Cerchiamo una notizia nuova tutti i giorni, per scoprire una fotografia significante che possa salvare il tempo. Oggi incontreremo Jerry Lewis e due fotografi, ma non possiamo dimenticare cosa accadde il 16 marzo 1978.
Erano le ore 9 (o poco più); a Roma il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro veniva rapito da un commando delle Brigate Rosse. Durante l’azione terrorista, avvenuta in via Mario Fani (quartiere Trionfale), furono uccisi i cinque uomini della scorta. Iniziava così la lunga fase del rapimento Moro, che si concluse con la sua uccisione dopo 55 giorni.
Restano i ricordi giovanili, indelebili; quelli di un’aula magna gremita di studenti. Il professore in camice bianco dopo poche parole aggiunse: «Oggi non possiamo tenere la lezione, per rispetto; parliamo insieme di quanto è accaduto, riflettiamoci sopra». Con un po’ di timidezza iniziarono gli interventi, tenuti da fazioni contrapposte, ma con l’orgoglio dell’ideale giovanile. Di certo la democrazia era a un bivio, come altre volte in questo paese.
Quel giorno l’Italia rimase attonita. C’era tanta incredulità, di fronte a indagini senza risultato e osservando i manifesti inquietanti delle Brigate Rosse. Aldo Moro era in ogni casa (le nostre), ma veniva tenuto nascosto in qualche appartamento introvabile di Roma. Di quell’uomo fu ferita anche la dignità, con quelle fotografie (proprio loro!) a manifesto dell’accaduto, e di quanto stava avvenendo.
Oggi, di quell’avvenimento, rimane poco. Di sicuro, i vari TG ne faranno menzione: puntualmente. Certo è che quell’Italia tutta rispose con l’ideale, perché allora funzionava così.
Non vogliamo indurre una discussione, ma certi episodi vanno ricordati.
Torniamo a Jerry Lewis, per dire che lui è stato un comico a tutto tondo, originale peraltro. Nonostante sia cresciuto nell’era del sonoro, possiamo dire che le sue smorfie avrebbero fatto un’ottima figura anche nelle pellicole del muto. Faceva ridere anche fisicamente, Jerry; e questo gli faceva trovare spazio in ogni film, senza forzature, con naturalezza. Deve essere ricordato per aver lavorato a lungo di fianco a Dean Marti. Della coppia riportiamo uan fotografia di Philippe Halsman.
Leggiamo la notizia con curiosità. Il 15 marzo 2006 alla base del Ponte di Brooklyn viene rinvenuto un rifugio per i sopravvissuti di un attacco nucleare su New York. Al suo interno era ammassato quanto necessario per un lungo soggiorno, tra cui acqua e cibo. Si pensa sia stato costruito negli anni ’50, quando la paura atomica era molto sentita.
Tutti conosciamo il ponte che collega Brooklyn a Manhattan, anche perchélo si è visto in molti film, tra questi: Manhattan, La febbre del sabato sera, Godzilla, Deep Impact e molti altri.
Il Ponte di Brooklyn, costruito tra il 1869 e il 1883, fu il primo ponte a utilizzare l'acciaio per i cavi. Sin dalla sua costruzione, il ponte è diventato un punto di riferimento della città di New York, poi designato come monumento storico nazionale. Venne progettato da John Augustus Roebling, che morì all'inizio della costruzione. Suo figlio, Washington Roebling, subì un attacco paralizzante dopo aver assunto la carica d’ingegnere capo. Confinato nel suo appartamento a Brooklyn, Roebling continuò a dirigere le operazioni con l'aiuto di sua moglie, Emily Warren Roebling, osservando i lavori al binocolo.
La campata principale del ponte di Brooklyn, lunga 486 metri, era la più lunga del mondo fino al completamento del ponte a sbalzo sul Firth of Forth in Scozia nel 1890. Le torri sono costruite in pietra calcarea, granito e cemento. Trasporta sia il traffico automobilistico che quello pedonale. Una caratteristica distintiva è l’ampia passeggiata sopra la carreggiata, che John Roebling descrisse con queste parole: «In un’affollata città commerciale avrà un valore incalcolabile».
Il ponte venne inaugurato il 24 maggio 1883, alla presenza del presidente degli Stati Uniti. La sua architettura ha ispirato poeti, in particolare Walt Whitman, Hart Crane e Marianne Moore, e una legione di fotografi e pittori, tra cui Joseph Stella, John Marin, Berenice Abbott e Alfred Eisenstaedt.
Ci troviamo al 35 di boulevard des Capucines. Lo studio di Nadar, ricco di vetrate, metteva in mostra una grande insegna, costruita dal padre dei fratelli Lumière, Antoine. Già, perché nello stesso viale, poco più in giù, il 28 dicembre 1895, al Salon indien du Grand Café veniva presentato il primo spettacolo cinematografico a pagamento. Coincidenze? Forse, ma di certo non è un caso che nello studio di Nadar si sia tenuta la prima mostra dei pittori impressionisti: guardava avanti, il nostro; e per questo può essere considerato un autore.
Anche Antoine Lumière era un visionario e vedeva lontano. Solo lui poteva lanciare lo spettacolo filmico in sala e, con un po’ di curiosità, lo immaginiamo mentre cerca un locale nel quale proporre al pubblico le proiezioni del “Cinématographe Lumière”. Lo aiuta Clément Maurice, un vecchio impiegato di Monplaisir, stabilitosi a Parigi come fotografo. Come abbiamo visto, gli viene proposto il Salon indien du Grand Café e forse all’inizio deve essere stata una delusione.
Siamo a fine anno e vengono mandati alcuni inviti. La data fissata è per sabato 28 dicembre 1895. La formazione operativa si presenta al completo: c’è un cassiere, un “macchinista” e un assistente per cambiare le bobine.
Fa freddo e i giornali parlano poco dell’evento. Fuori dal locale compare uno striscione che recita: "Cinematographe Lumière, entrée un franc". La sera della prima si presentano trentatré spettatori paganti, per un programma di circa mezzora.
Alla fine della rappresentazione scoppiò il delirio, tutti si domandavano come fosse stato possibile raggiungere un risultato simile. Nei giorni successivi, sono migliaia gli spettatori che scendono le scale del seminterrato del Salon Indien. Nasceva il cinema, quello che ancora oggi frequentiamo.
Per rispettare la cronaca ricordiamo che i fratelli Lumiere organizzarono la prima proiezione privata usando un Cinématographe il 22 Marzo 1895, a Parigi. L’evento avviene nelle stanze della Società d’incoraggiamento dell’industria nazionale di Parigi e venne proiettato “L’uscita dalle officine Lumière”, il primo film firmato dai fratelli Lumière. La durata è di circa 40 secondi e mostra un gruppo di operai, in gran parte donne, che escono dalla fabbrica Lumière a Montplaisir, alla periferia di Lione.
Antoine Lumière, note biografiche
Nato a Ormoy (Alta Saona), il 13 marzo 1840, Antoine Lumière fu una personalità forte, uno spirito artistico e anticonformista, come testimonia la sua attrazione per la pittura e il canto, ma soprattutto il modo col quale stimolò e curò l'invenzione dei suoi figli. Sposato a 19 anni, Antoine si afferma a Besançon come pittore, poi come fotografo. Fu in questa città che nacquero i suoi primi due figli: Auguste, nel 1862 e Louis, nel 1864.
Nel 1870, la famiglia Lumière fuggì dall'est della Francia di fronte alla minaccia prussiana e arrivò a Lione. Imprenditore nato, Antoine apre uno studio fotografico nel centro della città. Segue da vicino l'avanzamento delle invenzioni nel campo delle immagini animate senza tralasciare di osservare da vicino il percorso scolastico dei suoi figli: Louis e Auguste sono studenti a La Martinière, il più grande liceo tecnico di Lione.
Fu il più giovane, Louis, a sviluppare una lastra a secco chiamata Etiquette bleue, che avrebbe portato fama e successo finanziario all'azienda di famiglia. Per fabbricare e commercializzare i piatti fotografici, Antoine Lumière acquistò poi un vasto appezzamento di terreno a Monplaisir, alla periferia di Lione. I suoi figli lo aiutavano spesso nel lavoro tanto che la fabbrica è passata nelle mani dei due fratelli nel 1893. Nell'autunno del 1894, Antoine Lumière si rivolge a loro perché s’interessassero alle immagini animate sulle quali Thomas Edison e altri si stavano prodigando. Questo incoraggiamento paterno ha rappresentato il punto di partenza dell’avventura che sarebbe arrivata all’invenzione del “Cinématographe Lumière”.
Antoine Lumière ha aiutato i figli nel faticoso cammino verso il successo ed infine, ormai cinquantacinquenne, è stato filmato dai figli come omaggio e introdotto con il ruolo di primo attore nel film muto del 1895: “La partita a carte”.
Antoine Lumière è morto nel 1911 a Parigi ormai settantunenne per cause naturali.
(Fonte: Institut Lumiére)
Gertrude Käsebier, note biografiche
Gertrude Stanton (cognome da nubile) nacque il 18 maggio 1852 a Fort Des Moines. Il padre gestiva una segheria a Golden all'inizio della corsa all'oro del 1859, e prosperò grazie al boom edilizio che ne seguì. Nel 1860, quando aveva otto anni, Gertrude con la madre e il fratello minore raggiunsero il padre, che in quello stesso anno fu eletto sindaco di Golden, allora capitale del Territorio del Colorado.
Nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, nel 1874, sposò il ventottenne Eduard Käsebier, proveniente da una famiglia aristocratica tedesca, che godeva di una buona posizione sociale.
Formatasi presso il Pratt Institute alla fine del XIX secolo, si affermò rapidamente come fotografa pittorica - parte di un movimento devoto al mezzo come forma d'arte - e si concentrò su ritratti e temi come la maternità. Per evocare un'atmosfera eterea e distinguere le sue stampe da quelle di fotografi commerciali e fotografi amatoriali, Käsebier combinava la manipolazione con una delicata gamma tonale.
Nel 1898, dopo aver assistito all'arrivo della troupe del Wild West Show davanti al suo studio sulla Quinta Strada, Käsebier decise di inviare una lettera a Buffalo Bill per chiedergli il permesso di fotografare i membri della tribù Sioux che viaggiavano con lo spettacolo. All'approvazione della sua richiesta, iniziò nell'aprile del 1898 il suo progetto artistico, che si protrasse fino al 1912, senza alcuno scopo commerciale.
Come membro principale del gruppo di pittorialisti Photo-Secession, fondato nel 1902 da Alfred Steiglitz, Käsebier contribuì con il suo lavoro alla loro influente rivista Camera Work Käsebier lasciò formalmente il gruppo nel 1912 e in seguito contribuì a fondare diverse organizzazioni professionali.
“Guadagno i miei soldi e pago le mie bollette", ha detto del lavoro svolto nel suo studio, noto per la sua atmosfera confortevole e l'arredamento sobrio. Tra i partecipanti c'erano l'attrice Evelyn Nesbit, l'architetto Stanford White, l'autore Mark Twain, l'artista Robert Henri e i fotografi F. Holland Day e Edward Steichen.
Käsebier rimase influente fino alla sua morte nel 1934, anche se i gusti si spostarono verso immagini più mobili e meno manipolate. Steichen, il pittorialista diventato modernista, che sarebbe diventata curatore al MoMA, rimase devoto al suo lavoro. I fotografi che lavorarono o fecero l'apprendistato nello studio di Käsebier includono Alice Austin, Alice Boughton, Alvin Landon Coburn e le sorelle Williamina e Grace Parrish. Il loro rispetto può riflettere la sua filosofia: "La chiave della fotografia artistica è elaborare i propri pensieri", ha detto Käsebier. “Se una cosa è buona, sopravvivrà”.
(Fonte: MoMA)
Le fotografie
Antoine Lumière nello studio a Lione.
Antoine Lumière. Ph. Gertrude Käsebier
Ricordiamo ancora la telefonata: «E’ morto Giovanni Gastel». Pareva impossibile, eppure lui è andato via così, all’improvviso, senza avvisarci. Ci viene in mente ancora la sua disponibilità, sommata a una generosità spontanea, voluta, naturale. Giovanni, per chi scrive, è stato l’amico desiderato, quello che ti abbraccia a ogni incontro, colui che sa comprenderti solo con lo sguardo, la persona alla quale avresti voluto spedire la lettera del cuore. Sono mancate le parole, però, per anni; era più facile ascoltarlo, anche da lontano, quando non c’era.
I ricordi ci portano a un lungo viaggio in autostrada. Giovanni si era reso disponibile a parlare di fotografia in un piccolo paese dell’Appennino bolognese, in umiltà e con eleganza, mostrando l’atteggiamento di sempre. Fece vedere le sue fotografie, in quell’occasione, mostrando per prime quelle che lui riteneva “brutte”. Da lì iniziò la sua lezione, con queste parole: «Spesso si disquisisce sulla fotografia, sul suo linguaggio, se possa o debba essere naturale o meno. La grande qualità è abbattere la barriera tra quello che sei e ciò che fai. Se l’operazione riesce, non si rischia nulla: tantomeno la volgarità». E’ poi emersa la tematica dell’eleganza e alle tante domande a riguardo lui ha risposto così: «La mia non è mai fine a se stessa. Ricevo tanti impulsi da quello che succede fuori e io riorganizzo un piccolo pezzo di realtà, dove le regole sono quelle che decido. Descrivo il mondo per come mi piacerebbe che fosse. L’eleganza vera non è mai stucchevole. Che dire? E’ la mia lettera nella bottiglia. Se sei elegante, puoi dire tutto; affrontando qualsiasi argomento: dalla moda, fino al dolore. La fotografia è bambina».
Ha poi parlato di sé, Giovanni, partendo da lontano: «Ho iniziato prestissimo, da piccolo. Ricordo la poesia, a 14 anni, poi subito dopo ecco comparire la fotografia. Ricordo che ho aperto uno studio in via Mascagni che non ero neanche ventenne, con peraltro tutta la famiglia contro. Avevo al mio fianco un amico. Con lui ho condiviso tutto: i giochi d’infanzia, le rive del lago, i diciotto anni, il militare, il lavoro. Abbiamo anche sposato due sorelle. Sono arrivati i primi servizi di matrimonio (non c’era la moda allora) e i lavori generici di fotografia».
Ecco un sentimento importante: l’amicizia. Giovanni aveva tanti amici ed era molto amato. Crediamo altresì che abbia vissuto questa situazione con difficoltà, perché diceva: «Tutti siamo unici e irripetibili, ma mettersi in mostra, creando, significa scegliere la solitudine e pochi riescono ad affrontarla». Già, ma lui rasserenava tutti, prendendosene cura.
La fotografia ha perso un amico.