Il 1° luglio è una data importante per i nostri treni: nel 1905 nascono le Ferrovie dello Stato, nel 1931 viene inaugurata la Stazione Centrale di Milano, della quale abbiamo parlato quattro anni addietro.
Per noi appassionati (di fotografie e treni), la Stazione Centrale di Milano conserva una sua fotogenia. E’ l’atmosfera a farla da padrona, quella che scende dalle arcate. Del resto, laddove si fermano i treni vivono storie, che sarebbe bello poter raccontare.
Il mondo ferroviario è quasi una religione, praticata da migliaia di persone in Italia e in Europa (Gianni Berengo Gardin compreso). Persone che, come faceva Proust, sfogliano l’orario ferroviario come un catalogo dei desideri (da Trenomania, di Jaroslav Rudies).
Nessuno sale su un treno per caso: c’è sempre una storia da affrontare, un’esigenza intima. Per noi appassionati sono importanti anche i binari, lucidi e ferrosi. Loro guardano lontano, dietro la curva, e rappresentano un’opportunità: quella di un finestrino che è già un’inquadratura fotografica.
Sveliamo subito un mistero circa la stazione milanese: quella che vediamo oggi in realtà è la "seconda" Centrale del capoluogo lombardo. La prima era stata costruita nel 1864, dove oggi troviamo Piazza della Repubblica, in fondo a via Vittor Pisani, l’ampio viale che parte appunto dall’attuale Stazione Centrale. In Piazza della Repubblica non esiste più alcuna traccia della vecchia costruzione.
La seconda Stazione Centrale divenne operativa il 30 giugno 1931, dopo una lunga storia. La prima pietra venne posata dal re Vittorio Emanuele III nel 1906, senza che vi fosse un progetto. Della costruzione se ne occupò l'architetto Ulisse Stacchini (dal 1912), che prese ispirazione dalla Stazione di Washington. I lavori procedettero a rilento. Il 1° luglio 1931 avvenne finalmente l'inaugurazione ufficiale. Da allora la stazione ha conservato le sembianze che notiamo ancora oggi.
Il 1° luglio è una data importante per i nostri treni: nel 1905 nascono le Ferrovie dello Stato, nel 1931 viene inaugurata la Stazione Centrale di Milano, della quale abbiamo parlato quattro anni addietro.
Per noi appassionati (di fotografie e treni), la Stazione Centrale di Milano conserva una sua fotogenia. E’ l’atmosfera a farla da padrona, quella che scende dalle arcate. Del resto, laddove si fermano i treni vivono storie, che sarebbe bello poter raccontare.
Il mondo ferroviario è quasi una religione, praticata da migliaia di persone in Italia e in Europa (Gianni Berengo Gardin compreso). Persone che, come faceva Proust, sfogliano l’orario ferroviario come un catalogo dei desideri (da Trenomania, di Jaroslav Rudies).
Nessuno sale su un treno per caso: c’è sempre una storia da affrontare, un’esigenza intima. Per noi appassionati sono importanti anche i binari, lucidi e ferrosi. Loro guardano lontano, dietro la curva, e rappresentano un’opportunità: quella di un finestrino che è già un’inquadratura fotografica.
Sveliamo subito un mistero circa la stazione milanese: quella che vediamo oggi in realtà è la "seconda" Centrale del capoluogo lombardo. La prima era stata costruita nel 1864, dove oggi troviamo Piazza della Repubblica, in fondo a via Vittor Pisani, l’ampio viale che parte appunto dall’attuale Stazione Centrale. In Piazza della Repubblica non esiste più alcuna traccia della vecchia costruzione.
La seconda Stazione Centrale divenne operativa il 30 giugno 1931, dopo una lunga storia. La prima pietra venne posata dal re Vittorio Emanuele III nel 1906, senza che vi fosse un progetto. Della costruzione se ne occupò l'architetto Ulisse Stacchini (dal 1912), che prese ispirazione dalla Stazione di Washington. I lavori procedettero a rilento. Il 1° luglio 1931 avvenne finalmente l'inaugurazione ufficiale. Da allora la stazione ha conservato le sembianze che notiamo ancora oggi.
Gianni Berengo Gardin, riflessioni
Gianni Berengo Gardin nasce il 10 ottobre 1930. Scrivere di lui è un po’ come incontrarlo, perché personalmente lo conosciamo bene, avendolo frequentato a lungo. Tante volte ci ha ospitato a casa sua (grazie), regalandoci emozioni che sono le stesse di adesso, di fronte a questo schermo che non vuole riempirsi.
Narrare con la fotografia, per Berengo, è una questione di vita: forse la missione di un’esistenza. Siamo convinti che il suo pensiero sia sempre lì, nelle storie raccontabili: attorno a quell’uomo comune col quale è possibile costruire anche una “realtà immaginata”. Gli Zingari, i manicomi, la Luzzara di Zavattini (e Paul Strand!), hanno rappresentato solo delle opportunità per un motore già in moto, per una “penna” già avvezza alla scrittura.
Ha sempre desiderato fare libri, il maestro, più di ogni altra cosa. Il racconto è lì, nella costruzione della pubblicazione: narrando una situazione con tutto il tempo necessario.
Comunque è stato fotoamatore per cinque anni. Poi, la passione forte l’ha convinto a diventare professionista. I suoi ideali sono stati i fotografi americani della “Farm Security Administration” (soprattutto Eugene Smith), poi, subito dopo, i francesi. Parigi esercitò un grosso fascino su di lui ed è rimasto là quasi due anni. E’ stato un periodo di grandi incontri: Doisneau, Boubat, Masclet, Willy Ronis, col quale ha stretto una solida amicizia. Da loro ha imparato moltissimo e da lì è partito tutto.
E’ un mondo in B/N quello che ci racconta Berengo, forse (lui ci disse) per una questione di educazione visiva, partita dal cinema e dalla televisione in bianco e nero, continuata poi con i grandi maestri che l’hanno ispirato.
Tutto ciò ci fa riflettere e subito ci vengono in mente i tanti scatti del Maestro diventati icona. In questi non si riconosce unicamente un formalismo di sintassi, ma lo sviluppo di un racconto che prende forma. Non solo, nei suoi libri famosi quasi si nota una generosità di scatti. E’ come se il nostro desiderasse arrivare al soggetto per assonanze successive, con rispetto. La somiglianza col montaggio filmico diviene quasi scontata, anche se a prevalere c’è il desiderio di verità, di narrare a fondo: con rigore.
La gente comune che Berengo ama ritrarre viene descritta nel proprio contesto, come nella scena di un grande teatro. Ci sono le quinte e le comparse, i soggetti principali e gli elementi descrittivi, spesso chi compie un’azione e un altro che guarda, un elemento “centrale” e tanto altro che parla di esso.
Il nostro incontro di fantasia è finito. Dopo aver immaginato le fotografie di Berengo comprendiamo ancora di più di essere cittadini del mondo. E’ il suo racconto ad accomunarci tutti, perché ognuno di noi può ritrovarsi nei suoi scatti: magari nel proprio tempo e nel luogo che gli appartiene. Complice è la fotografia del maestro, vicina, nel suo fruire, al divenire stesso della vita.
Gianni Berengo Gardin, la vita
Gianni Berengo Gardin nasce a Santa Margherita Ligure nel 1930 e inizia a occuparsi di fotografia dal 1954.
Trascorre l’infanzia in Liguria, poi si trasferisce a Roma. Dopo un lungo periodo a Venezia, mette le radici a Milano, dove comincia la sua professione di fotografo. Collabora con numerose riviste tra cui Il Mondo di Mario Pannunzio e le maggiori testate giornalistiche italiane e straniere, come Epoca e Time. Si dedica in special modo alla realizzazione di libri fotografici: pubblica oltre 250 volumi, dai quali emerge soprattutto il suo interesse per l’indagine sociale. Dal 1966 al 1983, in collaborazione con il Touring Club, pubblica una serie di volumi dedicati all’Italia e ai Paesi europei.
Lavora assiduamente con grandi industrie, tra cui l’Olivetti, per reportage e monografie aziendali. Nel 1979 inizia la collaborazione con Renzo Piano, per il quale documenta le fasi di realizzazione dei progetti architettonici.
Nella sua carriera ha esposto in oltre trecento mostre personali, in Italia e all’estero, tra cui le grandi antologiche di Arles (1987), Milano (1990), Losanna (1991), Parigi (1990),New York e alla Leica Gallery (1999); tra le ultime, alla Städtische Galerie di Iserlohn nel 2000, al Museo Civico di Padova e al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2001, alla Maison Européenne de la Photographie di Parigi, alla Fondazione Forma per la Fotografia nel 2005, alla Casa dei Tre Oci di Venezia nel 2012 e a Palazzo Reale a Milano nel 2013.
Nel 1972 la rivista Modern Photography lo inserisce nella lista dei 32 maggiori fotografi al mondo. Nel 2003 è presente tra gli ottanta fotografi scelti da Cartier-Bresson per la mostra “Les choix d’Henri Cartier-Bresson”.
Nel 2013 la Leica Wetzlar lo invita a esporre nella mostra “Eyes Wide Open! One Hundred Years of Leica Photography”.
Nel 2014 e nel 2015, con il Fondo Ambiente Italiano, ha esposto a Milano (Villa Necchi) e a Venezia (Negozio Olivetti) le sue immagini sulle grandi navi a Venezia.
Oltre ai numerosi premi, nel 2008, quale riconoscimento alla carriera, gli viene assegnato il Lucie Award e nel 2009 la laurea honoris causa in Storia e Critica dell’Arte presso l’Università Statale di Milano. Nel 2012 la città di Milano gli assegna l’Ambrogino d’Oro.
Nel 2015, a Roma, gli viene conferito il titolo di Architetto Onorario dal Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori.
Le fotografie
Gianni Berengo Gardin, emigranti. 1977.
Gianni Berengo Gardin, in Stazione Centrale
30 giugno 1953. La General Motors produce la prima Chevrolet Corvette C1, l'auto sportiva americana più famosa. La GM, gruppo al quale apparteneva il marchio Chevrolet, scopre la necessità di realizzare una vettura sportiva a due posti, diventata poi iconica.
La Corvette C1 ci permette di andare al cinema, per vedere “Cars, motori ruggenti”, un cartone animato dove i personaggi sono delle auto riconoscibili, divertente per questo.
Saetta McQueen (un ibrido tra una Corvette C6 e una C1) è l’esordiente più promettente di tutta la storia della Piston Cup. È bello, forte, veloce e arrogante, dalla vita ha tutto quello che vuole ma, durante il trasferimento verso il circuito dove disputerà la grande finale, si trova accidentalmente bloccato a Radiator Springs, un piccolo paesino di provincia. Lì riuscirà a trovare la vera felicità, l'amore (per una Porsche 911) e forse delle motivazioni diverse per vincere il campionato.
Cars, il film, punta tutto sull’universo delle macchine, poggiando su una trama molto prevedibile. Rimane comunque innegabilmente molto bello il modo in cui vengono antropomorfizzate le automobili, un utilizzo "emozionale" della computer graphic.
La versione italiana può vantare importanti doppiatori non di professione, come il comico Marco Messeri, l'attrice Sabrina Ferilli e diversi personaggi legati al mondo dei motori: i piloti Alex Zanardi, Jarno Trulli, Giancarlo Fisichella ed Emanuele Pirro, il comico Marco Della Noce (noto per il personaggio del meccanico ferrarista Oriano Ferrari), i telecronisti RAI della Formula 1 Gianfranco Mazzoni e Ivan Capelli ed il cronista motociclistico Giovanni Di Pillo.
In tutte le versioni la Ferrari F430 che compare verso la fine del film è stata doppiata da Michael Schumacher.
Luigi: una Fiat 500 gialla, è il gommista di Radiator Springs, proprietario della Casa della gomma (Casa Della Tires), che gestisce insieme a Guido. Amichevole e generoso, Luigi è un grande appassionato di corse automobilistiche, anche se segue esclusivamente le Ferrari. La sua targa è 445-108, numeri che corrispondono alla latitudine e alla longitudine della posizione dello stabilimento Ferrari a Maranello. Nella versione italiana è doppiato da Marco Della Noce con un accento emiliano.
Sontuosa è la colonna sonora. Durante il film si possono ascoltare: Route 66, di Chuck Berry; Life Is A Highway, di Rascal Flatts; Behind The Clouds, di Brad Paisley; e soprattutto Our Town di James Taylor.
29 Giugno 1844. Viene pubblicato il fascicolo “1” del primo “libro fotografico”, The Pencil of Nature, di William Henry Fox Talbot (l’ultimo sarà datato 1846).
Non lo nascondiamo: abbiamo sempre provato una grande simpatia per “il Talbot”. Da autentico padre della fotografia, può essere considerato colui che ha portato il contributo più forte, restituendoci la possibilità di uno scatto, seguito da tutte le stampe possibili.
Ma Fox Talbot era anche uno studioso e già aveva pubblicato molto sulla fotografia (ancora non si chiamava così). La madre glielo ricordava sempre, e anche questo è un dettaglio che lo rende più vicino, umano.
Ricordiamo che Fox Talbot soggiornò sul lago di Como, questo durante un suo viaggio in Italia compiuto nel 1833. Lui ritrasse molti paesaggi con la sua camera oscura, il che gli suscitò l'emozionalità "dell'immutabile bellezza della natura"; sembra sia stato questo ad indurlo alla sperimentazione di quelli che definì poi "disegni fotogenici": riuscire a fissare le affascinanti immagini della camera oscura.
William Henry Fox Talbot nasce l’11 febbraio 1800. Con lui la fotografia riceve un impulso di modernità. Siamo nel 1839. Mentre la febbre della fotografia sta dilagando in Europa, William Henry Fox Talbot continua nei suoi esperimenti tesi ad affinare il procedimento della carta salata. Grazie ad Herschel (lui inventò il termine fotografia) è venuto a conoscenza delle proprietà fissative del tiosolfato e quindi possiede il metodo per arrestare il processo di annerimento dei sali d’argento e rendere definitive e stabili le immagini prodotte sulla carta sensibilizzata.
Il risultato è talmente incoraggiante che Talbot, negli appunti che descrivono minuziosamente i suoi tentativi, dà a questo tipo di carta sensibile il nome di Waterloo Paper, anche se non renderà mai pubblica questa denominazione.
Il significato è molto chiaro se si pensa che il suo “avversario” è francese ed è a Waterloo che dall’inglese Wellington fu sconfitto definitivamente Napoleone e la Francia di Daguerre.
Gli esperimenti comunque continuano e fanno comprendere a Talbot come con l’acido gallico si accelera in maniera decisiva l’apparizione dell’immagine prodotta dalla camera oscura. L’acido si comporta da agente rivelatore, quello che comunemente è chiamato uno sviluppo.
Nel 1842, in virtù della scoperta, riceve la Rumford Medal dalla Royal Society inglese. Era nato il negativo e la possibilità, con uno scatto, di ottenere tante stampe.