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RICORDANDO ALDO MORO E QUEL ‘78

Erano le ore 9 (o poco più) del 16 marzo del 1978; a Roma il presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro veniva rapito da un commando delle Brigate Rosse. Durante l’azione terrorista, avvenuta in via Mario Fani (quartiere Trionfale), furono uccisi i cinque uomini della scorta. Iniziava così la lunga fase del rapimento Moro, che si concluse con la sua uccisione dopo 55 giorni.

Quel giorno l’Italia entrò in uno stato d’ipnosi. Per cinquantacinque giorni tutti gli italiani rimasero incollati a radio e televisione. C’era tanta incredulità, di fronte a indagini senza risultato, mentre si susseguivano i manifesti inquietanti delle Brigate Rosse. Aldo Moro entrava in tutte le case (le nostre), ma veniva tenuto nascosto in qualche appartamento introvabile di Roma. Di quell’uomo fu ferita anche la dignità, con quelle fotografie (proprio loro!) a emblema dell’accaduto, e di quanto stava avvenendo. Oggi, di quell’avvenimento, rimane poco. Certo è che quell’Italia tutta rispose con l’ideale (e l’ideologia), perché allora funzionava così. Del resto la nazione si trovava di fronte a un bivio, ma una direzione era stata cancellata.
Certi episodi vanno ricordati; e per una volta la fotografia non illustra il bello, rievocando semplicemente ricordi: com’è capace di fare.

Restano i ricordi giovanili, indelebili; quelli di un’aula magna gremita di studenti. Il professore, in camice bianco, dopo poche parole aggiunse: «Oggi non possiamo tenere la lezione, per rispetto; parliamo insieme di quanto è accaduto, riflettiamoci sopra». Con un po’ di timidezza iniziarono gli interventi, tenuti da fazioni contrapposte, ma con l’orgoglio dell’ideale giovanile. Di certo la democrazia era a un bivio, come altre volte in questo paese.

Gli anni ’70 non erano stati facili, “di piombo” li avevano definiti. Nel ’74 una bomba scoppiava sul treno Italicus, ma altre esplosioni avrebbero fatto vittime: quella della stazione di Bologna (1980) e un’altra sul rapido 904 (1984). Prima e dopo, il terrorismo continuava la sua strategia, ormai diventata storia; che comunque è giusto ricordare.

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LA GIORNATA DEL PI GRECO

Il 14 marzo (come ieri) si celebrava la giornata mondiale del “Pi” Greco (π, nelle formule). La ricorrenza si festeggia ogni anno il 14 marzo, perché nel sistema anglosassone la data si scrive 03/14, come le prime tre cifre del Pi Greco. La festa è nata nel 1988 grazie al fisico statunitense Larry Shaw, che organizzò i primi festeggiamenti al museo di scienze Exploratorium di San Francisco. Ironia della sorte, la data coincide anche con il compleanno del famoso matematico Albert Einstein.

Il famoso 3,14 è una costante matematica (detta anche di Archimede) e indica il rapporto tra la misura della lunghezza della circonferenza e la misura della lunghezza del diametro di un cerchio. I ricordi vanno alla scuola, quando il 3,14 complicava un po’ le cose, questo perché nei calcoli comparivano irrimediabilmente dei numeri con la virgola. Per calcolare la lunghezza di una circonferenza si moltiplicava la lunghezza del suo diametro per Pi greco oppure la lunghezza del suo raggio per 2 Pi greco. E poi c’erano le formule, tante; tutte da imparare a memoria per risolvere i problemi, sempre con delle virgole.
Da ragazzini, ai tempi di chi scrive, non si riconosceva l’importanza dei numeri, anche se dagli scienziati venivano usati per calcoli importanti, come accade per il nostro 3,14. Nei compiti “a casa” compariva spesso una semisfera che un rubinetto riempiva d’acqua in un certo tempo, perché poi? Mistero.
Le cose sono cambiate col tempo, quando il 3,14 è diventato un simbolo da portarsi dietro nei calcoli. All’orizzonte comparivano le versioni di latino e la ragazza del primo banco, bionda senza saperlo; oggi membro del gruppo “classe liceale” su Whatsapp. Non è la stessa cosa, però.

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UNA FOTOGRAFA SCONOSCIUTA

Nel giorno in cui nasce Diane Arbus (14 marzo 1923), incontriamo un’altra donna fotografa, sconosciuta però: Franziska Möllinger. Come abbiamo ricordato l’8 marzo, agli albori “dell'arte”, fare la fotografa non doveva essere semplice: sia da un punto di vista fisico (treppiedi, grandi lastre), ma soprattutto imprenditoriale. Era la situazione sociale femminile a non far debuttare la donna dietro l'obiettivo. Non a caso, le prime fotografe che si rammentano, Julia Margaret Cameron (1815, 1879) e Lady Clementina Hawarden (1822, 1865), vivevano una situazione economica agiata, in un ceto sociale aristocratico.
E' comunque tra le “appassionate” che dobbiamo cercare il mondo femminile della fotografia. “L'autore donna” (con nome e cognome) comparirà più tardi e non tra gli studi dell'ottocento. Lavorando a fondo in quell'ambito, si potrà notare come la “quota rosa” non fosse così modesta, nonostante tutto; e Franziska Möllinger ne è un esempio.

La scoperta del dagherrotipo esce dai confini francesi e un’altra donna ne divulga il linguaggio. Si tratta di Giuseppina (Josephine) Dubray, allieva di Daguerre; e fa parte di quei fotografi, allora chiamati itineranti, che lasciano la Francia e si dirigono in Germania, Inghilterra e Italia.
Josephine arriva a Genova, prima tappa del suo viaggio italiano, nel 1842 e diventa madre di un bambino battezzato Luigi Augusto (il cognome è Dubray, perché di padre ignoto. La fotografa andrà prima a Parma, e in Romagna e a Bologna, per finire a Milano. Insegnerà anche fotografia, il che testimonia una forte passione.

Un rammarico: di Franziska e Giuseppina non siamo riusciti a scovare una fotografia che le ritraesse, in nessun testo storico. Peccato.

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FOTOGRAFIA DA LEGGERE …

Consueto appuntamento del lunedì con “Fotografia da leggere”. Questa volta affrontiamo il tema dell’autoritratto, diffuso tra gli autori al femminile. Ecco quindi il libro che incontreremo: “Francesca Woodman, gli anni romani tra pelle e pellicola”, di Isabella Pedicini (Edizioni Contrasto).

«Non esistono autoritratti inutili. Raccontano tutti una storia; ma non dicono cosa è successo, dicono perché». Ciò che emerge dalle fotografie della Woodman è lo slancio e anche la determinazione della scelta, tra spazio e tempo: il primo è ben definito (spesso chiuso in un ambiente), il secondo enfatizzato dal quando e soprattutto dal come (frequenti sono i mossi). Al di là delle interpretazioni, femminismo e/o fotografia al femminile, ciò che si coglie guardando le immagini della Woodman è vera fotografia, pur se concentrata nell’autoritratto. Lei ha preso le distanze dalla vita, togliendosela; ma nelle fotografie che scorgiamo nel volume, come scrive l’autrice, si coglie un attaccamento al mondo, un forte abbraccio ad esso.

Il libro è ricco d’immagini, anche di autoritratti scattati da altre fotografe. Ci avvicina comunque alla fotografa americana, alla sua cultura, a una formazione attenta. Il mistero di una vita così breve rimane inalterato, ma nelle righe è possibile girarvi attorno, cercarvi una via d’accesso. «Cosa succede quando si volta la macchina verso se stessi?», si legge nel libro di Concita De Gregorio, «Uno spettacolare testacoda. Il mondo passa attraverso l’obiettivo, poi torna indietro a cercarsi». Apprezziamo anche questo nel libro che abbiamo tra le mani.

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