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LO SGURDO DI MIMMO JODICE

«Gli occhi di Mimmo sono tra i più limpidi della fotografia italiana. Il suo sguardo su Napoli, sul Mediterraneo, sulla memoria archeologica e architettonica che ci circonda e ci definisce è colto e penetrante. Merita il successo internazionale che si è conquistato a forza di lavoro e caparbietà». Queste parole sono quelle che Ferdinando Scianna dedica al fotografo napoletano Mimmo Jodice, quelle che accompagnano il suo ritratto. Le abbiamo colte in “Visti e Scritti” (Edizioni Contrasto)./p

Mimmo Jodice nasce nel rione Sanità, un ambito popolare dal quale, evidentemente, ha imparato molto. Lì ha trascorso infanzia e gioventù, respirandone i valori, quali l’umiltà e la caparbietà. Non è mai stato un personaggio, e la sua spontaneità gli ha aperto le porte per una lettura schietta dell’Italia. Sfogliano il suo libro “Perdersi a Guardare”, notiamo bianchi limpidissimi e neri profondi; il tutto in un rigore compositivo visto e non solo pensato. C’è poi il silenzio, nelle sue fotografie: quello dell’arte e del tempo, entrambi condensati nella genesi di un sogno. Già perché nelle immagini che sfogliamo non esiste solo il rispetto per il rilievo storico, archeologico e architettonico; ma emerge un pertugio per la fantasia: quella onesta, che non permette di fuggire altrove.

Forse ha ragione Scianna: lo sguardo di Jodice è limpido, perché elimina le foschie dei luoghi comuni, del già visto, della presunzione di un riconoscimento. Le opere d’arte, i luoghi, le sculture emergono con forza, perché libere di esprimersi col pensiero che li hanno accompagnati. Le fotografie di Jodice scovano il tempo, non lo segnano; il che genera un vortice dove l’idea di chi vede può muoversi con agilità. E’ probabile che tutto questo si chiami sogno fatto d’arte, non una cosa da poco.

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GLI OCCHIALI, RACCONTO …

pSi sentiva a suo agio in quella casa, forse per il fatto di conoscerla da sempre, più probabilmente perché sentiva che molti ne apprezzavano il calore e l’ospitalità. Lì erano cresciute le sue due figlie e pure un nipote; e poi, per molti quell’appartamento aveva rappresentato un riferimento importante: un luogo dove ritrovarsi, per comprendere; traendo consolazione da un tempo che sembrava rallentarsi, diventando più disponibile. Armida era felice di questo, consapevole di essere stata utile o, semplicemente, solo presente; oltremodo arricchita dalle tante vite che aveva potuto conoscere.
Non era comunque questo che l’avrebbe resa felice quella mattina, o almeno non solo. Di sicuro si sarebbe ritrovata in un mondo consolidato, fatto di gesti naturali e rumori consueti: tutti in suo soccorso. Era il suono a farle capire che aveva aperto del tutto la tenda del secchiaio, o un tonfo cupo a suggerirle la completa chiusura del frigorifero.
Sì, Armida ci vedeva poco; anzi, quasi per niente. Per capire se un fornello era acceso doveva avvicinare, con cautela, la mano alla fiamma. Tatto e udito erano tutto per lei uno modo “per vedere” inconsueto, però collaudato. Ma ormai ci aveva fatto l’abitudine; anzi, alle volte le pareva di scorgere realtà non percepite dai più: anche di fronte ai bagliori di un TV o alle ombre di una fotografia.
Quella mattina si era svegliata di buon’ora. La finestra lasciava entrare una luce biancastra e indistinta; mentre la stanza tutta emanava un odore fatto di legno e cose antiche. Seduta sul letto, coi piedi cercava le ciabatte, allineate meticolosamente la sera precedente. Dopo sarebbe stata la volta del bicchiere semivuoto, sul comodino: da trovare anch’esso con calma e cautela.
Armida poggiò un lato della mano sul marmo del piccolo mobile; quando ne riconobbe il freddo, allungò le dita fino a toccare “del vetro” con un’unghia. Il bicchiere si spostò appena, poggiandosi sul bordo basso di una fotografia. L’immagine si allargò in maniera innaturale, eppure lei ne intuì il ricordo: troppo lontano per venire dimenticato. L’avevano ritratta con la sorella al suo fianco, tanti anni prima. Qualcuno sul retro aveva scritto: Porretta Terme, estate 1935; ma lei poteva solo rammentarlo.

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COSE MAI VISTE

Riconosciamo l’ascensore, stretto e cigolante, profumato di legno. Sale lentamente, lungo i piani, esaltando l’attesa. Il maestro Gianni Berengo Gardin vuole mostrarci il suo ultimo libro, numero 263. Ci accoglie sulla porta, con la gentilezza antica di sempre; poi lo seguiamo lungo le scale che portano in mansarda. Ne riconosciamo l’odore, di libri e fotografia. Sui tavoli, il solito ordine: un rigore che il maestro s’impone da una vita, e che forse fa parte del suo modo di vedere. Il libro è consistente, quasi grande potremmo dire: diviso in due atti.

Non c’è il Vaporetto, in ciò che sfogliamo, e nemmeno la bambina che corre in Piazza San Marco: tutto è nuovo, inedito, fresco. L’impatto è talmente forte, che ci appare un Berengo nuovo: non solo perché mai visto, ma per il fatto di mostrarsi in maniera differente. Sarà una suggestione, eppure le inquadrature ci appaiono maggiormente azzardate, con uno sguardo ravvicinato, a volte intrusivo. Il racconto, quello sì, è sempre lo stesso, sviluppato con costanza in ogni scatto, con anche un acuto gioco di contrasti nel contenuto.
Lui ricorda tutto, con lucidità, come se avesse fotografato ieri: indice di un pensiero fotografico sempre acceso, attivo, pure senza fotocamera.

Ci sarebbe piaciuto sapere di più, anche circa la decisione di produrre un libro d’inediti; ma il maestro è avaro nelle parole, anche dopo le domande più intriganti. Gli abbiamo chiesto: «Con quale fotografia sei stato consapevole di aver svolto un lavoro importante?». La risposta è stata tassativa: «Col Vaporetto». Di certo però quell’immagine non ci manca, almeno oggi di fronte all’ultimo libro. Tiriamo le somme sulla gente comune, che nelle immagini del fotografo ligure emerge con forza, brillando come in un teatro fatto apposta. Già, qui sta il punto: Berengo riconosce centro d’attenzione e contesto, soggetto e contorno, lasciandoci al silenzio delle nostre riflessioni. Questa è la sua fotografia.

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UN FOTOGRAFO TRA I GHIACCI

Oggi incontriamo Herbert Ponting, un fotografo che ha accompagnato, documentandola, parte della spedizione Terra Nova, capitanata da Robert Falcon Scott; quella che avrebbe dovuto raggiungere il Polo Sud prima del rivale norvegese Roald Amundsen. L’avventura da subito si rivelò difficile, soprattutto per problemi logistici. Scott e altri quattro raggiunsero il Polo Sud il 17 gennaio 1912, ma trovarono la bandiera piantata da Amundsen.

Il viaggio di ritornò risultò ben peggiore dell’andata. Gli uomini si ritrovarono allo stremo delle forze per il freddo estremo, in preda allo scorbuto e a congelamenti. Scott fu l’ultimo a morire.
Sull’ultima pagina del suo diario, scritta in data 29 marzo 1912, leggiamo: «Combatteremo fino all’ultimo, ma ovviamente siamo sempre più deboli e la fine non può essere lontana. È un peccato, ma non penso di poter scrivere di più. Per l’amore di Dio, prendetevi cura delle nostre famiglie».

Le fotografie scattate da Ponting risultano straordinarie anche agli occhi di oggi. Cerchiamo d’immaginare a cosa andò incontro la spedizione antartica: freddo e ghiaccio oltre la sopportazione umana. L’attrezzatura probabilmente era rudimentale, ma i risultati ottenuti paiono smentire quest’idea. L’esplorazione ai tempi era pura avventura.

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