 1991 una sua importante retrospettiva è stata ospitata dal Museo dell’Elysée a Losanna e nel 1994 le sue foto sono state incluse nella mostra dedicata all’Arte Italiana al Guggenheim Museum di New York. Ad Arles, durante gli Incontri Internazionali di Fotografia, ha ricevuto l’Oskar Barnack - Camera Group Award. Nel 2008 Gianni Berengo Gardin è stato premiato con un Lucie Award alla carriera. Lunedì 11 Maggio 2009 l’Università degli Studi di Milano gli ha conferito la Laurea Honoris Causa in Storia e Critica dell’Arte. Erano cinquant’anni che la Statale non conferiva un tale riconoscimento. L’ultimo era stato Eugenio Montale.
Ha pubblicato oltre 250 libri fotografici.
Il fotografo Henry Wolf
Henry Wolf è stato graphic designer, fotografo e art director. Diceva: "Mi piace il lavoro, per risolvere i problemi. La pubblicità può essere divertente come non mai, perché i problemi sono molteplici e non ricorrenti, come invece accade nell’editoria”.
Henry Wolf è nato a Vienna, il 23 maggio 1925. Ha appreso la fotografia “di classe” conoscendo Alexey Brodovitch (Harper Bazaar). E’ stato art director della rivista Esquire e il direttore artistico di Harper Bazzar Harper. Nel 1965 assume la direzione artistica della McCann Erickson. Nel 1971, ha lanciato la Henry Wolf production, uno studio specializzato in fotografia, cinema e design.
Henry Wolf era anche un fotografo spesso chiamato a ritrarre i talenti e le celebrità del suo tempo. Teniamo conto che, mentre era a Harper Bazaar, poteva mobilitare fotografi leggendari come Robert Frank, Richard Avedon, Hiro, e Saul Leiter.
La fotografia di Wolf, forse non così distintiva come quella dei grandi, era ricca e tecnicamente impeccabile.
Verso la fine del 1960 Henry Wolf ha prodotto una serie di pubblicità per Olivetti, che ha affrontato nella maniera che gli era più congeniale: l'uso delle celebrità e la decontestualizzazione dell’utilizzo
Per la “Studio 45”, Wolf ha assunto per un insolito ruolo di testimonial Twiggy insieme a Duke Ellington.
Henry Wolf è deceduto il 14 febbraio 2005 all'età di ottant’anni.
Le fotografie
L’Olivetti di Gianni Berengo Gardin
Wolf per Olivetti. Testimonial Duke Ellington.
22 giugno 2009: La leggendaria pellicola Kodachrome, la stessa che ha immortalato l'assassinio di Kennedy, la Ragazza Afgana di Steve McCurry, quella alla quale Paul Simon dedicò una delle sue canzoni più popolari, va in pensione. Il motivo? Non si vende più.
La vita non accade in bianco e nero, così nel 1935 Eastman Kodak fece in modo che smettessimo di raccontarla senza colori. E per questo che è nato Kodachrome, il marchio delle pellicole invertibili a colori.
Quando fu lanciato per la prima volta, nel 1935, venne venduto inizialmente come formato cinematografico da 16 mm. Solo l’anno successivo è stato reso disponibile l’8 mm e, infine, il formato 35 mm. Ricordiamo che nel Kodachrome erano racchiuse tre pellicole in B/N e che i cromogeni venivano aggiunti in sede di sviluppo. In gergo, quelle DIA venivano definite a “sviluppo pagato”, perché all’atto di acquisto si pagava anche il processo chimico successivo.
Qualcuno piange ancora Kodachrome? Steve McCurry, il cui archivio conta 800.000 fotogrammi scattati con quelle DIA, peraltro ottenuti nel corso di quattro decenni, ha detto: «Scatto in digitale da anni, ma non credo si possa fare una fotografia migliore, a determinate condizioni, come quella possibile con Kodachrome. Con la fotografia digitale, si hanno molti benefici, ma molti vanno colti in post-produzione. Con Kodachrome le immagini sono già brillanti dopo lo scatto. «Ho ancora un paio di rotoli di Kodachrome in frigo», ha aggiunto il fotografo. «Il mio frigo sarebbe vuoto senza di loro. Se mai faranno rivivere Kodachrome, come hanno fatto con Polaroid, sarò pronto a ricominciare».
Chi vi scrive non ricorda l’ultima volta che ha scattato con Kodachrome e nemmeno cerca di stabilire una data. Nostalgia? No: le lacrimucce lasciamole ad altro. La verità è che eravamo più giovani e ricordiamo quella pellicola con la stessa dolcezza con la quale rammentiamo la prima motocicletta o la 500 usata. Tutto bello, per carità, ma quante volte siamo rimasti a piedi! Il digitale? Forse ha ragione Scianna (Ferdinando): «E’ come l’ascensore. Tutti sanno che sarebbe meglio prendere le scale, ma nessuno lo fa».
Kodachrome ha avuto un tale impatto sull'industria cinematografica, che nel 2017 è uscito un lungometraggio con lo stesso nome. Il film era ambientato in gli ultimi giorni dell'ammirato sistema di sviluppo fotografico, seguendo il viaggio che un padre e un figlio hanno affrontato per raggiungere il laboratorio fotografico del Kansas (l’ultimo a trattare Kodachrome) prima che chiudesse i battenti per sempre.